Una formazione a “tre punte” per la smart innovation
Buone idee, una nuova tipologia di skills giuridici ed amministrativi e in/formazione ai cittadini, attraverso i dipendenti pubblici che diventano dei veri e propri “evangelist”, ovvero dei diffusori di conoscenza sull’innovazione. Questo il modello di attacco a tre punte che Gianluca Vannuccini, ricorrendo al paragone calcistico, propone per realizzare nella PA una innovazione che possa dirsi intelligente.
30 Agosto 2012
Gianluca Vannuccini
Buone idee, una nuova tipologia di skills giuridici ed amministrativi e in/formazione ai cittadini, attraverso i dipendenti pubblici che diventano dei veri e propri “evangelist”, ovvero dei diffusori di conoscenza sull’innovazione. Questo il modello di attacco a tre punte che Gianluca Vannuccini, ricorrendo al paragone calcistico, propone per realizzare nella PA una innovazione che possa dirsi intelligente.
Smart innovation”, preso alla lettera, potrebbe essere anche declinato, per una volta tanto, senza associarlo troppo al concetto di smart city, bensì intendendolo proprio come “innovazione intelligente”.
Quindi, quali sono le strategie per fare in una Pubblica Amministrazione una forma di innovazione che si possa chiamare “intelligente”? Tenendo conto della spending review e anche degli errori “del passato”? Me lo sono chiesto, e usando impropriamente il paragone calcistico, da totale ignorante in materia quale sono, io penserei ad una formazione con un modello di attacco a “tre punte”.
L’ala sinistra della terzina di attacco me la giocherei sulla valorizzazione interna delle buone idee. Se un Ente sta lì buono buono ad aspettare la solita minestra standard che il commerciale di turno ha dentro il suo iPad, senza aggiungere un po’ di sale e pepe con idee proprie, difficile creare qualcosa di veramente innovativo. Non è facile farsi venire buone idee nella PA di oggi, ancora più difficile è metterle in pratica in queste condizioni, con un numero di vincoli e di forze uguali e contrarie sempre crescente. Avere buone idee non significa necessariamente mettere in piedi enormi e fantasmagoriche infrastrutture IT, ma può anche essere sufficiente unire i puntini delle azioni già messe in campo, declinando però il tutto in una forma utile e semplice da usare per i cittadini.
La seconda punta (centravanti di sfondamento, si dice così?) me la gioco sulla componente giuridico-amministrativa. Se non c’è un framework di regolamentazione che prepara il terreno all’innovazione, la rende realizzabile nei modi migliori dal punto di vista economico (il che significa sempre più auto-sostenibilità dell’innovazione) e tutela fruitori e produttori di innovazione, si va poco lontano. Ho sentito ripetere molte volte questa frase: “I tecnici, lasciati da soli, possono fare ben poco”: è vero che è un luogo comune, ma per quanto venga ripetuto, i tecnici negli Enti vengono spesso ancora abbandonati ai loro “balocchi” di turno.
Il recente bando di finanziamento per le Smart City, di cui tanto si parla oggi, prevede un approccio per cui i finanziamenti, e quindi le infrastrutture, vengono focalizzati sulle imprese. Per cui, potrà anche accadere che, un domani, le città potranno possedere reti di sensori come oggi alcune posseggono reti in fibra ma, dall’impostazione attuale, appare più probabile che le nuove infrastrutture di cablaggio delle città intelligenti saranno di proprietà di aziende IT.
D’altronde Jeremy Rifkin, di recente intervenuto ad Amsterdam sulle potenzialità economiche delle smart cities, ci insegnava già un po’ di tempo fa che il “possedere”, nell’era dell’accesso, va sempre meno di moda…per cui esortava a minimizzare gli asset posseduti, privilegiando il concetto di “accesso”, ossia, tradotto, il leasing, l’outsourcing, e detto in termini più moderni, il cloud computing. Peccato che privilegiare l’accesso, il “service”, rispetto alla proprietà di un bene (o di un software) significhi in termini pratici, spostare voci di costo dal bilancio straordinario, oggetto di finanziamenti o comunque meno legato ai vari patti di stabilità o simili, verso bilancio corrente, in cui invece la scure dei tagli si abbatte inesorabile.
E ci troviamo quindi a un paradosso, in cui un trend globale spinge verso l’accesso, il cloud computing, la dematerializzazione dei documenti, dei server e degli stessi data center, mentre chi stringe i cordoni della borsa parla tutt’altra lingua.
Ed ecco perchè il ruolo del nostro centravanti di sfondamento diventa, rispetto agli uffici tecnici, non più a “supporto di”, come spesso si legge nei nomi degli uffici giuridico-amministrativi, ma proprio “abilitante per”. Nel senso che, se manca l’azione di preparazione giuridico-amministrativa che rende l’innovazione sostenibile in questo contesto, il prodotto dell’innovazione neanche esce dalla fase progettuale o prototipale, ed è molto probabilmente destinato a rimanere in un cassetto.
Occorrono quindi nuove forme amministrative su come creare valore dai progetti di innovazione, che sia immediatamente tangibile per i cittadini, e sostenibile sia in termini di bilanci della PA, che di opportunità di mercato sul territorio.
Occorre andare oltre le classiche questioni relative al Codice dell’Amministrazione Digitale, che impattano ormai sempre più aspetti giuridico-amministrativi che tecnici, ed affrontare le nuove problematiche giuridico-amministrative introdotte dai cosiddetti “government 2.0” e “government 3.0”.
Che tipo di licenza associare ad una app caricata sullo store a nome di una PA? Nei paesi dove il passaggio del pubblicare apps sullo store commerciale è stato superato (tipicamente negli Stati Uniti), adesso si pone l’accento sullo store governativo – accennato anche recentemente dal Ministro Profumo – in questo modo creando un involucro “protetto” e circoscritto alla PA (in cui trovano anche posto apps ad uso interno per i dipendenti della PA).
Ma in Italia? Quali rischi si corre ad esporre una app su uno store commerciale a nome di un Ente? E a comprare una app sviluppata da uno studente durante un civic hackaton? A quale articolo del Codice dei Contratti riferirsi? Quale articolo del CAD mi aiuta ad affrontare con serenità questo mondo?
E come gestire e regolamentare la diffusione in città di sensori associati ai cittadini? Come interpretare al meglio i provvedimenti del Garante per la Privacy sui dispositivi mobili applicati agli scenari con reti di sensori, e con interazioni basate su Near-Field-Communication? Ecco che una nuova tipologia di skills giuridici ed amministrativi viene sempre più a galla. Spero che qualcuno stia già pensando ad inserire questi temi nelle nuove prove concorsuali pubbliche, altrimenti il gap fra le nuove generazioni di amministrativi e le reali esigenze della ”innovazione intelligente” sarà incolmabile. Inoltre, gli Enti che trovano risposte operative a questo tipo di domande, potrebbero anche innescare dei processi di riuso di convenzioni, di modelli organizzativi cittadini, di accordi-quadro, che potrebbero poi essere replicati in modo virtuoso dalle altre città.
Ed eccoci finalmente alla terza punta, l’ala destra del trio d’attacco: la componente legata alle persone, alla comunicazione, alla formazione.
E voi direte, ancora si parla di formazione? Ma io non sto parlando di formazione ai dipendenti, bensì di in/formazione ai cittadini. La mia personale cartina tornasole – il mio barbiere – che quando gli racconto quello che facciamo mi domanda sempre “si, ho capito, tutto molto bello, ma a me che me ne viene?”, mi fa da faro guida, per costringermi sempre a pormi il problema.
Se prima si parlava di formare i dipendenti ai nuovi saperi necessari (“saper fare”, “saper essere”, etc etc), oggi si tratta sempre più di fare di alcuni dipendenti pubblici dei veri e propri “evangelist”, dei diffusori di conoscenza sull’innovazione, che sappiano parlare il linguaggio della gente, e permettano di far capire anche al mio barbiere di cosa si sta parlando quando gli vengono offerti dei contenuti su una rete wifi, e quali potenzialità ci può vedere, oltre la semplice connettività alla Rete.
Si va anche oltre l’esigenza di creare uno staff per seguire i social media dell’Ente: occorre parlare anche con i cittadini che, ancora, sui social media non ci sono. E’ un processo tutto da disegnare, ma finchè non si affronta, rimarremo sempre con una fetta consistente di popolazione che non saprà di cosa stiamo parlando. Non sono neanche sufficienti i processi di co-design, perché con le risicate forze interne alla PA che sono necessarie per crearli, gestirli, ed elaborarne i feedback, questi processi riguardano sempre un numero veramente ridotto di cittadini.
I due interventi che seguono dimostrano che ci sono esempi di quanto detto sopra, dove questi meccanismi possono scattare, e le molle che scattano sul momento, possono diventare delle leve costanti che, inesorabili, poi producono qualcosa di nuovo nell’Ente e nella città che lo circonda.
Ne abbiamo parlato prima con il Prof. Giovanni Menduni, direttore dell’Area di Coordinamento Innovazione del Comune di Firenze, nonché membro del Comitato Scientifico di Smart City Exhibition, che ci ha raccontato la sua vision sull’innovazione intelligente, e come stia diventando una realtà nella città di Firenze.
L’amico Ger Baron, manager dell’Amsterdam Innovation Motor, ci mostrerà invece come si sia realizzato ad Amsterdam un sistema virtuoso di coinvolgimento di attori pubblici e privati per creare valore per il territorio, a partire dai progetti di innovazione.
Gianluca Vannuccini, un breve profilo