Chi sono i business angel e perché l’Italia ne ha bisogno

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L’editoriale della settimana scorsa di Carlo Mochi Sismondi si concentrava sul sistema delle imprese e sul ruolo che esso ha nell’innovazione del Paese, ma un Paese che vuol crescere con l’innovazione puntando sulle buone idee, sui giovani e sulla valorizzazione di talento e merito deve possedere un’ossatura portante formata dal cosiddetto capitalismo buono. Investitori che credano nelle imprese innovative non solo prestando loro denaro, ma sostenendole nella fase di avvio. Cuore di questo capitalismo buono sono i “business angel“. Abbiamo chiesto al migliore d’Europa Francesco Marini Clarelli di accompagnarci alla scoperta di questa figura così importante, ma ancora poco conosciuta in Italia.

31 Maggio 2011

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Tommaso Del Lungo

Articolo FPA

L’editoriale della settimana scorsa di Carlo Mochi Sismondi si concentrava sul sistema delle imprese e sul ruolo che esso ha nell’innovazione del Paese, ma un Paese che vuol crescere con l’innovazione puntando sulle buone idee, sui giovani e sulla valorizzazione di talento e merito deve possedere un’ossatura portante formata dal cosiddetto capitalismo buono. Investitori che credano nelle imprese innovative non solo prestando loro denaro, ma sostenendole nella fase di avvio. Cuore di questo capitalismo buono sono i “business angel“. Abbiamo chiesto al migliore d’Europa Francesco Marini Clarelli di accompagnarci alla scoperta di questa figura così importante, ma ancora poco conosciuta in Italia.

Qualche settimana fa a Varsavia la rete europea dei business angel (EBAN) ha nominato il migliore tra tutti: è l’italiano Francesco Marini Clarelli. Ma chi è un business angel, cosa fa e perché il suo ruolo è importante per un territorio che vuole puntare sull’innovazione? Lo abbiamo chiesto proprio a Marini Clarelli che, come Presidente dell’Italian Angels for Growth, un’associazione no-profit nata nel 2007, ha aiutato decine di idee a diventare impresa con investimenti dai 200 a 500 mila euro.

“Il business angel – spiega – è una persona fisica con una certa competenza di tipo imprenditoriale o manageriale che si diletta ad investire in nuove imprese innovative.” Una cosa che ci colpisce subito è il verbo: dilettarsi. Quindi fare “l’angelo” non è un’attività a tempo pieno?
“Assolutamente no – risponde Marini Clarelli – la prima cosa da dire quando si cerca di capire questo tipo di attività è che fare il business angel è, per lo più, una passione o un hobby, non è, e non può essere, l’attività principale. Ovviamente si tratta di un’attività profit, cioè dietro ad ogni investimento che pratichiamo c’è l’attesa di un ritorno economico, ma la tipologia e le caratteristiche dell’investimento sono molto più simili alla passione che al calcolo finanziario”. 

Cominciamo dal principio

Il nome “business angel” nasce in America nel XIX secolo quando alcuni personaggi cominciano a finanziare (più per passione che per calcolo) gli spettacoli di Broadway. Da qui l’attività si estende e comincia a descrivere quel tipo di investimento in nuove aziende che interviene nel momento in cui i soldi dell’imprenditore non bastano più, ma le dimensioni dell’impresa non attraggono ancora i venture capitalist. Questi ultimi infatti sono i veri professionisti dell’investimento e generalmente non prendono in considerazione interventi al di sotto di una certa cifra. “Per loro infatti – spiega Marini Clarelli – investire 200 mila euro o 2 milioni richiede lo stesso sforzo, quindi, per ragioni di opportunità preferiscono intervenire quando una azienda ha superato un primo livello di sviluppo e necessita di un capitale sostanzioso per decollare definitivamente”. 

Il capitalismo buono, risorsa per il Paese

Insomma gli "angeli" vanno a caccia di innovazione e di nuovi imprenditori. L’obiettivo è semplice, aiutare la startup in cui hanno investito a crescere, per poi guadagnare dalla vendita totale o parziale della propria quota. Ciò che il business angel offre all’azienda in cui ha scelto di investire non è, dunque, solo capitale, ma soprattutto tutoraggio, pubbliche relazioni, consulenza, e sostegno manageriale. La molla che fa scattare tutto, però, è l’innovazione che, per Francesco Marini Clarelli “non è solo tecnologia, ma, più in generale, è qualunque modo nuovo di realizzare o proporre un prodotto o un servizio, anche già esistente, ma a minor costo, o di migliore qualità”.
“Siamo capitalisti buoni – continua –  a cui sta molto a cuore l’impatto sociale che una giovane impresa ha sul territorio, tanto più se innovativa. Puntare sulle nuove imprese è il modo più sano di far crescere l’economia di un Paese e creare nuova ricchezza per tutti: per lo Stato, per i lavoratori, per l’indotto, per gli imprenditori e anche per gli investitori”.

Negli Stati Uniti nel 2010 i business angel hanno investito oltre 20 milioni di dollari, quasi quanto i grandi investitori, ma con cifre molto minori per ogni singolo intervento, questo vuol dire che oltre ad essere molto numerosi, sono anche bene organizzati e capaci di cogliere le opportunità. Ma in Italia – chiediamo incuriositi – è possibile praticare questo tipo di attività?
“L’Italia è un paese strano. Da una parte è estremamente fervido dal punto di vista della fantasia e della propensione all’imprenditorialità (non a caso abbiamo il più alto numero di piccole e piccolissime imprese d’Europa). La nostra associazione Italian Angels for Growht l’anno passato ha analizzato oltre 500 business plan per poi finanziarne 15 e questo è una testimonianza che c’è una gran voglia di fare impresa. Tuttavia l’Italia è decisamente indietro se consideriamo l’attività di investimento. Da noi il numero di venture capital si conta sulle dita di una mano, contro decine e decine in Germania, in Inghilterra, Francia e Svezia. Giusto per fare un esempio ce ne sono dieci volte più in Belgio (grande come la Lombardia) che in Italia. Lo stesso vale per le strutture di investimento “early stage” come i business angel che in Italia sono solo due, contro le decine di paesi non paragonabili al nostro come il Portogallo o la Svizzera”.
Altra cosa strana per un Paese che vive la crisi del settore manifatturiero e che dovrebbe incoraggiare la nascita di nuova occupazione attraverso la creazione di impresa giovane ed innovativa è la fiscalità. “L’Italia – continua Marini Clarelli – ha un sistema fiscale tarato sull’esistente, il che penalizza non poco le nuove aziende”.
Infine ultimo elemento problematico tipicamente italiano è la discrepanza tra l’elevata qualità della ricerca scientifica, riconosciuta a livello mondiale, e la capacità di valorizzare questa ricerca trasformandola in applicazioni per il mercato o in brevetti. “Il trasferimento tecnologico è un’attività che sta nascendo solo in questi anni con la creazione di uffici dedicati all’interno delle università, ma si tratta di strutture piccolissime e per lo più poco supportate dagli atenei, al contrario di ciò che sta avvenendo in tutto il resto del mondo”. 

Il ruolo delle istituzioni pubbliche

Insomma è decisamente sano, per un Paese come il nostro, che esistano persone con la voglia e la capacità di impegnarsi in attività come quella dei business angel. Ma cosa potrebbe fare il settore pubblico per incentivare questo tipo di attività? Marini Clarelli, non ha dubbi: “Il pubblico fa moltissimo, anche se non sempre in maniera efficiente. Quasi tutte le amministrazioni territoriali, infatti, propongono bandi per finanziamento a fondo perduto o agevolato per la creazione di nuove imprese. Il punto è che queste risorse spesso vengono accaparrate da chi è più bravo a rispondere ai bandi, invece che da chi è più bravo a fare l’imprenditore. Una mia personalissima opinione è che le stesse risorse che il pubblico eroga oggi, potrebbero essere usate in maniera più efficiente. Piuttosto che regalare dei soldi ad una nuova impresa e lasciarla navigare da sola nelle acque del mercato, ad esempio, si potrebbe sgravarla di parte degli oneri sociali o burocratici per i primi due anni. Insomma il nodo della questione secondo me è che le risorse pubbliche andrebbero usate per agevolare le aziende fatte in una certa maniera, e non solo quelle capaci di rispondere ai bandi”.

 

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