Condividere la conoscenza è un diritto! Ripensiamo i modelli economici
Maria Chiara Pievatolo – Docente di Filosofia Politica presso l’Università di Pisa ed esperta di pubblicazione ad accesso aperto
Il primo comma dell’articolo 33 della costituzione recita: "L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento". Non possiamo, però, pensare a un’arte e a una scienza libera se non si è liberi di condividerla, cioè di insegnarla e, conseguentemente, anche di impararla. Ne parliamo con Maria Chiara Pievatolo, docente di filosofia politica presso l’Università di Pisa ed esperta di pubblicazione ad accesso aperto.
6 Febbraio 2008
Maria Chiara Pievatolo – Docente di Filosofia Politica presso l’Università di Pisa ed esperta di pubblicazione ad accesso aperto
Il primo comma dell’articolo 33 della costituzione recita: "L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento". Non possiamo, però, pensare a un’arte e a una scienza libera se non si è liberi di condividerla, cioè di insegnarla e, conseguentemente, anche di impararla. Ne parliamo con Maria Chiara Pievatolo, docente di filosofia politica presso l’Università di Pisa ed esperta di pubblicazione ad accesso aperto.
Quali regole dovrebbero guidare la condivisione del sapere nell’odierna società della conoscenza e quali, invece, la regolano realmente?
Dalla prima legge europea sul copyright, lo Statute of Anne del 1710, il controllo sull’informazione tramite forme di monopolio nella riproduzione della sua espressione si è esteso sia per quanto concerne l’ambito delle materie soggette alla sua disciplina, sia nella durata temporale. Tuttavia, la rivoluzione telematica ha – almeno momentaneamente – reso molto facile e poco costoso riprodurre testi, immagini, musiche e film. Il risultato, per la "costituzione materiale" della società dell’informazione, è il seguente: abbiamo, de iure, una disciplina sempre più dura a tutela della proprietà intellettuale e de facto una sua larghissima disapplicazione. Per esempio, secondo Paul Ginsparg, il padre del celebre ArXiv – l’archivio ad accesso aperto che usano i fisici – circa un terzo degli articoli scientifici usciti su riviste ad accesso chiuso sono anche reperibili liberamente in rete, a dispetto del copyright. I loro condivisori, in genere, non sono neppure consapevoli di violare la legge. Si comportano, semplicemente, come vuole la prassi della ricerca scientifica, usando il dispositivo tecnologico di cui dispongono.
Come uscire da questa ipocrisia?
È difficile rispondere a questa domanda, perché siamo in una fase di transizione, nella quale stiamo cercando di estendere alla rete strumenti giuridici creati per la stampa. Con tutte le difficoltà che si possono immaginare: un signore che, in tipografia, ristampa un libro senza autorizzazione allo scopo di venderlo è un pirata; ma siamo sicuri che lo sia allo stesso modo un ricercatore che condivide, senza fine di lucro, un articolo permettendo ai colleghi di copiarlo sul loro hard disk? Gli illuministi giustificavano il diritto d’autore in base a due principi: – l’autore deve essere indipendente e dunque padrone del proprio lavoro – i diritti dell’editore discendono dal diritto dell’autore e si giustificano solo in quanto l’editore non ostacola, bensì facilita la circolazione dell’informazione. Ora, non possiamo mettere in discussione l’indipendenza dell’autore senza condannarlo di nuovo al mecenatismo. Possiamo però contestare che la mediazione editoriale, oggi, abbia l’importanza che aveva nell’età della stampa, nella quale lo stato della tecnologia rendeva la riproduzione difficile, costosa ed economicamente rischiosa. Forse, quindi, si dovrebbe semplicemente, tornare al diritto dell’autore, come persona fisica. Riconoscergli, cioè, tutti i suoi diritti morali, e gli strumenti perché il suo lavoro sia remunerato – per un periodo commisurato alla sua esistenza individuale, quindi assai inferiore agli attuali 70 anni dalla sua morte, e più vicino ai 14 anni raddoppiabili dello Statute of Anne. I diritti degli editori, invece, andrebbero trattati come diritti, non solo derivati rispetto a quello dell’autore, ma subordinati anche all’interesse alla circolazione libera dell’informazione – al diritto dei lettori, quindi – che essi devono favorire e non ostacolare. I mediatori si giustificano come tali solo quando svolgono effettivamente la loro opera. Non quanto rendono difficile un contatto altrimenti facile.
Perché occorre condividere? E chi dovrebbe assumersi il compito di "vigilare" contro la non-condivisione?
Occorre condividere perché altrimenti passeremmo il tempo a re-inventare la ruota. Mentre rispondere sul "chi" dovrebbe vigilare è un po’ più complesso. Di recente, negli USA, è stato reso obbligatorio per legge che gli articoli scientifici frutto di ricerche finanziate da denaro pubblico debbano, a loro volta, essere resi pubblici, in archivi elettronici aperti. In altre parole la pubblicazione ad accesso aperto è stata resa obbligatoria, almeno per alcuni settori. L’obbligo, per gli scienziati, non è gravoso perché più è pubblico un articolo, più viene citato, e più ne guadagna la reputazione dell’autore. Per questo si pensa che una simile legge possa fare da innesco virtuoso anche per altri settori della ricerca. Questo sistema può essere facilmente copiato dalle amministrazioni pubbliche, in connessione con un sistema di valutazione, per il quale chi "pubblica" poco viene valutato come se facesse poco.
È indubbio che lo scambio libero di conoscenze faciliti la diffusione di informazioni e di cultura, ma è anche un noto "problema" per la tutela del diritto di autore. È veramente così?
Per quanto riguarda i diritti morali dell’autore, lo scambio libero non crea un "problema" alla loro tutela, ma anzi la favorisce. Per esempio, basta un motore di ricerca per scoprire che Tizio ha plagiato Caio. E Caio può dimostrare facilmente la priorità temporale della sua opera, qualora l’abbia tempestivamente depositata in un archivio aperto, disciplinare o istituzionale, non amministrato da lui. Per quanto riguarda i diritti allo sfruttamento economico, varrebbe forse la pena chiedersi se conviene ancora continuare a replicare il modello moderno del monopolio sulla riproduzione, caricato dei costi aggiuntivi che ci si deve sobbarcare per rendere difficile una copia altrimenti facile o non si debba, piuttosto, pensare a proporre servizi intorno ad oggetti ad accesso aperto. Lo dice addirittura un rapporto OCSE del 2004 sulla pubblicazione scientifica.
Essendo la conoscenza, come ricordava lei, anche un bene "economico", avrebbe senso pensare ad un diritto alla condivisione della conoscenza?
Se leggiamo con attenzione il primo comma dell’articolo 33 della costituzione italiana, "L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento", ci rendiamo conto che questo diritto esiste già. Non possiamo pensare a un’arte e a una scienza libera se non si è liberi di condividerla, cioè di insegnarla e, conseguentemente, anche di impararla. Significativamente l’articolo 33 non tratta il diritto di insegnare e di imparare come una eccezione rispetto alla disciplina generale del diritto d’autore, o come una libertà meramente economica, ma come un diritto primario, enunciato solennemente in forma di principio. Non ci dobbiamo meravigliare: tutte le esperienze culturalmente significative – dalla scienza, alla religione, alla costituzione stessa – si basano su forme di condivisione che valicano le barriere proprietarie. Sono, in altri termini, esperienze pubbliche e non private. Se il sapere fosse un bene privato, non riusciremmo neanche a parlarne.