Finanziare la crescita. Chi ci mette le risorse?
Un contributo degli autori del libro “Finanziare la crescita. Chi ci mette le risorse?” per comprendere come rilanciare il nostro Paese attraverso strumenti di finanza innovativa
9 Settembre 2016
Walter Tortorella e Marco Nicolai
Finanziare la crescita è certamente la principale preoccupazione di qualsiasi governo voglia garantire benessere e qualità dei servizi ai propri cittadini. Con quali risorse economico-finanziarie è diventato, invece, un’attività da rabdomanti che spinge amministratori e tecnici verso sentieri più o meno battuti e spesso pieni di insidie.
Le economie di mercato, o se si preferisce capitaliste, sono condannate a crescere. Una crescita apparentemente imperitura che, però, da almeno tre lustri mostra, non solo in Italia, evidenti segnali di stasi. O si mettono in campo misure finalizzate al recupero del potere di acquisto delle famiglie per rilanciare i consumi; o si creano le condizioni per incentivare una consistente crescita degli investimenti, pubblici e privati, e quindi riattivare la domanda interna. Certo, l’ideale sarebbe, compatibilmente con le reali risorse disponibili, seguire contemporaneamente entrambe le piste. Tuttavia, osservando le variazione del PIL in Italia tra il 2008 e il 2015 è la componente investimenti ad aver maggiormente influito negativamente sulla dinamica della domanda aggregata. Questi, come riportato nel libro “Finanziare la crescita. Chi ci mette le risorse?”, si sono ridotti di ben 81 miliardi di euro, dei quali circa 70 tutti riconducibili agli investimenti privati mentre quelli pubblici si sono ridotti di 11 miliardi ad un tasso del -23%. Ovvero, con una crescita del PIL dal 2008 al 2015 dello 0.2%, in questi ultimi otto anni il Paese sembra essere stato quasi fermo; un immobilismo scongiurato soprattutto dalle esportazioni nette (+4.0%) ed, in percentuale inferiore, da una tenuta dei consumi privati (+1.6%) che nel solo corso del 2015 sono raddoppiati.
È di fronte a questo nuovo scenario che le amministrazioni pubbliche si sono ritrovate a dover adottare una diversa condotta in materia di gestione finanziaria delle risorse disponibili e di quelle da reperire sul mercato. La riduzione dei trasferimenti erariali da un lato e la crescente autonomia finanziaria dall’altro, hanno indotto gli enti locali a dover rinvenire quelle risorse necessarie per il finanziamento degli investimenti mediante il ricorso al mercato del credito o, più in generale, ad altre forme di finanza innovativa. Per dare attuazione ad un modello di finanziamento più sofisticato è necessario sia dialogare con i mercati sia strutturare con gli intermediari e gli operatori partenariati di reciproca soddisfazione, ma fare coincidere, o almeno approssimare, finalità pubbliche con interessi privati è tutt’altro che semplice, forse financo più difficile che trovare risorse finanziarie. Su questo specifico aspetto, che poi è alla base di molti strumenti di finanza innovativa, si è spesso affrontata la difficoltà per gli enti locali anche di poter godere di una reale autonomia decisoria e di una effettiva autonomia tributaria. Così, mentre con la contrazione dei trasferimenti erariali si perseguiva contemporaneamente l’obiettivo di riduzione di deficit e debito pubblico, questa stessa contrazione, mai compensata dall’incremento di gettito dei tributi locali, ha finito per responsabilizzare ed aggravare la già difficile capacità di molti enti locali nell’erogare servizi di qualità e mettere in campo investimenti di medio lungo periodo. Insomma, è come se si fosse chiesto contemporaneamente all’ente locale di essere attore protagonista dello sviluppo del proprio territorio, in base al principio di sussidiarietà, ma altresì fundraiser sul mercato privato delle risorse perché dal centro non ne sarebbero più arrivate. Del resto la crescente pressione fiscale, con la quale si è alimentata una spesa pubblica sempre più improduttiva, i limiti imposti dal patto di stabilità interno, la contrazione dei trasferimenti e un ripensamento sul percorso federalista hanno finito per fare il resto, frustrando le possibilità di manovra degli enti territoriali.
Sarebbe riduttivo ipotizzare che un sostegno allo sviluppo locale attraverso un approccio aggiornato, alla luce della finanziarizzazione dell’intervento pubblico, possa essere evaso con l’assunzione al panel dei percorsi attivabili di un nuovo strumento finanziario. In realtà sarebbe opportuno un nuovo paradigma interpretativo che richieda un giudizio condiviso e, solo successivamente, un commitment politico volto a dotare la pubblica amministrazione e gli enti locali di capacità organizzative e professionali adeguate; oltre che di dispositivi normativi e regolamentari che ne abilitino a pieno titolo l’evoluzione. Sarebbe auspicabile, infatti, organizzare un modello di approvvigionamento finanziario chiamato blended funding secondo l’esperienza che sta maturando a livello internazionale e nella prassi. Per far questo sono richieste competenze specialistiche e modelli organizzativi, assistenza tecnica e, in alcuni casi abilitazione normativa. Dotarsi di un piano che vada oltre la programmazione temporale dei bilanci obbligatori di un ente, trovare elementi di raccordo tra la programmazione di amministrazioni iperparcellizzate e definire modalità inclusive e sussidiarie che aggreghino stakeholder all’agire pubblico sono esigenze che anche un nuovo modello di finanziamento dovrebbe recepire. Tutto questo è in parte già nelle mani di quei policy maker e amministratori volenterosi di affrontare le sfide poste, più che dalla finanza, dall’esigenza di garantire qualità e competitività ai territori amministrati. Se ci saranno queste disponibilità nell’interesse di tutti il cambio di paradigma del funding pubblico sarà un esercizio attuabile sin da subito.