I Fondi Strutturali tra i blocchi del patto e tecnoburocrazie
Due anni per avere un documento programmatico bloccato, poi, dai vincoli di stabilità. Scelte sbagliate sulla partecipazione al cofinanziamento da parte degli enti locali. Incapacità di pensare a grandi interventi capaci di incidere veramente sulla coesione territoriale e sulla riduzione delle disparità. Questo il triste spaccato che ci presenta l’analisi di Walter Tortorella sulla programmazione e l’utilizzo del ciclo di fondi EU appena concluso.
25 Marzo 2014
Walter Tortorella*
Due anni per avere un documento programmatico bloccato, poi, dai vincoli di stabilità. Scelte sbagliate sulla partecipazione al cofinanziamento da parte degli enti locali. Incapacità di pensare a grandi interventi capaci di incidere veramente sulla coesione territoriale e sulla riduzione delle disparità. Questo il triste spaccato che ci presenta l’analisi di Walter Tortorella sulla programmazione e l’utilizzo del ciclo di fondi EU appena concluso.
Negli ultimi anni la dinamica degli investimenti pubblici ha fortemente risentito dei vincoli del Patto di stabilità interno in particolare per quanto ha riguardato l’andamento relativo alla spesa dei fondi strutturali. Si è trattato di un impatto a tal punto penalizzante che è stato necessario un intervento normativo nazionale (Art. 3, commi 1 e 1-bis, del D.L. n. 201/2011) che ha posto la compensazione degli effetti, in termini di fabbisogno e di indebitamento netto, a valere sulle risorse di un apposito “Fondo di compensazione per gli interventi volti a favorire lo sviluppo”. Si tratta di un fondo istituito nello stato di previsione del Ministero dell’economia, con una dotazione di 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2012, 2013 e 2014 (commi 2 e 3). Ovvero, al fine di agevolare il raggiungimento degli obiettivi di spesa previsti dai programmi regionali cofinanziati dall’Unione europea per il periodo 2007-2013, la norma ha permesso di non computare nel complesso delle spese rilevanti per il patto di stabilità, le spese sostenute dalle regioni a valere sulle proprie risorse, nonché su quelle statali loro trasferite dal Fondo di rotazione per l’attuazione delle politiche comunitarie.
L’effetto (si veda tabella sottostante), insieme in particolare all’azione di riprogrammazione, è stata una notevole accelerazione della capacità di spesa (in particolare nel 2012 e nel 2013) e lo scansato pericolo di un disimpegno automatico delle risorse comunitarie.
Tabella 1 Spesa Certificata POR 2007-2013 (FSE+FESR)
Fonte: elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati DPS, anni vari
Ovviamente, però, per pareggiare lo “sforamento” del Patto, è stato necessario istituire un apposito fondo, dotato di sola cassa, che ha così compensato gli effetti in termini di fabbisogno e indebitamento. Tale soluzione dà una misura della perversione contabile e gestionale in cui ormai sembra caduto irreversibilmente l’intero meccanismo dei fondi strutturali le cui ricadute in termini di sviluppo finiscono per essere neutralizzati da un doppio effetto diabolico.
Un primo rappresentato dalla miopia dalle politiche ragionieristiche che, non vedendo più l’economia reale, hanno dimenticato che per fare sviluppo sono necessari investimenti e che per investire bisogna spendere. Insomma sono indispensabili uscite di cassa. Cosa frena questa banale ovvietà? Il fatto, ad esempio, che nelle scorse settimane la Commissione europea abbia inoltrato 351 osservazioni informali, pari a 45 pagine di documento, fatte dagli uffici tecnici della Commissione all’Accordo di Partenariato 2014-2020 inviato dall’Italia (considerando che l’AP è di 167 pagine una media di una pagina di osservazione ogni 3 e mezzo). Ed ecco il secondo effetto che potremmo definire “solipsismo delle tecnoburocrazie”. Mentre la casa brucia qualcuno continua a redigere documenti programmatici di sviluppo che sembrano fondarsi su pilastri di argilla e qualcun altro, lancia sì l’allarme di tale pericolo, ma come una professoressa di greco con i suoi scolari, disquisisce su una lingua ferita a morte.
Ad essere ferita a morte, infatti, è la politica di coesione dell’Unione che a fronte di istanze nazionali chiare e puntuali di interventi rivolti a ridurre le disparità territoriali, a far ripartire la crescita e l’occupazione, ad alleviare le profonde ferite di una fascia crescente di nuovi poveri, risponde con strumenti spuntati e i cui tempi e modi di realizzazione non sono più sostenibili nella società in cui viviamo. Può un’azione di sviluppo strutturale che dura 7 anni utilizzarne almeno uno (ma invero sono più di due perché si è partiti all’inizio del 2013 e il Rapporto Barca è addirittura del 2009) solo per trovarsi con un documento programmatico che poi si infrangerà sui limiti imposti dal rispetto del Patto di stabilità interno? Questa è esclusivamente una decisone di politica economica che l’Europa non sembra avere il coraggio di prendere e che sicuramente non prenderà un Parlamento ed una Commissione ormai praticamente già a casa.
Attenzione, però, a sostenere che la “questione fondi strutturali” stia tutta qui, ovvero nel credere che la scarsa performance dipenda da un complotto esterno e che tirando fuori dal Patto le spese sostenute dalle regioni per cofinanziare i fondi strutturali tutto si risolva. Non è solamente così. Ed infatti, le amministrazioni ministeriali e regionali al netto dei vincoli suddetti, sono state capaci di partorire programmi operativi sul FESR 2007-2013 che hanno generato solo per i comuni oltre 9 mila progetti di cui il 42% con una taglia inferiore a 150 mila euro. Chiunque capirebbe che, a fronte di un obiettivo di crescita e sviluppo, i soggetti programmatori hanno optato per una più pragmatica performance finanziaria (microprogetti=velocità di spesa) ed infatti l’Italia a fine 2013 era in linea con tutti i target di spesa. Peccato che l’impatto in termini di coesione e riduzione delle disparità sia assolutamente impercettibile.
Tabella 2 I progetti FESR 2007-2013 attuati dai comuni italiani
*Progetti con un costo rendicontabile UE inferiore a 150.000 euro.
Fonte: elaborazione Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel su dati OpenCoesione aggiornati al 31.10.2013
Inoltre, le amministrazioni regionali della Calabria, Campania, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Toscana, Umbria e Veneto, contrariamente a quanto prescritto dai Regolamenti comunitari, si sono autoinflitte un ulteriore elemento ostativo introducendo nei loro POR il principio del cofinanziamento anche per i comuni, estendendo così pure a loro i vincoli di spesa del Patto. E quindi oggi abbiamo 1.660 progetti FESR in capo ai comuni e con cofinanziamento comunale per un costo rendicontabile di circa 2 miliardi di euro, con un finanziamento di 675 milioni a valere sulle casse dei comuni, che subiscono l’ondeggiamento dei saldi di Patto e non si riesce a percepire quale sia stato il beneficio di tale scelta programmatica. Insomma, fondi strutturali fuori dal vincolo del patto di stabilità interno, ma questo deve essere anche il momento di modificare gli strumenti operativi europei e nazionali per una programmazione più leggera che faccia della concentrazione degli interventi la sua battaglia più incisiva.
* Walter Tortorella – Direttore Centro documentazione e studi Comuni Italiani