Il peso della sharing economy in Italia. Siamo pronti a condividere?

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Il 13% della popolazione in Italia ha preso parte almeno una volta all’economia collaborativa. Dal 2011 ad oggi i numeri sono più che triplicati in particolare nell’ambito dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design. Ce lo raccontano a Sharitaly, l’evento italiano sull’economia collaborativa curato da Collaboriamo.org con il contributo di Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Eni Enrico Mattei, che si è proposto di riflettere sul potenziale di nuovi modelli di produzione e di consumo basati sul riuso e sulla condivisione. Abbiamo chiesto a Marta Mainieri quanto conta questo fenomeno oggi e quanto può essere un’opportunità per start up, aziende e amministrazioni per rispondere alle sfide alle quali cui vanno incontro le nostre città.

2 Dicembre 2013

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Francesca Battistoni

Il 13% della popolazione in Italia ha preso parte almeno una volta all’economia collaborativa. Dal 2011 ad oggi i numeri sono più che triplicati in particolare nell’ambito dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design. Ce lo raccontano a Sharitaly, l’evento italiano sull’economia collaborativa curato da Collaboriamo.org con il contributo di Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Eni Enrico Mattei, che si è proposto di riflettere sul potenziale di nuovi modelli di produzione e di consumo basati sul riuso e sulla condivisione. Abbiamo chiesto a Marta Mainieri quanto conta questo fenomeno oggi e quanto può essere un’opportunità per start up, aziende e amministrazioni per rispondere alle sfide alle quali cui vanno incontro le nostre città.

Cos’è l’economia collaborativa?

È una nuova economia che sta nascendo e che sfrutta le nuove tecnologie per proporre forme antiche come il baratto e lo scambio, le porta su una scala più ampia reinventandole e dando una possibilità maggiore di utilizzo.  Sono pratiche che favoriscono l’uso e lo sfruttamento del bene privilegiando il riuso piuttosto che l’acquisto e l’accesso piuttosto che la proprietà.

Quanto conta l’economia collaborativi nel nostro Paese?

In Usa il 52 % delle persone hanno scambiato o prestato dei beni, in Inghilterra siamo al 64%. In Italia i numeri sono molto più bassi. Però va detto che con un 13% della popolazione che ha utilizzato almeno una volta servizi di sharing, l’economia collaborativa in Italia si avvicina al “tipping point”[1] per la diffusione di un fenomeno tra la popolazione (individuato da Everett M. Rogers al 15%). A questo 13% si deve aggiungere, poi, un altro 10% che si dichiara interessato, mentre il 59% conosce il fenomeno almeno per sentito dire. Secondo la ricerca di Duepuntozero DOXA presentata a Sharitaly tra i servizi più utilizzati ci sono quelli legati alla mobilità (car-sharing), all’alloggio condiviso, allo scambio e al baratto. Tra le resistenze di chi non ha provato i servizi di sharing, le più diffuse riguardano sia la condivisione di beni di proprietà sia la fiducia verso gli altri.

Quanto può incidere questo modello rispetto a quello di economia di mercato tradizionale?

Una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presentata da Silvia Mazzucotelli Salice, ci dice che come volumi abbiamo circa 160 piattaforme di scambio e condivisione, circa 40 esperienze di autoproduzione, circa 60 di crowding (di cui 27  attive e 14 in fase di lancio). Che si tratti di “sharing” per la condivisione di beni, servizi, informazioni, spazi, tempo o competenze, di “bartering”, ovvero il baratto tra privati ma anche tra aziende o di “crowding” con pratiche come il crowdsourcing e crowdfunding ma anche di “making” cioè di autoproduzione e fabbricazione digitale (fablab), dal 2011 a oggi i numeri sono più che triplicati, in particolare nell’ambito del turismo, dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design.
Sicuramente per gli italiani è un inizio, però in altri paesi dove il mercato è cominciato prima i numeri ci sono e questo ci fa pensare che anche da noi la sharing economy inciderà di più. Le piattaforme permettono di cambiare la vita di tutti i giorni in maniera concreta perché ogni persona può guadagnare e risparmiare, ha la possibilità di costruire un legame di comunità e delle opportunità di conoscenza.

Ci puoi raccontare qualche esempio di piattaforme di economia dello scambio?

Nel mio libro analizzo i servizi collaborativi digitali ossia quei servizi peer to peer che mettono in contatto le persone e che utilizzano la tecnologia. Il più famoso è Airbnb che mette in contatto le persone per condividere la casa o una stanza ed è un servizio molto utile per chi viaggia. Oggi si condivide anche il passaggio auto con blablacar.it, la partita di calcio con Fubles, gli oggetti con swap.com. Si può condividere anche il tempo su timerepublik, si può prestare il denaro come si può fare nelle numerose piattaforme di crowdfunding.

Visto che parliamo di forme antiche di scambio, quanto la digitalizzazione fa la differenza nella diffusione di questi servizi?

Le nuove tecnologie hanno permesso di riprendere queste forme e diffonderle ad ampia scala: prima potevo scambiare con i vicini di casa o andando in mercatini dell’usato mentre oggi scambio in tutto il mondo. La directory Collaboriamo.org monitora e registra i servizi collaborativi italiani: servizi giovani, nati per la maggior parte tra il 2012 e il 2013, in crescita seppur con qualche difficoltà.

E quanto ai risultati di questi servizi?

Crescono bene le start up internazionali che arrivano in Italia (Airbnb registra nell’ultimo anno un +354% con 50mila alloggi disponibili e 12mila ospiti al giorno, mentre Blablacar riporta ogni giorno un +150%), ma anche alcune piattaforme italiane. Fubles, per esempio (337mila giocatori per 77mila partite giocate) o Gnammo (12mila iscritti con +4500 gnammers) sono significative per la loro capacità di creare relazioni con l’economia tradizionale.

A questo punto una domanda sulla manifestazione appena conclusa: perché Sharitaly?

Sharitaly è nata dopo un anno di lavoro su questi temi perché ci siamo resi conto che esiste un movimento che sta crescendo e che ha voglia di farsi conoscere, ma fa fatica a raggiungere un pubblico più ampio. Nello stesso tempo abbiamo anche riscontrato un certo pregiudizio sul fatto che gli italiani non sono pronti alla condivisione o che in Italia manchino totalmente alcuni fenomeni del genere legati allo scambio e alla reciprocità. Il movimento invece esiste, anche se è relativamente giovane, le persone sono molto attive, e questo evento ha permesso di mettere in luce le potenzialità di questi strumenti e della nuova economia.


[1] Con il termine “Tipping point” si indica il momento in cui una serie di piccoli cambiamenti si trasformano in un cambiamento maggiore ed irreversibile. Potrebbe essere tradotto come “punto di non ritorno”. L’utilizzo del termine è divenuto molto frequente in relazione alla meteorologia e ai mutamenti climatici.

 

 

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