La concorrenza non è un lusso: la relazione di ieri dell’Antitrust esprime una forte preoccupazione
Ieri è stata presentata la relazione annuale dell’Antitrust (L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), l’ultima relazione con la Presidenza di Antonio Catricalà: l’ho trovata particolarmente chiara e stimolante, anche se molto preoccupata. Ve ne racconto i fondamentali. Il punto chiave è già nella prima pagina delle considerazioni iniziali: “la concorrenza non è un lusso da concedersi solo durante i cicli economici espansivi ma diventa strumento indispensabile nei periodi difficili per sostenere la ripresa e difendere i consumatori.”
22 Giugno 2011
Carlo Mochi Sismondi
Ieri è stata presentata la considerazioni iniziali:
“la concorrenza non è un lusso da concedersi solo durante i cicli economici espansivi ma diventa strumento indispensabile nei periodi difficili per sostenere la ripresa e difendere i consumatori.”
Già qui è espressa con chiarezza la constatazione di un pericolo: che la crisi, con il suo carico anche emotivo di preoccupazione, possa essere considerata come un alibi per non procedere alle liberalizzazioni di cui il mercato italiano ha disperatamente bisogno. Ma il rallentamento delle politiche di sostegno alla concorrenza non è solo un errore economico, sottraendo al mercato energie preziose che rimangono ingabbiate nella rete dei privilegi, ma rischia di penalizzare anche i consumatori e quindi a far venir meno nei fatti quella “centralità della persona” che costituisce uno dei fini dell’intera opera virtuosa di sostegno del mercato. Citando sempre le considerazioni iniziali infatti:
“Il mercato ha senso solo se attribuisce ai cittadini quella sovranità economica diffusa che è indice di autentica libertà civile.” …….. “L’Autorità in questi anni ha ritenuto che l’effettiva libertà di scelta del consumatore e la competizione tra imprese siano facce della stessa medaglia.”
Nel fare un bilancio dei primi due anni e mezzo di legislatura l’Autorità, infatti, mette in luce una serie di rallentamenti e di incertezze che fanno dire che:
“nell’ultimo periodo il processo riformatore si è arrestato e le liberalizzazioni sono scivolate via dalle priorità dell’agenda politica. L’Autorità ha dovuto denunciare pericolosi tentativi di chiusura dei mercati dettati dagli interessi particolari in settori come le farmacie, le assicurazioni, alcune professioni, i trasporti.
Il primo disegno di legge sulla concorrenza non ha mai visto la luce. Questo ritardo è grave; rallenta il processo di ammodernamento del Paese; fa perdere fiducia agli imprenditori che vogliono sfidare i monopolisti e agli stessi controllori.”
Il rischio paventato è, a mio vedere, culturale ancor prima che politico: attribuendo correttamente alla distorsione di un mercato poco regolato la crisi globale e i suoi perniciosi effetti, si rischia, invero con qualche colpa di un semplicismo politico attento più al consenso immediato che al benessere durevole, di far di tutt’erba un fascio e di attribuire al mercato in sé e quindi proprio alla concorrenza tali effetti. Si è così legittimati a difendere privilegi e lobby, a rinforzare le barriere all’entrata, a stoppare i pur timidi tentativi di fare entrare il mercato nei servizi pubblici attraverso la trasparente competitività dei soggetti. Un parlamento composto in massima parte da soggetti difesi da ordini e da albi, trova quindi la scusa buona per dire che non è questo il momento di aprire….Il rischio è però di perdere il treno della ripresa, come molto chiaramente continua la stessa relazione con parole così esplicite che non posso che riportare per intero:
“Per l’attuazione di una incisiva politica di sviluppo, l’esperienza maturata dall’Autorità nel corso di due decenni indica come strada maestra l’adozione di interventi strutturali di riforma della regolazione dei mercati, volti a conseguire un rapido ammodernamento dell’offerta di beni e servizi attraverso un’accentuata promozione delle dinamiche competitive.
I benefici ricavabili da tali riforme sono noti e ampiamente condivisi. Assetti regolatori meno restrittivi generano enormi benefici per i cittadini e per il Paese in termini di reddito e occupazione, peraltro senza costi per il bilancio pubblico. In particolare, ampiamente comprovato è l’effetto positivo che la rimozione delle barriere all’entrata e dei vincoli ingiustificati che gravano sull’attività delle imprese produce sui tassi di investimento di lungo periodo come pure sul tasso di crescita della produttività.
Il rilancio dei processi di liberalizzazione è, dunque, tassello cruciale di una vigorosa politica per la crescita.”
Peccato però che le cose non siano andate così e che:
“La crisi sopraggiunta ha offerto a molte categorie l’occasione propizia per tornare a invocare con successo l’intervento protettivo dello Stato. Mentre la fase di recessione avrebbe potuto costituire l’occasione di un’accelerazione dei processi di liberalizzazione, si è assistito al prevalere di una linea contro- riformistica che ha indotto il Parlamento a discutere e – in taluni casi ad approvare – l’eliminazione di alcuni dei positivi risultati già conseguiti e la restaurazione di anacronistici privilegi.”
In questo clima si è andato a situare il referendum, di cui ho già parlato nelle sue luci e nelle sue ombre, che costituisce insieme un’opportunità per ribadire concetti chiave quali l’universalità del servizio pubblico, la garanzia dei diritti di tutti i cittadini, la responsabilità delle amministrazioni nell’indicazione della qualità necessaria, ma può essere anche una formidabile arma per i conservatori di tutte le razze per far tornare la politica ad occupare tutti i posti disponibili in aziende sempre più pubbliche, ma che per questo non diventano più “di tutti”, ma invece baluardi sempre più difesi di privilegi e consorterie.
È quindi il momento della vigilanza democratica, perché anche la libertà di impresa, le regole chiare e trasparenti per tutti, la concorrenza senza privilegi e lobby sono un “bene comune” da salvaguardare e possono essere fattori decisivi per rimettere in moto un Paese bloccato, ingessato nelle caste e nelle successioni dinastiche, in cui il figlio dell’operaio farà l’operaio e il figlio del farmacista avrà senz’altro la “vocazione” a rimanere nel settore.