La minoranza vitale dei grandi numeri.
“Avevamo pensato di dover cercare le minoranze vitali nei modi e nei luoghi in cui siamo abituati a pensarle: piccole organizzazioni strutturate, organizzate, elitarie, orgogliose. Non è così: paradossalmente oggi le minoranze le fanno i grandi numeri”. Con questo ossimoro Giuseppe De Rita ha chiuso la presentazione della ricerca Censis dedicata a “L’ascesa dei segmenti vitali”, cioè ai processi che alimentano l’emergere di nuove minoranze in grado di interpretare il desiderio di ascesa e di rivalsa che, nonostante i chiari segni di declino della nostra economia, ancora animano il tessuto sociale italiano.
24 Giugno 2008
“Avevamo pensato di dover cercare le minoranze vitali nei modi e nei luoghi in cui siamo abituati a pensarle: piccole organizzazioni strutturate, organizzate, elitarie, orgogliose. Non è così: paradossalmente oggi le minoranze le fanno i grandi numeri”. Con questo ossimoro Giuseppe De Rita ha chiuso la presentazione della ricerca Censis dedicata a “L’ascesa dei segmenti vitali”, cioè ai processi che alimentano l’emergere di nuove minoranze in grado di interpretare il desiderio di ascesa e di rivalsa che, nonostante i chiari segni di declino della nostra economia, ancora animano il tessuto sociale italiano.
C’è un’Italia poco rappresentata: un’Italia che ha preso i tratti positivi della globalizzazione trascurandone ansie e paure, che propone pensieri e idee a volte dirompenti, critici, di rottura, ma che portano vitalità nel pensiero; che mostra capacità reattiva rispetto ad un Paese più esasperato, smarrito, ripiegato su se stesso che non “in declino”.
Il Censis ha cercato di enucleare queste minoranze a partire dai due settori che, da sempre, analizza in modo lucido e critico: il mondo economico e quello sociale. Più facile – sembra strano in questo mare di dati e tabelle che puntualmente ci ricordano quando siamo ad un passo dal baratro – nel primo caso, più difficile nel secondo, individualizzato, isolato, dove pure, ce ne accorgiamo, si annida il malessere più profondo.
“Abbiamo voluto resettare – ci dice Ester Dini, autrice della ricerca – questa visione pessimistica sull’andamento dell’economia italiana che ormai ci accompagna più o meno dall’introduzione dell’euro, esasperata, da un anno a questa parte, dalla cattiva congiuntura internazionale, per capire, lucidamente, cosa, invece, funziona”. La ricerca parte da un dato incontrovertibile: l’Italia cresce. Forse più lentamente, forse meno delle altre potenze con cui si confronta – dal 2000 il tasso di crescita è sempre al di sotto della media europea di almeno un punto percentuale – ma il PIL, da solo, non può leggere la complessità delle performance economiche di un Paese. L’Italia è stata l’unica potenza insieme alla Germania a difendere, per esempio, la propria quota di mercato; le esportazioni sono cresciute, forse meno di quelle cinesi o tedesche, ma più di altre economie mondiali. Proprio su questo dato, cioè la capacità delle nostre imprese di imporsi sullo scenario internazionale, si gioca il ruolo di quelle che la ricerca definisce “minoranze vitali” le cui attività e i cui interessi si vanno coagulando attorno a due grandi fattori di traino: l’internazionalizzazione e l’innovazione.
L’internazionalizzazione è andata man mano cambiando negli anni: da un lato i big player si muovono sullo scenario globale con delle logiche per molti versi nuove e aggressive; non è più soltanto un fenomeno di delocalizzazione di funzioni, ma una strategia che si potrebbe definire per certi versi espansionistica. Il numero delle fusioni e acquisizioni (merger & acquisition) è passato da 32 nel 2004 a 116 nel 2007 – anno record per le acquisizioni italiane all’estero – per un controvalore totale passato da 4 miliardi a 60,2 miliardi di euro. Big player a parte, questo è un processo trasversale a tutto il tessuto imprenditoriale: il 52% delle imprese italiane sono presenti con le proprie merci all’estero, trasferiscono all’estero funzioni oppure aprono nuove sedi. Obbiettivo: non solo abbattere i costi, ma presidiare più da vicino quei mercati che possono essere moltiplicatori di valore e opportunità. L’altro grande driver è rappresentato dalle imprese che forniscono innovazione a 360°: l’Italia detiene un primato, il grosso delle imprese europee che operano nel settore dell’hi-tech è qui. Sono 33.000, circa il 24% del totale delle imprese europee.
Più che il presidio del settore hitech, il discrimine sta nella capacità di questi imprenditori di essere creativi rispetto ai propri processi gestionali, di fare dell’innovazione l’elemento fondamentale del vivere l’impresa. Anche questo processo coinvolge trasversalmente tutti i settori: ci sono fette consistenti di piccole e piccolissime imprese che sono state in grado di interpretare questo ruolo, hanno ripensato le proprie strategie d’azione come le grandi. Sono circa 145mila le piccole imprese che fanno attivamente innovazione; circa il 25% inizia, anche se con piccolissimi numeri, ad essere presente all’estero e, dopo essersi concentrata nella parte più hard dell’innovazione, quella di prodotto e di processo, intende ora sviluppare quella dimensione, per certi versi più soft e più terziaria della diversificazione di prodotto, della commercializzazione e dei servizi post vendita.
Il dato più interessante è la logica di governo dei processi di innovazione che sta maturando anche presso piccolissime realtà: il 50% di queste aziende dichiara che l’aspetto innovativo più interessante è quello che deriva dai processi di sperimentazione e prototipazione che viene svolta all’interno dell’azienda e che coinvolge complessivamente circa il 15% del monte ore di lavoro.
Intercettare il “sociale vitale”, invece, è sicuramente più difficile: proprio perché, come sostiene De Rita, la vitalità non è “rinchiusa” nelle forme organizzative e nelle strutture in cui siamo abituati a pensarla, è difficile individuare quali sono le minoranze culturali in grado di dare discontinuità, rottura nei comportamenti; ma anche quali sono quei comportamenti in grado di rifare il tessuto connettivo, di fare compensazione, di fare, in forme diverse, rappresentanza e partecipazione. Una di queste minoranze è sicuramente individuabile – per seguire l’onda dell’internazionalizzazione imprenditoriale – in quanti – giovani, professionisti – ogni anno decidono di cimentarsi nell’avventura oltreconfine: le chiamano minoranze cross border, quelle che vogliono confrontarsi con il diverso, con altre culture. Qualche dato rende l’idea della consistenza di questo fenomeno: il 14% dei giovani con meno di 29 anni ha un’esperienza di lavoro o formativa all’estero; ogni anno 54.000 studenti si formano all’estero, 11.700 laureati cercano e trovano il primo lavoro oltreconfine (il 4% dei neolaureati). Non sono solo giovani, è un fenomeno che coinvolge anche altri segmenti, per esempio quelli che vogliono crescere professionalmente: 24.500 lavoratori ogni anno si trasferiscono per lavoro negli USA. Non siamo di fronte ad un fenomeno di fuga di cervelli, semplicemente sono professionisti che cercano all’estero un’opportunità di maturazione professionale.
Questa minoranza che “prende e parte” non è l’unica che potremmo definire cross border: ce ne sono altre, più sommerse, più silenti che fanno qui in Italia, quotidianamente, esperienza di confine e del diverso. È la minoranza del 16% di italiani che dichiara di frequentare assiduamente immigrati, per lo più per lavoro – non pensiamo subito al fenomeno badanti, ci sono mille attività di impegno diretto, quella dei volontari, dei mediatori culturali, dei maestri di strada – ma molti per amicizia. Ci sono minoranze controcorrente, che compiono scelte alternative, fuori dagli schemi o dagli stereotipi che le vorrebbe a casa con i genitori fino ai 40 anni: una quota, ristretta ma significativa (il 18%) di giovani sceglie di andar via di casa presto, non proseguire gli studi, avviarsi su un percorso professionale forse rischioso ma gratificante.
Ci sono minoranze che sono culture di nicchia, nelle quali si generano nuovi mercati e nasce domanda di nuove professionalità; quelle più interessanti e anche più difficilmente individuabili sono le minoranze che stanno riproponendo, con delle formule nuove, le esigenze di partecipazione, fanno condensazione e, soprattutto a livello locale, si impongono come driver di una nuova responsabilità sociale diffusa. Così i gruppi di acquisto solidale – erano 208 nel 2005 sono 438 nel 2008 e coinvolgono circa 30.000 famiglie – comunità di persone che si trovano insieme per fare acquisti collettivi e che non soltanto, evidentemente, propongono nuovi modelli di consumo e di risparmio, ma innescano un circuito virtuoso tra consumatori e piccole aziende.
Eccole qui, le minoranze dei gradi numeri di cui parla De Rita: in economia un po’ più evidenti, ancora un po’ latenti nel sociale, non sono imprese di nicchia, elite, associazioni orgogliosamente minoritarie, ma comportamenti di massa – o di semi-massa – di imprenditori, giovani, ricercatori, banchieri, che fanno innovazione.