La transizione verso l’economia sostenibile: prima tappa il digitale

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In occasione del World Economic Forum a Davos, nel gennaio scorso, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha rilanciato il Green New Deal, il progetto dell’Ue verso un mondo più sostenibile. Nel frattempo è arrivata la pandemia da Covid-19 che ha fortemente cambiato il contesto e ha messo sotto gli occhi di tutti la prova materiale che la necessità di un cambio di paradigma è urgente ed inevitabile

6 Maggio 2020

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Maria Ludovica Agrò

Curatrice scientifica di FORUM PA Sud

Photo by Anna Samoylova on Unsplash - https://unsplash.com/photos/w55SpMmoPgE

Alla fine di gennaio 2020, in occasione della 50esima edizione del World Economic Forum (nato come piattaforma di dialogo e nel 2015 riconosciuto come istituzione internazionale), i leader politici,  i manager delle grandi aziende, gli attori della finanza, economisti e studiosi di differenti discipline e provenienze hanno affrontato, come sempre, i temi dello sviluppo e l’orizzonte del modello di  sviluppo attuale, la durabilità dei processi produttivi conosciuti e la loro possibilità di coniugare crescita e benessere. Si riunivano dopo un anno di partecipatissimi Friday for future da parte di giovani generalmente tiepidi verso la politica, e si sono trovati tutti nell’impossibilità di negare quanto sembrava già evidente: il modello di crescita mostrava la corda, anche per la tenuta dei sistemi democratici, mentre i dati sul cambiamento climatico e il crescente seguito delle giovani generazioni rispetto a questo aspetto dettavano l’urgenza dei tempi per il cambiamento inevitabile. 

Sono molti anni, quindi, che si discute sul modello di sviluppo in essere, sull’allargarsi delle diseguaglianze, sulla diseconomia che queste diseguaglianze creano e sulla povertà e l’esclusione da esse generate, visibili anche alle periferie delle città delle nazioni più ricche, sull’insostenibile tasso d’inquinamento e sull’utilizzo eccessivo delle plastiche. Mentre si discuteva, c’è stato spazio per una crescita dell’economia senza occupazione e per la sua eccessiva finanziarizzazione. La misura insufficiente delle risorse disponibili per investimenti verso l’economia reale, coniugata alla lentezza dei processi multilaterali per la lotta ai cambiamenti climatici e il sostegno ad un modello produttivo meno inquinante, hanno determinato il dilatarsi della forbice del benessere all’interno dei fattori che la costituiscono: persone, imprese e territori.

L’Unione Europea si è presentata all’appuntamento di Davos con un Piano strategico che indicava un indirizzo preciso, dimostrando una volta ancora di essere, quanto meno nell’ispirazione, l’unica macro-area del mondo a pensare che occorre generare crescita con occupazione, che occorre farlo coniugando benessere della persona e dell’ambiente, non lasciando indietro nessuno e assicurando la fruibilità di eguali diritti di cittadinanza in tutti i territori.

Il contesto in cui il Green New Deal è stato pensato, pur essendo molto recente, è molto diverso da quello attuale. La Cina era immersa nell’epidemia quando è stato presentato, ma il resto del mondo non aveva preso ancora coscienza che si trattasse di pandemia e che da li a poco avrebbe dilagato ovunque. La pandemia da Covid-19 ha fortemente cambiato il contesto: ha messo sotto gli occhi di tutti la prova materiale, e non più evocata sulla sola base di proiezioni e calcoli, che la necessità di un cambio di paradigma è urgente ed inevitabile, evidenziando almeno tre elementi.

Un lockdown di quaranta giorni è bastato perché venissero spazzati via interi settori produttivi, nello stesso tempo la qualità dell’aria è nettamente migliorata ed è stato provato come sia essenziale avere un sistema sanitario pubblico universale efficiente e che la fragilità della popolazione è fortemente correlata all’inquinamento. Occorre costruire un senso comune sulla base di queste evidenze, che individui i nuovi beni comuni e recuperi quelli che abbiamo trascurato.

Come guardiamo ai processi sociali e produttivi che chiedono risposte? La ricostruzione non è mai neutrale, ma è figlia di una visione del mondo, perché non ne usciremo migliori se non saranno fatte le scelte giuste. Si può sostenere che l’uscita graduale dalla crisi sia fatta all’insegna del baratto, ripresa purchessia e semplificazione selvaggia, fra crescita e riduzione dei diritti e tutela del lavoro. Si possono proporre passi indietro sulle misure ambientali chieste alle imprese, oppure fare leva sulla Responsabilità sociale di impresa (che in questi mesi si è manifestata in modo evidente, giocando un ruolo che spero ne faccia salire le quotazioni nelle agende politiche dei governi) e su una politica industriale italiana ed europea che sostenga le scelte produttive più rispettose dell’ambiente e una pubblica amministrazione che ne sia protagonista, azionando una domanda pubblica qualificata.

Dalla crisi in cui il Covid ci ha precipitato non si può uscire con deroghe ad un sistema che già aveva mostrato tutti i suoi limiti, ma utilizzando le risorse che ci sono, e non ce ne saranno altre, per fare quel tratto di strada che ci consenta la transizione ecologica e digitale. Le imprese dovranno rafforzare il loro legame con il territorio, rendendo tangibile quale sia il ruolo che svolgono nella comunità di vicinato e di filiera, per facilitare una visione di lungo periodo e la diffusione di un nuovo paradigma produttivo. La pubblica amministrazione dovrà essere soggetto strategico della crescita sostenibile, promuovendo anche la maggiore partecipazione dei cittadini nell’individuazione dei fabbisogni.

Oggi registriamo una diminuzione del brownfield preesistente alla pandemia, perché dobbiamo ripartire da un’economia ferma. La crisi è un’opportunità, si sente dire, ma solo a patto di mantenere la direzione del cambiamento. Si pensava di mobilitare 100 Mld€ con il Green New Deal, ma in realtà oggi sono mobilitate molte più risorse e sono caduti molti vincoli per i prossimi otto mesi, dal patto di stabilità a quelli sugli aiuti di stato.

La pandemia ci ha confermato che è necessario ripensare radicalmente il modello di sviluppo. Il Green New Deal resta una bussola, non è stato rimesso in discussione in questi giorni di emergenza, né come impostazione né come risorse, ma molto presto – mentre ci avviamo a convivere con il virus e ragioniamo sul distanziamento e sul contenimento della pandemia, e, aggiungo, su come contenere le altre che probabilmente seguiranno – dovrà entrare in fase attuativa e costituire la strada su cui camminare.

Riorientarsi e riorientare i processi produttivi, le modalità di lavoro, gli scambi, i trasporti e ragionare sulle lezioni apprese in questi giorni riguardo l’effetto dalla globalizzazione cosi come l’abbiamo lasciata espandere. E rilocalizzare, quindi, sui territori prossimi quella parte delle catene del valore che non possiamo più rischiare che – per la volatilità dei mercati, ma anche per le emergenze sanitarie – determinino l’indisponibilità di prodotti essenziali o per le quali è più utile individuare processi produttivi idonei a sostenere la domanda interna.

Il Green New Deal europeo prevede una tabella di marcia con azioni volte a promuovere l’uso efficiente delle risorse, passando ad un’economia pulita e circolare e ripristinando la biodiversità e riducendo l’inquinamento; individua gli investimenti necessari e gli strumenti di finanziamento disponibili; cerca di garantire una transizione giusta e inclusiva, ponendo come obiettivo per la UE l’impatto climatico zero nel 2050 e annuncia che si passerà dall’impegno politico all’obbligo giuridico. Per questa transizione epocale, ecologica e digitale, la UE è cosciente di due elementi cruciali: ci sarà un conto da pagare, una scia di preoccupante disoccupazione, e per questo considera di dover aiutare tutte le componenti di questo processo, che sono territori, imprese e cittadini; sarà necessaria una leale competitività globale, rispettosa dell’ambiente, per vincere la sfida del cambiamento e questo comporta la ripresa di un multilateralismo dialogante e seriamente impegnato a mantenere gli obiettivi concordati.

Resteremo globali, nessuna prospettiva di rinnegamento del percorso fatto appare utilmente percorribile e comunque realistica, ma certamente sarà diversa la nostra modalità di interconnessione. La digitalizzazione è il primo passo del cambiamento ed è quello che crea un ponte fra l’esigenza del distanziamento fisico e la necessità di restare ampiamente collegati, anche sul piano del sistema produttivo. Nel corso del tempo si è fatto un gran parlare del rischio che la tecnologia ci conducesse ad un isolamento, mentre dall’affermarsi di internet negli anni 90 c’è stato un crescente accentramento di popolazione nelle città, perché in ogni caso la cultura innovativa necessita di contatto e le idee si alimentano solo se c’è contaminazione culturale e di approcci. Occorre tenere conto di questo, oggi che dobbiamo ragionare anche su un uso dello spazio, sia quello comune dello svago e dell’incontro, sia quello del lavoro che quello familiare, assai diverso da quello finora praticato.

Per quanto riguarda il Green New Deal, l’Italia dovrà affrontare molti problemi strettamente legati alla prioritarizzazione degli investimenti. Per il nostro paese sarà essenziale che le scelte portino ad una netta riduzione del divario interno, rafforzando le filiere produttive Nord-Sud che hanno sempre dimostrato di essere quelle maggiormente efficaci per portare benefici a tutti i territori e a tutti gli attori. Ad accompagnare i decisori politici alcuni quadri strategici decisi in ambito UE: le strategie di specializzazione intelligenti per le risorse delle politiche di coesione, il rafforzamento degli IPCEI, la rete degli Innovation hub, il libro bianco sull’intelligenza artificiale. Nei prossimi mesi occorrerà essere attenti a cogliere tutte le opportunità e anche a guardare con estrema attenzione a tutti questi strumenti strategici, affinché non si creino effetti distorsivi a favore di alcuni stati membri le cui condizioni ai nastri di questa nuova partenza sono molto diverse e possono determinare – in assenza della consapevolezza di leggerli come un quadro unico e dell’assoluta trasparenza dei processi decisionali, che va ottenuta come condizione necessaria – l’ampliarsi di divari interni alla UE, in un momento in cui la coesione fra Stati Membri è il fattore strategico per la crescita virtuosa di tutta la macro area UE.  

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