Luca De Biase, giornalista de Il Sole 24Ore – Nòva

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L’organizzazione dal basso o bottom-up, che caratterizza la società italiana, ha spesso rappresentato un limite per il nostro Paese. Un limite che in passato si è cercato di superare rincorrendo altri modelli organizzativi, ma che nella Società della conoscenza può essere sfruttato come punto di forza.

17 Marzo 2008

Articolo FPA

L’organizzazione dal basso o bottom-up, che caratterizza la società italiana, ha spesso rappresentato un limite per il nostro Paese. Un limite che in passato si è cercato di superare rincorrendo altri modelli organizzativi, ma che nella Società della conoscenza può essere sfruttato come punto di forza. Luca De Biase – de Il Sole 24Ore – Nòva – ci parla di chi sono gli innovatori dal suo punto di vista.
 

FORUM PA quest’anno ha scelto di cambiare approccio ai premi, proponendo di spostare la valutazione ed il merito dalle amministrazioni alle persone. Un approccio molto simile a quello che Nova ha sposato già da qualche anno, giusto?
Sì, è un punto di vista che condivido. Vede, un’organizzazione può essere innovativa anche se al proprio interno mancano le strutture, a patto che ci siano persone capaci, competenti e disposte al cambiamento. Invece, se queste persone mancano, anche nell’organizzazione dotata delle migliori strutture e dei migliori strumenti di lavoro o norme, non possiamo aspettarci qualcosa di veramente innovativo. Le tecnologie sono senza dubbio delle grandi opportunità, a volte talmente grandi che sembrano bastare, da sole, a fare innovazione, mentre ciò che invece determina l’innovazione è l’interpretazione che le persone danno delle opportunità offerte dalle tecnologie o dalle norme.

Dal suo punto di vista la pubblica amministrazione è capace di innovare e di innovarsi?
All’interno di quella macchina enorme che prende il nome di amministrazione pubblica e che racchiude in sé cose diversissime tra loro ci sono senza dubbio alcuni centri di innovazione importanti. Siamo abituati a percepire il cambiamento nella burocrazia italiana come assente o talmente lento da non essere percepibile, eppure alcuni casi hanno dimostrato che l’innovazione si può fare e si è fatta. Si tratta di stravolgimenti veri e propri del modo di lavorare che ci sono stati riconosciuti anche a livello europeo. Non dico cose nuove. Credo che gli esempi più eclatanti li ricordino tutti, come il fisco on line o la firma digitale – in particolare quest’ultimo è stato un approccio davvero pionieristico. Ovviamente non possiamo ignorare che alcune cose sono più difficili da realizzare in Italia che negli altri Paesi.

In un suo recente post afferma che l’Italia è un Paese bottom up.
Si rispetto ad un Paese organizzato come la Francia, la società italiana è senza ombra di dubbio un’organizzazione che parte dal basso. Il modello bismarkiano o francese di pubblica amministrazione  viene da un’idea di Stato molto gerarchico, che si riflette anche sull’organizzazione del territorio: una città centrale che catalizza l’attenzione e l’economia di molte altre. Un modello di questo genere, gerarchizzato e supportato da una burocrazia precisa, puntuale ed efficiente, è stato quello che ha trainato l’economia di molti Paesi nella fase di industrializzazione. L’Italia ha provato a replicare questo modello nell’immediato dopoguerra, ma i risultati sono stati decisamente minori, proprio perché mancava l’idea di Stato centrale.

La rete, però, sta cambiando molte cose.
Si per questo affermavo che, forse, quest’epoca, che molti definiscono della Società della conoscenza, potrebbe essere un’occasione d’oro per una società come la nostra che nasce già organizzata dal basso. Certo, di questa Società della conoscenza sappiamo ancora poco, ma non c’è dubbio che tutti la immaginiamo come un’organizzazione in cui conta l’ecosistema dell’innovazione, contano le persone e conta la creatività. In questo senso una struttura non piramidale, fatta di capacità innovative diffuse, con tante persone capaci di assumersi responsabilità ed oneri del cambiamento, può avere un ruolo più significativo nello scenario globale di quanto non fosse nell’epoca industriale.

Ha toccato un altro grande tema, quello del rapporto tra creatività e innovazione. Un recente studio europeo (lo European Innovation Scoreboard) afferma che l’unica vera abilità del nostro sistema è quella di saper trasformare gli input innovativi in proprietà industriali, mentre manca la capacità di rendere la creatività un elemento di un processo continuo. Insomma non pensiamo “lateralmente”?
Questo fa parte della cultura di un popolo, in senso antropologico. Noi abbiamo una quantità di eccellenze individuali e patiamo una struttura fatta di contesti organizzativi deboli. È così da sempre. In questa situazione, gli ottimisti sottolineano le genialità e i pessimisti sottolineano la mancanza di organizzazione e razionalità. Nulla di sorprendente in questo. Quello che potrebbe sorprendere è, invece, che in un contesto rinnovato questa situazione potrebbe rivelarsi un vantaggio.
Se ci spostiamo nella produzione industriale, ad esempio, abbiamo alcuni settori chiaramente in difficoltà, ma altri che stanno andando molto bene e che stanno conquistando quote di mercato mondiale: dall’alimentare, all’abbigliamento, alla meccanica. Si tratta di settori che sono stati salvati dalla ristrutturazione dei distretti, ossia organizzazioni a rete basate su piccole realtà economiche e tante idee e non su una grande azienda e il suo indotto. Come in tutte le cose si tratta di seguire ed incoraggiare le cose che funzionano. Questa, forse, potrebbe essere una tra le nuove missioni di una pubblica amministrazione innovativa, anche se, da questo punto di vista, la strada è ancora lunga.

Ma allora l’innovazione deve essere lasciata all’estro o alla genialità o alla “vocazione” del singolo?
Quello che sappiamo è che in un Paese come l’Italia gli innovatori, pur sentendosi soli contro mille difficoltà, lo fanno lo stesso. I motivi sono diversi e vanno dall’opportunità economica al senso del servizio. Questo vale anche per i dipendenti pubblici e credo che ciascuno di noi potrebbe portare decine di buoni esempi in questo senso. La chiave del processo trovo che vada cercata nell’aggregazione. Il conoscere, il frequentarsi, il sentirsi parte di una comunità o di una rete è qualcosa che amplifica a dismisura questa spinta, questa vocazione, come l’ha chiamata lei. Diciamo che l’input iniziale non può che venire dall’individualità, ma la riuscita dipende, invece, dall’effetto valanga che gli innovatori riescono a generare lavorando insieme o semplicemente confrontandosi.

Se dovesse citare ad esempio un innovatore che per lei si è reso protagonista di un cambiamento nella PA, che nome farebbe?
Per quello che mi riguarda credo di aver visto un grande uomo a servizio dello Stato in Carlo Borgomeo quando gestiva Imprenditorialità Giovanile (legata alla Legge 44), che è poi confluita in Sviluppo Italia agli inizi degli anni 2000 scomparendo, poi, nel tempo. IG è stata, a mio avviso, l’esempio perfetto di un’organizzazione pensata ed orientata al servizio del pubblico. Centrata in maniera straordinaria su una persona di grande cuore ed intelligenza che è riuscita a dare vita ad una struttura che ha creato decine di migliaia di posti di lavoro sani in aziende nate da zero. Borgomeo è stato, a mio avviso, l’interprete di un modo di interpretare la PA in maniera eccellente e innovativa rispetto al passato. 

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