I comunicatori davanti alla sfida dell’IA: come cambia la professione
Le relazioni con cittadini e imprese, la gestione degli strumenti digitali, l’accesso civico, la misurazione della citizen satisfaction e la calibrazione delle prestazioni sui bisogni reali non si improvvisano. Hanno bisogno di tecnica e di professionalità: ascolto, dialogo a due vie, rilevazione del feedback a fini di ri-orientamento dei servizi. In una parola, comunicazione pubblica
19 Febbraio 2025
Sergio Talamo
Giornalista e docente, Direttore comunicazione, relazioni istituzionali e innovazione digitale del FORMEZ

Foto di Sam McGhee su Unsplash - https://unsplash.com/it/foto/person-sitting-in-front-bookshelf-KieCLNzKoBo
Questo articolo è tratto dal capitolo “Comunicazione pubblica” dell’Annual Report 2024 di FPA (la pubblicazione è disponibile online gratuitamente, previa registrazione)
Il 2011 non fu un anno qualunque. Fu quello in cui l’Italia provò a tirarsi fuori dal triennio del terrore. La crisi del debito sovrano aveva scaraventato il Paese in un vortice di emergenze. Si pensò di uscirne con interventi drastici e un programma di tagli lineari che avviava la triste stagione della “PA-bancomat”. A farne le spese furono il reclutamento (con il blocco del turnover), gli stipendi dei dipendenti e il sostegno al merito (con il blocco della contrattazione), la formazione e la comunicazione. Ciò che ne derivò fu un’amministrazione indebolita e invecchiata. Il cambio di passo è arrivato pochi anni fa, con il whatever it takes di Mario Draghi che si tradusse, dopo la pandemia, nel Next generation EU e nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Nel frattempo – dati FPA – la PA registrava un’età media di circa 53 anni se si escludono le forze dell’ordine, un numero di under 30 del 4,7% e di over 60 del 16,2%, tempi medi per un concorso di un anno e mezzo e una spesa annua per la formazione di 48 euro per dipendente.
Non c’è da stupirsi se la PA-bancomat ha “ingoiato” le sue stesse riforme, idee spesso molto ambiziose e lungimiranti che però hanno prodotto pochi cambiamenti percepiti dal cittadino. Ciò è avvenuto anche se i ministri della funzione pubblica dell’ultimo quindicennio hanno seguito una traccia comune: riforme della Pubblica Amministrazione che incontrassero la soddisfazione del cliente, cioè cittadini e imprese. Dalla trasparenza alla cittadinanza digitale e ai suoi vari switch off, dalla performance fino al piano integrato delle attività organizzative (PIAO), il percorso ha avuto una sua sostanziale coerenza. Che però non vuol dire efficacia, e quindi risultati verificabili ottenuti sul campo. L’attuale Ministro, Paolo Zangrillo, ha più volte ribadito il concetto: «semplificare la PA e monitorare la qualità dei servizi con una misurazione rigorosa, è il passo necessario per rendere sempre più fluido ed efficace il rapporto tra amministrazioni, cittadini e imprese». E le prestazioni del settore pubblico possono migliorare solo mettendo al centro delle politiche gli utenti, i loro bisogni e anche le loro proposte, in una visione di governo aperto e di democrazia partecipativa. E l’uso di strumenti digitali permette di raccogliere i riscontri degli utenti in tempo reale, facilitando l’identificazione di aree di miglioramento e garantendo un processo di correzione rapida e mirata.
Ora la questione di fondo è una: non si può fare trasparenza, accountability e governo aperto affidandosi al caso. O meglio, a funzionari senza preparazione specifica, catapultati nel ruolo in mancanza di meglio o selezionati con bandi “omnibus”. Nessuno affiderebbe la costruzione di un palazzo ad un sociologo, o la cura di una malattia ad un ingegnere elettronico. Le relazioni con cittadini e imprese, la gestione degli strumenti digitali, l’accesso civico, la misurazione della citizen satisfaction e la calibrazione delle prestazioni sui bisogni reali non si improvvisano. Hanno bisogno di tecnica e di professionalità: ascolto, dialogo a due vie, rilevazione del feedback a fini di ri-orientamento dei servizi. In una parola, comunicazione pubblica. Una dimensione professionale sempre più centrale che non può essere trascurata.
Una normativa superata
Otto cittadini su dieci – dati dell’Osservatorio PAsocial-Piepoli – gradiscono informazioni dalla e sulla PA che viaggiano via social o via chat. Piattaforme come Twitter, Facebook e Instagram, ma anche Whatsapp, sono diventate canali essenziali per veicolare messaggi istituzionali, emergenze e campagne informative. Ce ne siamo accorti durante la pandemia del 2020-2021, quando l’abnegazione e le competenze dei comunicatori digitali hanno tenuto insieme l’edificio-Italia lesionato dall’incertezza e dalla paura. Non solo. Oggi l’utente è “connesso” in modo stabile con la rete e utilizza a piene mani le relazioni rese possibili dai devices di ultima generazione. Anche per questo, si aspetta interazioni h24 con servizi pubblici digitalizzati e personalizzati. Solo questo dato imporrebbe di ripensare il ruolo della comunicazione pubblica, integrando le professionalità digitali e riconoscendo il loro peso strategico.
La normativa italiana sulla comunicazione pubblica affonda le sue radici nella Legge 150 del 2000. Una legge cui, come ha affermato Mario Morcellini, «è mancata del tutto la manutenzione». Pur avendo introdotto significativi cambiamenti per l’epoca analogica in cui fu varata – su tutti la formalizzazione della figura del portavoce, dell’ufficio stampa e degli URP – questa legge “comunicati e sportelli” è oggi preistorica, quindi del tutto inapplicabile. La comunicazione non può più essere intesa come un flusso unidirezionale dall’istituzione al cittadino, ma deve diventare dialogica, interattiva e continuativa, abilitata dalle tecnologie digitali che permettono scambi in tempo reale. I professionisti del digitale si trovano oggi nella stessa condizione dei loro predecessori analogici di fine anni ’90: allora, giornalisti e comunicatori gestivano carta e relazioni istituzionali, contatti con i cittadini ed eventi pubblici. Ma erano costretti a farlo senza ruolo e riconoscimento formale, quindi con effetti molto limitati. È lo stesso “volontariato istituzionale” che anima i comunicatori digitali di oggi.
Più che professionisti riconosciuti e rispettati, sembrano spesso dei “mister Wolf” chiamati a risolvere problemi ed emergenze per poi tornare nei ranghi di un’organizzazione per definizione provvisoria e precaria. La Legge 150/2000, inoltre, aveva un’impostazione da “separati in casa” – URP rivolto ai cittadini e Ufficio stampa ai mass media – che già al tempo apparve inadeguata, al punto di indurre funzione pubblica ad emanare una circolare, la 7 del 2002, che ribadiva l’unicità della comunicazione come funzione strategica. Oggi, la necessità di un lavoro comune e di squadra è insita nel concetto stesso di cultura del servizio.
L’intelligenza artificiale, la legge 151 e il suo paradigma digitale
È tempo di una svolta radicale che, in un’amministrazione iper-regolata come quella italiana, non può che partire dalla legge. Basti pensare a ciò che accadde dopo il 2000: sulla spinta della nuova legge, la comunicazione pubblica italiana ebbe un impulso formidabile, che si tradusse nel Salone della Comunicazione pubblica (ComPA) che ogni settembre a Bologna riuniva tutto il mondo pubblico italiano e veniva aperto dal presidente del Consiglio, nella fioritura delle facoltà di Scienze della Comunicazione, in un’intensa attività di formazione svolta da Formez, Ordine dei giornalisti, Federazione della Stampa, associazioni professionali.
È urgente quindi procedere alla legge dell’epoca nuova, quella riforma della legge 150 che nei molti anni di incubazione, confronto e lavoro legislativo è stata denominata “legge 151”. L’attuale impianto della nuova normativa fu elaborato alcuni fa a valle di un gruppo di lavoro ministeriale che ebbi l’onore di presiedere e che era composto dalle associazioni dei giornalisti e dei comunicatori, dei digitali, delle università, di Regioni, Comuni e associazioni civiche. Ma quello schema ha già bisogno di un fondamentale aggiornamento legato all’impatto dell’intelligenza artificiale (IA), che sta trasformando rapidamente l’interazione tra istituzioni e cittadini. Gli assistenti virtuali, capaci di operare 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, sono già una realtà in alcune amministrazioni italiane e internazionali. Questi applicativi intelligenti, che utilizzano algoritmi di apprendimento automatico, permettono di rispondere a domande frequenti, fornire informazioni personalizzate e risolvere problemi in tempo reale, liberando risorse umane per compiti più complessi.
L’attuale front office è pronto per trasformarsi in servizio di secondo livello. Per non dire delle esperienze nel Metaverso, luogo virtuale che permette di svolgere da casa propria varie attività legate al servizio pubblico. Gli sportelli fisici, ancora oggi fondamentali in molte amministrazioni, potrebbero diventare opzioni residuali, riservate a chi ha esigenze particolari o difficoltà con l’uso delle tecnologie. In questo nuovo paradigma digitale, il front office fisico non scompare, ma si trasforma in un supporto complementare, destinato a gestire le situazioni più complesse. La sfida è garantire che nessuno venga escluso: è fondamentale che il passaggio verso una PA sempre più digitalizzata sia accompagnato da politiche di inclusione digitale per le fasce di popolazione meno avvezze all’uso delle tecnologie.
Per questo tragitto occorre una normativa e, parallelamente, il riconoscimento delle relative competenze. «Abbiamo bisogno di figure professionali che sappiano gestire l’innovazione e utilizzare le nuove tecnologie per migliorare la qualità dei servizi pubblici», ha dichiarato il Ministro Zangrillo. È così.
Le competenze richieste oggi includono la capacità di analizzare i dati provenienti dai social, di gestire contenuti multimediali, di curare la presenza digitale delle istituzioni in maniera coerente e di rispondere in tempo reale alle sollecitazioni del pubblico. Solo per ipotizzare una lista dei bisogni della PA sul lato delle competenze comunicative, tradizionali e non, si possono citare: relazioni con i media e produzione di contenuti informativi, gestione dei canali social e creazione di contenuti digitali engaging, visibilità dell’amministrazione con specialisti SEO e SEM, creazione e manutenzione di siti web e applicazioni con web designer e sviluppatori, produzione di contenuti multimediali con grafici e videomaker, relazioni pubbliche e rapporti con stakeholder e partner istituzionali, eventi pubblici e istituzionali, monitoraggio e analisi delle performance comunicative con analisti di dati, rilevazione del feedback degli utenti con indagini di customer satisfaction, relazioni e comunicazione internazionale, consultazioni pubbliche per implementare processi di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini, comunicazione di crisi per gestire situazioni di emergenza e tutelare la reputazione dell’ente.
A questo articolato set vanno aggiunte le nuove competenze legate all’intelligenza artificiale (IA) generativa. Si tratta di facoltà di livello alto, perché per maneggiare strumenti in grado di accompagnare il lavoro umano ad un livello sempre crescente di precisione e creatività, occorre un doppio profilo: da un lato saper usare i nuovi mezzi, dall’altro sa- perli mettere a disposizione di tutti. Perché, come ha affermato il presidente di Formez Giovanni Anastasi, «l’IA abbatte le barriere di ingresso e riduce i compiti ripetitivi, quindi induce ad agire, scegliere, deciderei».
Comunicatori digitali e manager dell’IA, insomma. Ma questo finora non è avvenuto. Il PNRR, che con i suoi 11 miliardi di euro rappresenta un’opportunità storica per rilanciare la PA, ha clamorosamente ignorato le figure della comunicazione pubblica tra quelle richieste nei bandi concorsuali. Un errore che potrebbe compromettere la capacità dell’amministrazione di comunicare efficacemente le numerose riforme e iniziative finanziate dal PNRR. È urgente inserire nei futuri concorsi pubblici figure professionali altamente specializzate nella comunicazione digitale. La loro assenza dai bandi del PNRR è sintomatica di una rimozione: il cittadino è protagonista nei convegni ma non ancora nella realtà della vita pubblica.
Conclusioni
L’Italia è già un Paese digitale. Il panorama civico è incoraggiante, e lo dicono i dati[1].
Manca all’appello solo la comunicazione, fondamentale trait d’union fra istituzioni e cittadini, nonché fattore di coesione sociale e di costante feedback sui servizi. La Legge 151 non è quindi una fuga in avanti, ma il frutto di una consapevolezza che mira a recuperare il molto tempo perduto. Con una ispirazione prima di tutto etica: restituire all’amministrazione la reputazione, ai cittadini la fiducia nello Stato e ai dipendenti l’orgoglio della loro missione. Lo Stato italiano dovrà finalmente decidere se rimanere un “Palazzo” di stampo pasoliniano o diventare la “casa di vetro” di Filippo Turati, che grazie alle tecnologie rende effettiva la cittadinanza.
[1] Alcuni esempi: SPID 39,2 milioni di identità digitali, ~18.800 PA attive; CIE 48,8 milioni, ~10.000 PA integrate con Entra con CIE (dati al 30/11/2024); pagoPA più di 388,6 milioni di transazioni, controvalore economico di 85,3 miliardi di euro (dati al 30/11/2024, riferiti all’anno in corso); appIO 41,4 milioni di download, ~16.200 PA attive (845 milioni di messaggi inviati da enti), più di 341mila servizi disponibili (dati al 30/11/2024).