L’Open Governance come modello per la ricostruzione della fiducia sostanziale

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6 Febbraio 2019

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Marina Bassi

Project Officer Area Ricerca, Advisory e Formazione FPA

Photo by Michael D Beckwith on Unsplash - https://unsplash.com/photos/khfAR_lDBmQ

Il 2018 è stato un anno contraddittorio per l’Italia in tema di governo aperto, a seconda del punto di vista dal quale lo si guarda. Da un lato, in termini di Open Government inteso nell’accezione di governo trasparente, è stato palcoscenico di traguardi raggiunti, o quanto meno di passi in avanti (si pensi al posizionamento dell’Italia sul tema Open Data nel DESI 2018, o nell’Open Data Maturity Report europeo); dall’altra parte, non ci siamo sulla visione di governance che l’apertura delle istituzioni dovrebbe concorrere a creare (lo leggiamo anche nella sezione II dell’Indagine sul livello di maturità degli Open Data in Italia e dell’applicazione della direttiva PSI, a cura di AgID). Trasparenza sì, collaborazione non ancora.

Lo scenario è inoltre contaminato da un ulteriore elemento di sfida quest’anno: il progressivo peggioramento della fiducia dei cittadini in qualità di utenti e risorse umane sociali, talvolta a seguito di episodi tra cui sismi, esondazioni e crolli infrastrutturali. Come conoscere le azioni che le amministrazioni mettono in campo per rispondere ad accadimenti ordinari e straordinari? Come riscostruire il senso di fiducia nella società civile? La risposta non può che risiedere nelle pratiche di monitoraggio e valutazione dell’andamento delle politiche pubbliche a più livelli: da un lato, inteso come azione civica sussidiaria; dall’altra parte, inteso come azione interna delle stesse amministrazioni, per la valutazione e il perfezionamento delle scelte pubbliche.

In termini di fiducia dei cittadini, a ben vedere, il tema del monitoraggio civico è qualcosa che si ostina a ritornare come punto all’ordine del giorno dell’agenda di governo. Basti pensare a tutte le piattaforme di interfaccia sullo stato di avanzamento dei lavori pubblici attive oggi, come Monithon o Open Cantieri del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. E queste sono tutte buone occasioni verso il governo aperto, sebbene facciano riflettere anche su quanto ancora, anche nei casi più virtuosi, prevalga una concezione dell’Open Government snaturata e sbilanciata sul concetto di trasparenza come concessione che arriva dall’alto, quando invece dovrebbe essere la sostanza stessa del rapporto di fiducia instaurato tra cittadini e amministrazione e tra cittadini e politica.

Occasioni in cui si rende comunque evidente che il governo, anche aperto, fatica a essere inclusivo. Ce ne accorgiamo anche da come è evoluta la definizione dell’Open Government, che nel tempo ha perduto la “gamba” della collaborazione nei documenti ufficiali, tendendo all’idea ancora legata a una PA bipolare, magari per alcuni versi illuminata, ma sempre come cosa altra rispetto alla molteplicità degli attori sociali. Dal lato della valorizzazione e del perfezionamento dell’azione interna il ragionamento è tendenzialmente speculare. Report nazionali e europei stabiliscono che, in termini ad esempio di erogazione di dati in formato aperto, siamo a buon punto. Ma l’impatto degli Open Data in Italia è in effetti quasi esclusivamente sulla trasparenza, sebbene la realtà in cui ci muoviamo sia molto più articolata.

Il problema prioritario continua a rimanere la necessità di una governance, e una possibile soluzione potrebbe stare nella creazione di ecosistemi tematici degli Open Data (tentativo su cui AgID sta lavorando con OntoPiA, rete delle ontologie e dei vocabolari controllati della pubblica amministrazione italiana). “Eppur si muove”, abbiamo ripetuto più volte nel corso di quest’anno, registrando alcuni casi virtuosi di amministrazioni che a più livelli si sono “legate i capelli” e hanno compreso il loro nuovo ruolo di PA abilitante grazie al ricorso alle nuove tecnologie e ad approcci innovativi. Innescando la cosiddetta burocrazia creativa (C. Landry, Creative Bureaucracy Radical Common Sense, 2017) e coinvolgendo soggetti pubblici, privati e comunità locali nella gestione dei beni comuni, lo sforzo che hanno fatto è stato di ricostruzione di quel rapporto collaborativo e fiduciario con i cittadini.

È ad esempio quello che è accaduto a Firenze, dove dapprima la mobilità urbana è diventata banco di prova per un’azione proattiva e creativa, per arrivare poi alla scelta strategica della Smart City Control Room, cabina di regia della gestione dei servizi urbani. Ormai è chiaro che la PA deve fare riferimento a un modello organizzativo che abbandoni la logica verticale a favore di una orizzontale, in grado di coinvolgere i diversi attori pubblici, privati e del non profit, nella progettazione e gestione dei servizi avanzati. Tale obiettivo può essere perseguito attraverso il riconoscimento e la promozione delle reti e delle connessioni sociali, il governo di processi decisionali inclusivi e di progettazione partecipata e l’uso sapiente delle tecnologie, andando a configurare una piattaforma, un sistema sociotecnico (S. Goldsmith, A New City O/S. The Power of Open, Collaborative, and Distributed Governance, 2018) in grado di abilitare e sostenere lo sviluppo.

Da questa prospettiva la PA abilitante diventa una casa aperta di processi, di informazioni, di dati prodotti dai diversi attori e frutto della collaborazione fra questi. Dobbiamo passare dalla metafora della macchinetta automatica a quella del bazar (D. F. Kettle, The Next Government of the United States: Why Our Institutions Fail Us and How to Fix Them, 2008). Nel primo caso la PA viene descritta come un distributore in cui, inserendo le monete (le nostre tasse) riceviamo un prodotto o un servizio. Per quanto moderna ed evoluta rimane un servizio esterno. Nel bazar, al contrario, la comunità dei venditori si scambia informazioni, beni e servizi in una logica di collaborazione e competizione nell’ambito di uno spazio comune che è il mercato.

Ed è proprio dallo scambio di informazioni e dati che le PA dovranno partire per ricostruire il senso di fiducia e apertura, e facendo quel miglio in più che innalzi l’Open Government a Open Governance, favorendo l’approdo a un modo univoco di visione dei dati del cittadino-utente come strumenti di progettazione orizzontale. Perché questo accada, in un ecosistema di collaborazione continua tra soggetti, il ruolo di enti locali e imprese sarà centrale per un effettivo ammodernamento tecnico, professionale, culturale e di governance dei dati di proprietà dei cittadini, oggi ancora hacker della PA. Ciò in realtà non costituisce nemmeno una criticità, anzi il più delle volte gli obiettivi dell’amministrazione e dei cittadini coincidono, non sono in conflitto. Va solo ottimizzato il processo.

I civic hacker lanciano gli stimoli e sperimentano prototipi. La PA abilitante deve metterli a sistema trasformandoli in processi ordinati, supportata da imprese, enti del terzo settore e reti sociali territoriali.

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