Il data management alla base del buon governo
22 Settembre 2015
Gianni Dominici
Alla base del buon governo ci deve necessariamente essere la capacità di prendere decisioni sulla base dell’esatta conoscenza di quello che avviene nel territorio stesso. È ciò che viene chiamato Data driven decision, ed è la conseguenza virtuosa di un processo in grado di trasformare i diversi dati grezzi in informazioni, queste in conoscenza su cui prendere, infine, decisioni.
“Se non la conosci non la puoi gestire” scrive Stephen Goldsmith nel suo ultimo libro The responsive city. E ha ragione.
Con un buon livello di semplificazione, possiamo analizzare e passare in rassegna le diverse tipologie di dati a disposizione dei decisori per impostare correttamente un governo intelligente dei territori e più in generale di qualunque organizzazione.
Prima di tutto ci sono i dati istituzionali quelli prodotti dagli enti preposti, a cominciare dall’ISTAT. Cito, solo a titolo di esempio fra la miniera di documentazione prodotta, l’ultimo Rapporto sulla mobilità urbana che ci restituisce una importante e dettagliata fotografia dei diversi sistemi locali della mobilità.
Poi ci sono le informazioni che scaturiscono dallo stesso funzionamento della macchina pubblica. Basti pensare ai dati raccolti dai grandi enti come INPS ed INAIL. Se scendiamo a livello urbano abbiamo i dati sanitari, i dati economici, i dati sulla mobilità. I processi di digitalizzazione in atto, poi, offrono formidabili strumenti per ampliare la conoscenza attraverso i dati. Ad esempio l’introduzione della fatturazione elettronica obbligatoria verso tutta la PA, oltre a velocizzare e razionalizzare i processi di pagamento, è un’importante occasione di conoscenza della spesa pubblica.
I dati istituzionali se resi pubblici diventano Open Government Data, dati aperti a disposizione dei diversi attori sociali (cittadini, imprese, altre istituzioni): non solo un’occasione di trasparenza e di accountability, ma la precondizione per la creazione di valore pubblico tramite la partecipazione civica.
Poi c’è il capitolo, completamente nuovo, dei dati prodotti dai cittadini stessi. Con il termine crowdsensing, ad esempio, ci si riferisce ai dati prodotti dai cittadini nell’ambito delle attività personali e professionali. E qui gli esempi si sprecano: se compriamo un termometro collegato ad Internet non solo produciamo una informazione per noi stessi ma la distribuiamo anche, fornendo un servizio agli altri cittadini. Usando un navigatore satellitare diventiamo terminali per la produzione di un miniera di dati sulla mobilità (lo scorso anno Tom Tom ha pubblicato uno studio sulla mobilità che si avvaleva di 6 Trilioni [1000 miliardi] di segnalazioni GPS anonime popolate da una Community di più di 50 Milioni di utenti). Se poi l’attività di produzione dati presuppone il coinvolgimento attivo dei cittadini diventa crowdsourcing: è il caso delle piattaforme per la raccolta di segnalazioni guasti o problemi, o delle informazioni segnalate dagli utenti usando il software di navigazione waze.
Per ultima la sentiment analysis tramite la quale si analizzano le conversazioni sui social network per individuare gusti del pubblico, tendenze, argomenti emergenti. È noto l’esperimento di Google con il suo Flu per intercettare il trend influenzale nel mondo.
Insomma nella città dei dati viviamo in un mondo di Petabyte, ma la PA, i nostri governanti sono pronti a trasformare queste informazioni in buon governo?
Le potenzialità sono enormi: si va dall’analisi dei bisogni, e quindi dalla previsione della domanda, ad una maggiore razionalizzazione del spesa pubblica, ad un miglioramento delle performance pubbliche. Ma la tecnologia da sola non basta. È necessario un forte cambio culturale sia a livello amministrativo sia politico. Abbiamo bisogno di una PA disposta a introdurre innovazioni organizzative al suo interno, con una migliore definizione dei ruoli e delle competenze, una PA che dia il giusto spazio alla formazione e alla sensibilizzazione, quindi al cambiamento culturale.