Una città resiliente per resistere alle pressioni della storia
Nel parlare di città resilienti si finisce sempre per fare confusione. Un po’ perché il termine assume diversi significati riconducibili al contesto disciplinare in cui lo si utilizza, un po’ perché il riferimento alle realtà urbane ha portato in modo automatico all’associazione resiliente = smart. Questo nella convinzione che una città smart, sia sempre e comunque una città resiliente ovvero in grado di adattarsi ad ogni intervento esterno, sia esso prodotto dall’uomo o dal cambiamento climatico, al fine di ripristinare il proprio equilibrio interno. Una definizione riduttiva, perché la città smart è quella che resiste alla storia.
25 Marzo 2014
Eleonora Bove
Nel parlare di città resilienti si finisce sempre per fare confusione. Un po’ perché il termine assume diversi significati riconducibili al contesto disciplinare in cui lo si utilizza, un po’ perché il riferimento alle realtà urbane ha portato in modo automatico all’associazione resiliente = smart. Questo nella convinzione che una città smart, sia sempre e comunque una città resiliente ovvero in grado di adattarsi ad ogni intervento esterno, sia esso prodotto dall’uomo o dal cambiamento climatico, al fine di ripristinare il proprio equilibrio interno. Una definizione riduttiva, perché la città smart è quella che resiste alla storia.
Pur nella convinzione che i repentini cambiamenti climatici richiedano alle città moderne delle pianificazioni da hoc che permettano di adattarsi e mitigare i rischi che ne derivano, una città resiliente va intesa in senso più ampio come realtà in grado di sviluppare delle “risposte innovative” a bisogni sociali ed economici, oltre che ambientali. Città che devono resistere quindi alle pressioni della storia, oltre che dell’ambiente.
Dal punto di vista urbanistico, questo approccio segna un passaggio fondamentale, un cambio di rotta: da un modello di riqualificazione urbana a uno di rigenerazione, che prevede il coinvolgimento attivo della collettività nella sua definizione.
E questo è un po’ quello che il progetto sviluppato dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Chieti-Pescara, coordinato dal professor Carlo Pozzi e da Valter Fabietti, sta cercando di realizzare in Brasile. Un progetto portato avanti con la collaborazione della Escola da Cidade di San Paolo, nei fatti una cooperativa di giovani docenti dell’Università di San Paolo che, lavorando insieme alla municipalità della metropoli brasiliana, si sta impegnando nella riqualificazione delle favelas di San Paolo. Un gruppo di lavoro interuniversitario, quello che nasce dall’incontro tra Italia e Brasile, che mira a ricucire lo strappo tra bellezza e povertà che si è creato nella città di Florianòpolis, capitale dello stato Santa Caterina (Brasile meridionale). Una piccola Rio, il cui cuore costituito dal Massiccio Centrale è “abitato” da tante popolosissime favelas. Una ferita urbana che testimonia un disagio sociale.
Un’idea che nasce dal basso, fuori quindi dai circoli accademici ufficiali, quella di trasformare l’agglomerato nato selvaggiamente, come ci spiega Carlo Pozzi: ”Dopo una serie di workshop organizzati con la Escola da Cidade di San Paolo, mi sono recato a Florianòpolis. Lì un sacerdote molto impegnato sul territorio, Padre Vilson Groh una persona straordinaria, ci chiese di pensare ad una riqualificazione delle favelas in chiave turistica. All’inizio ho pensato ad una richiesta quantomeno bizzarra, ma poi mi sono reso conto che c’era del materiale buono su cui lavorare e che si poteva sfruttare il modello del social housing e superarlo”.
Ecco infatti la chiave di lettura di questo progetto di rigenerazione: lo sviluppo di un’attrattività turistica che dia una nuova dignità urbana a questi agglomerati e allo stesso tempo un valore aggiunto al territorio, che smuova l’economia locale.
Orti urbani, scuole di samba, un centro culturale, strutture per spettacoli all’aperto, attività commerciali e spazi informativi e anche, perché no, dei B&B. Le ipotesi di rigenerazione, in questo caso, non trattano solo gli edifici, ma anche le strade e gli spazi pubblici che ad oggi non hanno identificazione. Non demolire, ma lavorare su ciò che c’è già, sulle dotazioni infrastrutturali e le reti naturali, al fine di portarle alla luce e valorizzarle. Trasformare per curare o meglio rigenerare, perché: “La favelas è un ecosistema che va rispettato e ha una capacità di modificarsi alle trasformazioni, ma c’è bisogno di un progetto che tenga conto anche della dimensione sociale ed ecologica per dare una nuova dignità ad un insieme che è li da 20 anni” ci dichiara il prof. Pozzi.
Fare spazio (pubblico)
Uno dei principali problemi in zone ad alta intensità abitativa come nel caso delle favelas è quello di creare degli spazi pubblici, che possano essere luoghi di incontro e socialità. Il progetto, quindi, prevede una serie di piccoli interventi, piuttosto delicati, che pensati “in rete” sono volti a realizzare una serie di spazi pubblici. Un modello a cui ispirarsi è la città colombiana di Medellìn, regno del narcotraffico, il cui l’ex Sindaco Sergio Fajardo Valderrama ha portato scuole, biblioteche, un parco della scienza e un giardino botanico. Nei quartieri più poveri nascono nuove strutture progettate dagli architetti locali. Ma l’opera che ha aperto la comunicazione tra la città e le favelas è stata la Metrocable, una funivia che per la prima volta rende le favelas accessibili a tutti e avvia un processo di trasformazione a catena: la popolazione inizia a sistemare le case, a ristrutturare e pulire.
Turismo e non voyeurismo
Ma come evitare di incorrere nel rischio che il turismo si trasformi in un in una sorta di “voyeurismo dell’indigenza”? Se la partecipazione comunitaria è sottoposta a costante verifica e sollecitata non si potrà mai sfociare in un’idea di turismo ambiguo. Il gruppo di lavoro, dopo una prima elaborazione in workshop italiani e paulisti, ha effettuato a dicembre 2013 diversi incontri con i rappresentati della comunità locale per una co-progettazione che renda condivisibile oltre che visibile il sistema in cui “l’ultima parola spetta sempre alla popolazione”.
Ad oggi si aspetta in realtà la parola dell’amministrazione brasiliana, che dopo un incontro con il team italiano, non ha ancora dato il via libera. Questo a dimostrazione che per poter attuare politiche in un’ottica smart c’è bisogno di una costante comunicazione tra le amministrazioni e cittadini. Le iniziative, che nascano dal basso o dalle amministrazioni, devono presupporre sempre una volontà politica di cambiamento.