Valutare l’università. Tutti ne parlano, ma chi lo vuole davvero?
“In Italia la valutazione dell’università non si farà mai. Non è nel nostro DNA, gli italiani (almeno gli addetti ai lavori) sono tutti convinti che è indispensabile valutare però, piccolo particolare, nessuno vuole essere valutato”. Il commento, più che disilluso, arriva da uno che di valutazione se ne intende. Maurizio Sorcioni, attualmente responsabile dell’Area studi e ricerche di Italia Lavoro e membro del Nucleo di valutazione di Ateneo dell’Università LUISS di Roma, è stato responsabile dell’Area Valutazione delle politiche pubbliche del Censis, ha partecipato alla Commissione del ministro Berlinguer per l’istituzione del Sistema nazionale di valutazione della scuola, ha fatto parte del CNVSU (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario) sotto la presidenza di Giuseppe De Rita.
10 Dicembre 2008
“In Italia la valutazione dell’università non si farà mai. Non è nel nostro DNA, gli italiani (almeno gli addetti ai lavori) sono tutti convinti che è indispensabile valutare però, piccolo particolare, nessuno vuole essere valutato”. Il commento, più che disilluso, arriva da uno che di valutazione se ne intende. Maurizio Sorcioni, attualmente responsabile dell’Area studi e ricerche di Italia Lavoro e membro del Nucleo di valutazione di Ateneo dell’Università LUISS di Roma, è stato responsabile dell’Area Valutazione delle politiche pubbliche del Censis, ha partecipato alla Commissione del ministro Berlinguer per l’istituzione del Sistema nazionale di valutazione della scuola, ha fatto parte del CNVSU (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario) sotto la presidenza di Giuseppe De Rita.
Ma qual è il bilancio di tutti questi anni di lavoro? Sorcioni risponde: “Il sistema di valutazione dell’università è rimasto al palo, è un sistema che serve a tirare fuori una volta all’anno quattro dati messi in fila e fine del discorso. Ci sono stati tentativi di utilizzare davvero la valutazione per fare un’allocazione razionale delle risorse, ma sono quasi tutti falliti anche perché, ovviamente, nel momento in cui qualcuno tira fuori questo principio immediatamente le università si scatenano. Nonostante tutte facciano un’apologia della valutazione, poi nessuna ritiene di dover essere valutata. Tra l’altro, nell’università vige la cosiddetta peer review, cioè la valutazione tra pari: i soggetti che valutano sono sostanzialmente gli stessi che fanno l’università. Anche se poi nei nuclei di valutazione c’è anche la presenza di soggetti esterni”.
Negli ultimi mesi si è tornati a parlare di riforma dell’università e, di conseguenza, anche il tema della valutazione è di nuovo in primo piano. Il 6 novembre scorso il Ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, ha presentato al Consiglio dei Ministri le Linee guida per l’università (nella stessa riunione in cui è stato approvato il decreto legge in materia di diritto allo studio, valorizzazione del merito e qualità del sistema universitario e della ricerca).
Nelle Linee guida si parla del “merito come criterio costante di scelta: nell’allocazione delle risorse, nella valutazione dei corsi e delle sedi, nella scelta e nella remunerazione dei docenti, nella promozione della ricerca”. Si sottolinea che, nel 2009, il 7% di tutti i fondi di finanziamento alle università sarà erogato sulla base della qualità (della ricerca, dell’insegnamento e dei suoi risultati, dei servizi e delle strutture) e che la percentuale crescerà rapidamente negli anni successivi, con l’obiettivo di raggiungere il 30% entro la legislatura.
Vengono poi identificate alcune azioni prioritarie: accelerare l’entrata in funzione dell’Agenzia nazionale di valutazione; predisporre, sulla base dell’esperienza già acquisita dal CIVR (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca), un modello di valutazione delle strutture di ricerca, universitarie e non, che consenta un’allocazione delle risorse su base qualitativa dipartimento per dipartimento; attribuire da subito ai risultati della valutazione della ricerca un peso significativo nell’assegnazione delle risorse, delle borse di dottorato e di nuovi posti da ricercatore; assicurare al CIVR e al CNVSU le risorse necessarie per proseguire la loro attività in attesa dell’entrata in funzione dell’Agenzia.
Fin qui la dichiarazione di intenti. Ma si riuscirà davvero a smuovere un sistema così fossilizzato come quello dell’università italiana? Sorcioni ci spiega perché, secondo lui, non cambierà alcunché rispetto al passato. “È dal 1990 che si prospetta la nascita di un’Agenzia per la valutazione – ricorda Sorcioni – quando ci si accorge che l’università è autoreferenziale, che non funziona, che c’è confusione nell’organizzazione dei corsi, allora se ne riparla, ma poi tutto rimane esattamente com’è”. Del resto, secondo Sorcioni, anche con la nascita dell’Agenzia non è detto che cambi poi molto: “Se l’Agenzia diventa come l’INVALSI o come il Comitato nazionale di valutazione per l’università allora non serve. Non è il contenitore, ma il contenuto che fa la differenza, per cui se non ci sono gli stakeholder che vogliono un’effettiva valutazione è inutile creare nuove strutture”.
Sorcioni sottolinea che gli strumenti, in realtà, già ci sarebbero. Il ciclo della valutazione è chiaro per chi se ne occupa: da una parte c’è la valutazione delle prestazioni, che è l’analisi degli indicatori dell’output fisico (ad esempio il numero di studenti che completa il ciclo nel tempo giusto, il voto di laurea, il tasso di dispersione durante i primi due anni, le risorse impegnate rispetto alla quantità di produzione scientifica che viene fatta, e così via); dall’altra parte ci sono i cosiddetti indicatori d’impatto, quelli che misurano l’outcome, il risultato finale, l’effetto che una particolare strategia educativa o di formazione genera (per esempio test che rilevano se i livelli di apprendimento standard rispecchiano i voti ottenuti, o sono invece più bassi; il confronto tra gli studenti laureati con il massimo dei voti e quelli che trovano posto sul mercato del lavoro, ovviamente tenendo conto del contesto territoriale ed economico in cui ogni università è inserita).
“Noi oggi abbiamo già questi due tipi di indicatori, che messi insieme ci permetterebbero di valutare puntualmente la qualità degli atenei e delle facoltà. E abbiamo anche gli strumenti per valutare la qualità della produzione scientifica nel campo della ricerca, perché esistono delle banche dati che raccolgono tutti i contributi a riviste internazionali realizzati dalle università. Inoltre, c’è una legge che prevede che in ogni ateneo vengano costituiti dei nuclei di valutazione, come organismi autonomi all’interno dell’università”.
“Quello che manca – prosegue Sorcioni – non è la strumentazione, ma la volontà di rendere effettiva la valutazione, che ha senso solo nel momento in cui si prevede un sistema di analisi comparativa dei risultati. Oggi questo non è possibile. I nuclei di valutazione hanno sostanzialmente una funzione di verifica e di controllo interno, che è indubbiamente importante, ma che non significa fare valutazione. Un nucleo non può vedere i risultati di un altro nucleo e, quindi, non può confrontarli con i propri”.
Sono due i motivi per cui si valuta, secondo Sorcioni: per poter allocare in maniera trasparente e razionale le risorse, quindi per una ragione di governance del sistema; per mettere in condizione famiglie e studenti di poter scegliere in modo ragionato il percorso di studi. Ecco, quindi, il tema della trasparenza, che in questo senso è inscindibile dalla valutazione.
Sottolinea Sorcioni: “In un paese civile ci dovrebbe essere la volontà di misurare quello che si fa dal punto di vista educativo, per capire se le risorse investite in quel settore sono spese bene o male. Bisogna creare standard non derogabili, cioè un livello minimo che va garantito, dopodiché le risorse vanno date in funzione dei risultati. La valutazione dell’università e della scuola necessita di premi e di sanzioni, altrimenti non serve a niente. Poi è necessario rendere pubblici i dati. Gli altri paesi europei questa filosofia l’hanno sposata da un pezzo. Ad esempio le università e le scuole inglesi sono sistematicamente valutate e, se si va sul sito dell’Ofsted (Office for Standards in Education), si possono vedere i rapporti su ogni scuola, con gli indicatori di performance e la valutazione. Qualunque famiglia può decidere, sulla base di quei rapporti, in quale scuola pubblica mandare i propri figli”.
“Gli effetti della mancata valutazione in Italia sono molteplici e devastanti – conclude Sorcioni –. Abbiamo pochi soldi e siamo anche capaci di buttarli, perché non riusciamo ad allocare le risorse con un minimo di razionalità. E, siccome non orientiamo gli studenti verso il percorso formativo migliore e non gli offriamo strumenti oggettivi per scegliere, non ci si iscrive all’università in base alle garanzie di qualità offerte, alle prospettive per il proprio futuro, ma in base ad altri parametri, come la vicinanza a casa. Se si decide di distribuire le risorse in base al merito, chi sa di meritare meno ovviamente non vuole la valutazione. Ma, in fondo, conviene a tutti continuare ad avere indistintamente le stesse risorse: di notte tutti i gatti diventano bigi e, siccome la valutazione illumina, non interessa a nessuno”.