Appalti, cinque nuove forme di partenariato: un’analisi

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Non siamo ancora davanti al testo definitivo del provvedimento, ma non si attendono correzioni che ne sconvolgano l’impianto. Si può quindi iniziare a riflettere sulle cinque nuove forme di partenariato introdotte dal nuovo testo, che ben si è ispirato all’esperienza europea

9 Marzo 2016

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Francesco Molinari, Politecnico di Milano

Può la parola partenariato far rima con appalto? Non certo per i puristi dell’endecasillabo, ma per i redattori del Codice degli Appalti e delle Concessioni licenziato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 3 marzo scorso probabilmente sì. Non siamo ancora davanti al testo definitivo del provvedimento, che dovrà andare prima in Consiglio di Stato, poi in Conferenza unificata e infine passare dalle Commissioni parlamentari competenti. Ma è ragionevole attendersi correzioni che non ne sconvolgano l’impianto. Pertanto, ha abbastanza senso iniziare a riflettere sul significato di questa irruzione terminologica – 41 occorrenze nell’articolato, altre ancora nei testi accompagnatori al provvedimento – che costituisce una delle tante possibili chiavi di lettura della riforma in itinere. Infatti nel vecchio Codice dei Contratti (D.Lgs. 163 del 12/4/2006), per qualche mese ancora in vigore, la parola “partenariato” appariva una sola volta, seguita però dall’aggettivo “istituzionale”, quindi riferibile al noto principio di leale collaborazione fra soggetti pubblici. Ben altra prosa nel nuovo testo governativo, che, sicuramente ispirato dagli esempi europei, introduce nel nostro ordinamento ben cinque nuove fattispecie meritevoli di approfondimento.

La prima, enfatizzata dallo stesso comunicato stampa di Palazzo Chigi, è il partenariato pubblico privato: contratto in base al quale una o più stazioni appaltanti affidano l’esecuzione di lavori, la prestazione di servizi o la disponibilità di beni immobili pubblici ad uno o più operatori economici, riconoscendo un canone periodico o il diritto a riscuotere direttamente gli introiti di un servizio ad utenza esterna. a fronte dei costi di investimento e di gestione, oltre che per attenuare il rischio d’impresa. Il programma triennale dei lavori conterrà l’espressa indicazione degli interventi suscettibili di essere realizzati con questo sistema. Esso potrà avere ad oggetto anche la fattibilità tecnico ed economica e la progettazione definitiva delle opere o dei servizi connessi (art. 180 del Decreto).

Una variante piuttosto promettente di questo istituto è descritta nell’art. 151 del nuovo Codice, intitolato “(sponsorizzazioni e) forme speciali di partenariato“: il Ministero dei beni culturali può attivarla, anche mediante concessione, al fine di consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato.

La terza fattispecie, introdotta dall’art. 65, è il partenariato per l’innovazione: nuovo e innovativo strumento di acquisizione di prodotti, servizi o lavori che non trovano riscontro in soluzioni già disponibili sul mercato, e pertanto devono essere realizzati espressamente, a valle di specifiche attività di ricerca e sviluppo. Attraverso una prima selezione dei candidati e una serie di negoziazioni parallele con i soggetti che hanno manifestato il proprio interesse a partecipare alla procedura, le stazioni appaltanti potranno sia manifestare i propri fabbisogni fissando i requisiti minimi e i costi massimi delle soluzioni richieste, senza impegnarsi in un’ardua descrizione a priori delle stesse, sia strutturare la commessa in fasi successive, secondo la sequenza tipica dei progetti di ricerca, fissando obiettivi intermedi che i partecipanti dovranno raggiungere per ottenere il pagamento della remunerazione corrispondente.

La quarta fattispecie di cui tratta specificamente l’art. 190 del Decreto è chiamata “contratto di partenariato sociale“: essa prevede in primo luogo che cittadini singoli o associati, appartenenti ad un preciso ambito locale, possano proporre all’amministrazione competente progetti di pulizia, manutenzione, abbellimento di aree verdi, piazze o strade, la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, o interventi di decoro urbano, recupero e riuso di aree e beni immobili inutilizzati con finalità di interesse generale, ottenendo in cambio riduzioni o esenzioni di tributi in corrispondenza al tipo di attività svolta. Un’altra possibilità è quella per i cittadini residenti in un comprensorio dove insistono aree riservate al verde pubblico urbano o immobili comunali di origine rurale, riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere, con esclusione degli immobili ad uso scolastico e sportivo, di ricevere l’affidamento in gestione, in cambio della manutenzione delle suddette aree e beni, con diritto di prelazione rispetto ad altri soggetti interessati. Una terza possibilità è che gruppi di cittadini organizzati possano formulare proposte operative di pronta realizzabilità per la realizzazione di opere di interesse pubblico, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, indicandone i costi ed i mezzi di finanziamento, senza oneri per l’ente locale. Tali opere saranno da questi acquisite a titolo originario al proprio patrimonio indisponibile.

La quinta e ultima fattispecie è nota in dottrina come “partenariato pubblico-pubblico” e comprende in particolare l’affidamento in-house, che come è noto costituisce deroga rispetto alle norme comunitarie in materia di appalti e concessioni. L’art. 5 precisa meglio i presupposti di tale affidamento, riconfermandone l’esclusione dall’ambito di applicazione del Codice. Ad avviso di chi scrive, a questa forma di partenariato può essere assimilata anche l’esecuzione congiunta di appalti pubblici, accordi quadro o sistemi dinamici di acquisizione fra più stazioni appaltanti, non solo nazionali, ma anche di altri Stati membri, come ipotizzato all’art. 43 del Decreto. Una norma di indubbio sapore avveniristico, e che tuttavia (come dimostrato da alcune sperimentazioni che hanno coinvolto anche soggetti italiani, come il progetto HAPPI finanziato dall’Unione europea) indica nella dimensione transnazionale la prossima sfida per il miglioramento continuo delle amministrazioni aggiudicatrici.

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