Conservazione, dal forum italiano un primo confronto delle normative estere
Il Forum della conservazione, iniziativa di AgID, ha l’obiettivo di diffondere un’adeguata informativa sulla conservazione dei documenti informatici e di creare uno spazio di confronto sulle problematiche di attuazione. Ecco le osservazioni nate dal primo incontro”allargato”
12 Gennaio 2016
Maria Guercio, Associazione nazionale archivistica italiana
La conservazione degli archivi digitali risponde a un’esigenza di democrazia soprattutto quando riguarda la pubblica amministrazione ed è parte costitutiva del diritto di cittadinanza. La letteratura di riferimento in questo ambito è talmente ampia e il dibattito che in questi anni ha accompagnato il percorso normativo italiano è stato così ricco e vivace da non richiedere in questa sede ulteriori approfondimenti. Il quadro internazionale delle iniziative e delle attività di ricerca e i progetti europei costituiscono una conferma della rilevanza del tema, ma anche della sua complessità operativa oltre che concettuale. Il confronto con quanto realizzato negli altri Paesi fa tuttavia emergere diversità non di poco conto che è opportuno affrontare in questa fase ancora iniziale dei processi di digitalizzazione dei patrimoni documentari per valutare compiutamente e ragionevolmente la sostenibilità per le amministrazioni e per il Paese e la qualità del modello che l’Italia ha adottato soprattutto in materia di gestione dei documenti e delle attività che preparano i processi di conservazione. Un modello basato sulla gestione dell’intero ciclo di vita della risorsa elettronica, finalizzato quindi a garantire un controllo di integrità e di autenticità precoce sui documenti digitali. Un modello, tuttavia, che impegna su questo fronte anche i singoli cittadini, ad esempio nel caso della fatturazione elettronica, con costi non sempre certi a fronte di obblighi di lungo periodo e investe con obblighi rilevanti e crescenti pubbliche amministrazioni, imprese di qualunque dimensione, ma anche enti e associazioni private chiamate a produrre, gestire e archiviare i propri documenti digitali nel rispetto di una regolamentazione dettagliata e ambiziosa. La posta in gioco non è di poco conto anche se è ancora molto limitato il numero di coloro che hanno sufficiente consapevolezza del problema e delle conseguenze complessive che tali investimenti implicano per il futuro digitale del Paese.
L’impatto economico e organizzativo del nostro sistema, esemplare per molti aspetti ma non sufficientemente valutato sul piano operativo anche, se non soprattutto, in relazione alla distribuzione di pesi e responsabilità generali e specifiche, nazionali e interne alle singole organizzazioni, merita una riflessione approfondita in primo luogo da parte degli interlocutori istituzionali e nelle sedi opportune. E’ compito dei commentatori o di chi opera con attività di studio, ma anche di supporto tecnico ai soggetti pubblici e privati necessariamente coinvolti in questa nuova sfida, sollevare qualche interrogativo e promuovere un dibattito che superi la cerchia degli addetti ai lavori su una questione destinata, inevitabilmente, a pesare non poco sulle prospettive dell’agenda digitale italiana. L’iniziativa di AgID di dar vita a un Forum della conservazione è senza dubbio meritorio, anche perché ha proprio l’obiettivo “di diffondere un’adeguata informativa sulla conservazione dei documenti informatici e di creare uno spazio di confronto sulle problematiche di attuazione dei sistemi di conservazione conformi alle disposizioni di legge e sui conseguenti aspetti tecnici” . Ed è in occasione del primo incontro allargato del Forum che le osservazioni che qui si presentano hanno visto la luce, sia pure nella forma di una sintetica presentazione. D’altra parte il Forum deve garantire un equilibrio di spazi e di interessi che non sempre, anzi difficilmente, consentono l’apertura di un dialogo approfondito.
Perché questo accada, è infatti necessario non trascurare lo studio di esperienze diverse, dedicare tempo all’analisi e individuare forme adeguate di condivisione, vuoi attraverso la formazione avanzata, vuoi con la creazione di una rete aperta e neutrale di istituti, imprese e professionisti come quella che ha appena finanziato la Regione Lazio sostenendo per i prossimi due anni il progetto di ricerca ReCap della Sapienza (Rete per la conservazione e l’accesso ai patrimoni digitali). Un buon punto di partenza è, in ogni caso, la valutazione di quanto avviene in tema di conservazione digitale a livello internazionale e, in particolare, europeo e che si intende altrove con questo termine, nella consapevolezza, da un lato che la tradizione italiana e l’impianto normativo sulla gestione documentale, che il nostro legislatore ha curato con grande attenzione e qualità, da quasi vent’anni costituiscono una base metodologica e un quadro concettuale solidi che mancano agli altri Paesi, dall’altro che la nostra tendenza ad affrontare ogni criticità con la produzione di regole rischia talvolta di oscurare i problemi reali invece di affrontarli pragmaticamente, soprattutto quando è in gioco la gestione equilibrata e sostenibile di pesi e responsabilità nel difficile rapporto pubblico/privato e tenendo conto del fatto che non si è quasi mai in grado di ottenere il rispetto per quelle disposizioni a cui pur affidiamo compiti impegnativi.
Senza entrare in una complessa analisi che non può essere certo condensata in poche pagine, è bene sottolineare che alla base del modello nazionale sviluppato poi nelle regole tecniche sulla conservazione e in una serie di linee guida operative , che hanno segnato in quest’ultimo anno l’avvio del sistema di accreditamento delle aziende che operano in questo ambito, c’è un fraintendimento o meglio una insufficiente elaborazione (anche di natura teorica) del concetto stesso di conservazione, utilizzato per definire l’impianto normativo nazionale. Un limite che ha determinato già ora, in questa prima fase, non poche conseguenze sulle modalità organizzative con cui tale funzione viene prefigurata operativamente, ad esempio in relazione alle responsabilità e ai compiti dei diversi protagonisti istituzionali (AgID, Direzione generale degli archivi, Archivio centrale dello Stato, poli di conservazione regionali, ecc.). Nello specifico il legislatore, che originariamente – negli anni Novanta – aveva utilizzato il termine archiviazione (ottica, perché si riteneva erroneamente che i supporti ottici fossero in grado di assicurare meglio la persistenza delle memorie digitali) per affrontare il nodo del controllo di integrità e di autenticità dei documenti sin dalla fase attiva, si è presto convertito all’uso di una espressione tanto ambigua quanto apparentemente accattivante, quella di conservazione sostitutiva (poi con l’approvazione del Codice dell’amministrazione digitale solo conservazione).
La definizione presente nel glossario che accompagna (all. 1) le regole tecniche del 2013 è tautologica e auto-referenziale , quindi di scarso aiuto per fare chiarezza. E’ casomai la testimonianza delle contraddizioni e degli interessi confliggenti che si sono negli anni addensati intorno al problema: la conservazione – recita la voce – è “l’insieme delle attività finalizzate a definire ed attuare le politiche complessive del sistema di conservazione e a governarne la gestione in relazione al modello organizzativo adottato e descritto nel manuale di conservazione”. Non meno auto-referenziale è l’esplicitazione (più apparente che reale) del sistema di conservazione (“sistema di conservazione dei documenti informatici di cui all’articolo 44 del Codice”). L’articolo 44 [1] del CAD peraltro si limita a individuare alcuni requisiti del processo senza entrare mai nel merito delle sue finalità e del contesto di riferimento e, ancor meno, dei tempi di applicazione rispetto alla formazione e alla gestione dei documenti. In sostanza, la legislazione non si è in alcun modo posta il problema di rapportare la dimensione ‘tecnica’ della conservazione con la sua dimensione funzionale (che cosa, chi, quando e, soprattutto, perché) e, quindi, con la mappa delle responsabilità istituzionali e con le ragioni originarie e costitutive della stessa funzione conservativa. E’ rimasto tagliato fuori completamente – anche per le difficoltà di un’amministrazione archivistica in continua trasformazione e con scarsissime risorse – il legame fondamentale (al centro delle preoccupazioni e delle iniziative degli altri paesi) con il fine della conservazione a lungo termine, a fini storici e scientifici oltre che giuridici, ovvero con il compito riconosciuto dovunque agli organi che esercitano la tutela sui patrimoni culturali di tramandare nel medio e lungo termine il patrimonio documentario prodotto da una comunità nazionale. In sostanza, nella nostra normativa in materia di amministrazione digitale le cosiddette attività di consolidamento – ovvero di archiviazione immediata in ambiente sicuro e con obiettivi di protezione e garanzia di integrità dei singoli oggetti digitali e non necessariamente degli archivi – hanno finito per sostituirsi alla funzione organica e generale della conservazione a lungo termine affidata alle istituzioni di memoria (gli archivi di Stato per le amministrazioni centrali, gli archivi storici per gli enti pubblici di qualunque natura e anche per i privati sulla base di precise indicazioni del Codice dei beni culturali). Uno sforzo importante affinché il processo complessivo includesse i necessari metadati e la definizione chiara di responsabilità e policy è stato compiuto da AgID e da alcuni interlocutori istituzionali, tra cui ad esempio l’UNI che ha approvato formalmente nel 2010 d’intesa con la Direzione generale archivi una prima norma (UNI 11386:2010 : Supporto all’Interoperabilità nella Conservazione e nel Recupero degli Oggetti digitali [2]). Lo standard ha costituito un primo passo importante per assicurare la coerenza delle infrastrutture di conservazione in via di costituzione, ma mostra tutti i segni della sua immaturità rispetto all’obiettivo originario di assicurare accuratezza, completezza e sistematicità, non solo interoperabilità, delle informazioni di provenienza e contesto che devono accompagnare i singoli oggetti digitali da conservare e sarà, giustamente, oggetto di una prossima revisione. Resta poi l’ambiguità di fondo di cui si è detto e l’assenza di iniziative istituzionali strategiche, complice anche il ritardo con cui il MiBACT sta affrontando il compito cruciale di dar vita a depositi per la conservazione degli archivi digitali dello Stato (per la prima volta affermato con chiarezza dall’art. 6, comma 2 del dm 7 ottobre 2008 con cui si stabiliva che l’Archivio centrale dello Stato costituiva repository degli archivi digitali prodotti dagli organi centrali dello Stato).
Le conseguenze di questi limiti non sono facili da valutare in questa prima fase di applicazione della normativa generale sulla conservazione che sembrano affidare al mercato (in modo non esplicito, ma comunque in linea con altri simili processi in atto) il compito improprio di sciogliere nodi e trovare soluzioni in assenza di una visione strategica comune di natura squisitamente istituzionale.
La conservazione digitale nel contesto internazionale: un primo confronto
Confrontarsi con i modelli degli altri Paesi può dunque costituire un buon punto di partenza che, analizzando le differenze principali che contraddistinguono la via italiana al digitale rispetto alle diverse esperienze internazionali, consenta da un lato di riconoscere e condividere la qualità delle nostre scelte, dall’altro di valutare criticamente e correggere errori e/o insufficienze prima che il sistema si assesti definitivamente rendendo molto più difficile in seguito qualunque intervento correttivo. Nel momento stesso in cui il legislatore ci propone un quadro regolamentare ‘completo’ (di ottima qualità e fin troppo ricco di disposizioni dettagliate riferite al processo di consolidamento dei documenti digitali) e stabilisce l’obbligo non più rinviabile per le pubbliche amministrazioni di produrre e mantenere archivi correnti digitali, è infatti indispensabile avviare una riflessione generale sul tema fin qui sottovalutato della conservazione a lungo termine. Si rende anzi necessaria un’assunzione forte di responsabilità (potremmo definirla una pacifica chiamata alle armi) da parte di tutti coloro (produttori di archivi pubblici e privati, professionisti tecnici del settore, utenti ricercatori e cittadini comuni) che frequentano gli archivi, ne conoscono la complessità e la fragilità, ma anche la rilevanza sociale. E’ una responsabilità che coinvolge soprattutto le istituzioni che esercitano la tutela sui patrimoni documentari (la Direzione generale archivi in primo luogo e il Ministero per i beni, le attività culturali e il turismo di cui quella direzione è parte), ma anche le associazioni professionali come l’Associazione nazionale archivistica italiana il cui mandato istituzionale per statuto include anche la difesa dell’integrità e dell’autenticità delle fonti archivistiche come strumento di cittadinanza e di democrazia (e non solo come fonte per la ricerca storica).
Per queste ragioni quindi si discute qui un primo quadro comparativo (tra il modello italiano e quelli adottati in altri contesti nazionali) dei requisiti di qualità che dovrebbero presidiare un sistema coerente e sostenibile di conservazione digitale. E’ bene sottolineare che quello realizzato in Italia dal legislatore ha molti pregi (anche rispetto a quanto avviene in altri Paesi), ma presenta anche, come si è detto, alcune ombre che dovremmo trovare insieme il modo di superare. I pregi riguardano la completezza di una normativa sulla gestione dei documenti in grado di rispondere a tutte le raccomandazioni internazionali, se non addirittura a fornire indicazioni utili in ambito europeo (come è avvenuto con le linee guida MoReq – Model Requirements for Management of Electronic Records , per lo sviluppo di software per la gestione informatica dei documenti). Opacità e ombre caratterizzano soprattutto le inadempienze gravi nell’applicazione della normativa nei sistemi documentari pubblici in vigore dal 2004 e largamente disattesa non diversamente, peraltro, da quanto avviene in altri settori del nostro Paese. Riguardano tuttavia anche le ambiguità di cui si è detto e la sottovalutazione (che risale ai primi anni Novanta) del ruolo centrale delle competenze tecnico-archivistiche, anche se – a parziale giustificazione di questo limite – bisogna sottolineare che a lungo la formazione di figure professionali in questo ambito ha sofferto di una visione troppo tradizionale e poco orientata a quei processi di innovazione tecnologica che hanno trasformato radicalmente le forme della produzione documentaria.
Non si entrerà qui nel merito né della gestione dei documenti né della formazione dei profili professionali, anche se è opportuno chiarire (se mai qualcuno fosse in dubbio) che la conservazione è possibile e sostenibile a condizione che gli archivi correnti si formino e si gestiscano correttamente e con coerenza e si affidino a personale tecnico adeguatamente preparato al compito . Conservare documenti non classificati, non organizzati e per i quali non si prevede con chiarezza la durata nel tempo vuol dire condannare il Paese in generale e le organizzazioni pubbliche e private nello specifico a una memoria quantitativamente enorme, ingestibile, disordinata e, quindi, sostanzialmente inutile. Il nodo concettuale quindi da cui non si deve e non si può prescindere perché l’intero sistema che è stato messo in piedi dal legislatore italiano in questi vent’anni abbia senso è l’unitarietà dell’archivio (pur gestito in fasi diverse, ma sempre affidate a competenze archivistiche), un requisito cruciale, da riaffermare in tutti i contesti (politici, tecnici, organizzativi e soprattutto tecnologici), tanto più se la dimensione dei documenti è digitale e quindi pericolosamente a rischio di frammentazione e dispersione. La polverizzazione è oggi (anche se il legislatore non sembra essersene reso conto con sufficiente attenzione) il problema più grande della conservazione: polverizzazione dei documenti prodotti in applicativi verticali privi di connessioni reciproche, polverizzazione delle responsabilità e, quindi, del controllo sui processi decisionali e sui flussi informativi; polverizzazione delle competenze e, soprattutto, perdita delle relazioni organiche che legano i documenti e li connettono ai flussi di lavoro e ai futuri processi di conservazione. Sono quindi cruciali interventi qualificati di integrazione e coordinamento da affidare necessariamente a profili professionali attestati in ambito archivistico con un ruolo di guida, perché oltre alle conoscenze specifiche, anche di tipo informatico (di livello ben più alto di quelle oggi insegnate in molti corsi di laurea e nelle stesse Scuole d’archivio) servono una esperienza diretta, concreta e consolidata dell’unitarietà della produzione documentaria e la piena consapevolezza che senza interventi complessivi e rigorosi la memoria documentaria di un Paese è destinata a perdersi definitivamente nella liquidità digitale in cui, progressivamente e inesorabilmente, siamo immersi. Del resto, almeno sulla carta, il legislatore ha riconosciuto da tempo (e l’ha riconfermata recentemente in tutte le regole tecniche, ma anche nelle disposizioni dedicate negli ultimi anni alla certificazione/attestazioni delle professioni relative ai patrimoni culturali) questa esigenza prevedendo figure di questa natura alla guida del servizio per la gestione dei documenti e degli archivi nelle pubbliche amministrazioni. L’inadempienza grave nell’applicare questo principio (affermato già nel 2000 dal comma 2 dell’articolo 61 del dpr 445 in base al quale “al servizio è preposto un dirigente ovvero un funzionario, comunque in possesso di idonei requisiti professionali o di professionalità tecnico- archivistica acquisita a seguito di processi di formazione definiti secondo le procedure prescritte dalla disciplina vigente”) ha reso il sistema complessivo più debole e la qualità vantata dall’Italia in questo campo una dichiarazione priva di sostanza e di conferme. Si tratta peraltro di un limite che non riguarda solo questo ambito: l’incapacità di applicare norme pur progettate con qualità e/o di assicurarne l’aggiornamento al fine di renderle operative è un fattore non irrilevante di debolezza del nostro Paese sia per quanto riguarda la credibilità interna delle istituzioni sia nel confronto internazionale. Sui requisiti che devono guidare un sano sistema di tenuta e conservazione dei patrimoni documentari (unitarietà del sistema archivistico, ruolo guida da affidare alle competenze specialistiche di settore) tutto il mondo e tutti i modelli adottati concordano e in gran parte dei Paesi si tratta di principi riconosciuti o alla base delle iniziative di adeguamento in corso. La tabella che segue, inevitabilmente sintetica, propone un confronto sui principi generali che caratterizzano il sistema italiano e quello di altri paesi europei, nordamericani e australiani. Si limita a elencare i nodi e i requisiti cruciali che connotano (in positivo e in negativo) un buon sistema di conservazione anche se su molti aspetti sarà necessario tornare in futuro con specifici approfondimenti di merito. Emerge tuttavia con chiarezza che in altri Paesi si è operato sempre insieme alle istituzioni archivistiche nazionali e che tale collaborazione è stata ritenuta implicitamente una condizione imprescindibile.
[1] Articolo 44. Requisiti per la conservazione di documenti informatici
Il sistema di conservazione dei documenti informatici assicura: a) l’identificazione certa del soggetto che ha formato il documento e dell’amministrazione o dell’area organizzativa omogenea di riferimento di cui all’articolo 50, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445; b) l’integrità del documento; c) la leggibilità e l’agevole reperibilità dei documenti e delle informazioni identificative, inclusi i dati di registrazione e di classificazione originari; d) il rispetto delle misure di sicurezza previste dagli articoli da 31 a 36 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 , e dal disciplinare tecnico pubblicato in allegato B a tale decreto.
1-bis. Il sistema di conservazione dei documenti informatici è gestito da un responsabile che opera d’intesa con il responsabile del trattamento dei dati personali di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 , e, ove previsto, con il responsabile del servizio per la tenuta del protocollo informatico, della gestione dei flussi documentali e degli archivi di cui all’articolo 61 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445 , nella definizione e gestione delle attività di rispettiva competenza.
1-ter. Il responsabile della conservazione può chiedere la conservazione dei documenti informatici o la certificazione della conformità del relativo processo di conservazione a quanto stabilito dall’articolo 43 e dalle regole tecniche ivi previste, nonché dal comma 1 ad altri soggetti, pubblici o privati, che offrono idonee garanzie organizzative e tecnologiche.
[2] UNI 11386:2010 : Supporto all’Interoperabilità nella Conservazione e nel Recupero degli Oggetti digitali (SInCRO), http://store.uni.com/magento-1.4.0.1/index.php/uni….