Data revolution: la rivoluzione possibile. Ne parliamo con Enrico Giovannini
Quali sono i punti centrali per ridurre i rischi e cogliere le opportunità offerte dalla Data revolution? Quali dati si possono considerare strategici per il supporto alle decisioni pubbliche? Ne abbiamo parlato con Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro e Presidente Istat, attualmente alla guida dell’Independent Expert Advisory Group on the Data Revolution for Sustainable Development voluto dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Giovannini è stato uno degli ospiti del convegno "Data driven decision: aumentare la capacità decisionale grazie alla disponibilità e all’interpretazione dei dati", in programma a FORUM PA 2015.
7 Giugno 2015
Michela Stentella
Quali sono i punti centrali per ridurre i rischi e cogliere le opportunità offerte dalla Data revolution? Quali dati si possono considerare strategici per il supporto alle decisioni pubbliche? Ne abbiamo parlato con Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro e Presidente Istat, attualmente alla guida dell’Independent Expert Advisory Group on the Data Revolution for Sustainable Development voluto dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Giovannini è stato uno degli ospiti del convegno "Data driven decision: aumentare la capacità decisionale grazie alla disponibilità e all’interpretazione dei dati", in programma a FORUM PA 2015.
“La Data revolution è una rivoluzione in corso, che ci piaccia o meno. Il settore privato sta investendo moltissimo nello sviluppo, nello scambio e nell’uso di nuove forme di dati, pensiamo a internet, ma anche ai satelliti e ai sensori di cui le nostre città cominciano a essere piene. Il punto è che se il settore pubblico non fa nulla in termini di standard, di principi e di regole, questa rivoluzione rischia solo di aumentare le disuguaglianze”. A mettere in guardia dall’ennesimo treno che rischiamo di perdere è Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro e Presidente Istat, attualmente alla guida dell’Independent Expert Advisory Group on the Data Revolution for Sustainable Development voluto dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon.
A quali disuguaglianze fa riferimento?
Prima di tutto tra il settore privato che sta investendo sui dati, e il settore pubblico che in molti paesi taglia, ad esempio, i fondi sulle statistiche; poi tra i paesi ricchi e i paesi poveri e, alla fine, tra i cittadini, tra chi è in grado di sfruttare questi dati per migliorare le proprie decisioni e chi invece è tagliato fuori da tutto questo processo. Nel Rapporto che come Advisory Group abbiamo presentato a novembre scorso, intitolato “A world that counts, Un mondo che conta”, abbiamo inserito delle proposte concrete per cercare di affrontare questi pericoli e rendere più equo l’accesso alla Data Revolution. Ora l’ONU sta cercando di tradurre in pratica queste raccomandazioni, in vista della scelta degli indicatori di sviluppo sostenibile che è prevista per marzo 2016.
Quali sono quindi i punti centrali per ridurre i rischi e cogliere le opportunità offerte dalla Data revolution?
Un punto cruciale è che dobbiamo considerare i dati come un asset, aziendale o sociale, che come tale può essere scambiato sul mercato. La domanda è dove si fa tutto questo. Per le abitazioni, ad esempio, abbiamo un mercato regolamentato. Ma per i dati? Cosa accade se una multinazionale prende i dati in un Paese, come l’Italia, che ha determinate tutele della privacy e li trasferisce in un altro Paese che non li ha? Stiamo attendendo a questo punto la proposta della Commissione europea sul Digital Single Market, il mercato unico digitale europeo, che verrà pubblicata a maggio e dovrebbe affrontare queste questioni.
Quali dati si possono considerare strategici per il supporto alle decisioni pubbliche?
Non c’è un settore più strategico di un altro. Certamente la PA detiene tantissimi dati che non vengono ancora resi accessibili e che potrebbero, per esempio, aiutare le scelte di governo, ma anche lo sviluppo di nuove attività economiche. E mentre le imprese prendono ormai decisioni quasi in tempo reale, quindi il ciclo di produzione dei dati si è allineato al ciclo delle decisioni, nel settore pubblico siamo ancora fermi alle decisioni annuali. L’Italia poi molto raramente valuta ex ante l’impatto delle leggi che sta per approvare, mentre in Australia o in Inghilterra, per esempio, non si può approvare una legge prima di averne valutato attentamente l’impatto usando dati e modelli.
Visti questi limiti, la rivoluzione dei dati può essere alla portata della PA italiana?
Certamente sì. La nostra protezione civile per esempio ha un sistema molto sviluppato di informazione in tempo reale e anche nel mondo delle smart cities ci sono dei casi di uso avanzato dei dati. Il problema, però, è il metodo complessivo con cui il Paese affronta questi temi. Da un lato serve una continuità nelle scelte politiche, dall’altro un’opera decisa di sensibilizzazione della PA sui benefici che possono venire dall’apertura dei dati. Servono inoltre regole per obbligare, in nome del bene pubblico, anche alcuni settori dell’industria e del terziario a condividere alcune informazioni. Quello che manca, infine, è un investimento massiccio in formazione, nelle scuole, ma anche al di fuori, per creare quel capitale umano senza il quale possiamo avere tutti i computer e i software del mondo, ma non faremo mai il salto di qualità.
Questa intervista è stata pubblicata sul numero del Corriere delle Comunicazioni uscito l’8 maggio 2015