Conservazione digitale: ecco il modello definito nelle Linee guida AgID, novità e nodi critici

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Un focus dettagliato che analizza il modello di conservazione digitale definito dalle Linee guida AgID, entrate ufficialmente in vigore nel gennaio scorso, e il documento sull’itituzione dei Poli archivistici di conservazione, approvato e pubblicato nel corso del 2021, che riconosce le criticità ancora presenti sul tema della conservazione permanente

16 Febbraio 2022

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Mariella Guercio

Anai - Associazione nazionale archivistica italiana, Docente di gestione documentale - Università La Sapienza di Roma

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La conservazione digitale dei documenti presenta nel modello italiano delle caratteristiche peculiari definite dalle Linee guida AgID sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici entrate ufficialmente in vigore nel gennaio scorso. Ecco una riflessione su questo modello, sulle principali novità introdotte dalle Linee guida e sulla recente proposta relativa ai Poli archivistici, che riconosce le criticità ancora presenti sul tema della conservazione permanente.

Il modello di riferimento della normativa nazionale

La normativa tecnica destinata a governare la conservazione di documenti informatici è stata oggetto di numerosi interventi nel corso degli ultimi decenni. In realtà, in una prima fase, i provvedimenti si sono concentrati su un aspetto collaterale, quello relativo all’archiviazione cosiddetta sostitutiva, cioè alla riproduzione digitale di documenti analogici, che di fatto accresceva i nodi della conservazione digitale più che risolverli. È solo con il Codice dell’amministrazione digitale approvato con D.Lgs 82/2005 che le attività necessarie alla tenuta nel tempo dei documenti informatici trova una prima, a mio avviso, incompleta definizione.

Non si intende qui ripercorrere quella complessa vicenda e analizzare le numerose versioni del dettato normativo che hanno condotto all’attuale modello definito nel correttivo del CAD approvato nel 2020 e descritto nelle Linee guida AgID dello stesso anno. Il contributo ha, invece, la finalità di identificare in sintesi le caratteristiche e i requisiti distintivi del modello in questione come oggi è stabilito dalla norma, identificando inoltre (nell’ultima parte) le ragioni che hanno condotto AgID e un rilevante nucleo di conservatori pubblici ed esperti di settore a elaborare e condividere un documento dedicato alla creazione futura di una nuova possibile articolazione dei servizi al fine di assicurare la conservazione permanente degli archivi digitali destinati alla ricerca storica e scientifica.

Si tratta di questioni che sono state in questi ultimi anni affrontate soprattutto per gli archivi della pubblica amministrazione, anche se riguardano qualunque tipologia di ente produttore di documenti che abbia l’ambizione di garantire la necessaria protezione alle proprie fonti ed eventualmente consentirne, sia pure parzialmente, la consultazione futura a fini culturali. È, tuttavia, evidente che il settore pubblico è soggetto a obblighi molto più stringenti anche in considerazione del fatto che tutti i suoi documenti e archivi sono protetti e tutelati dal Codice dei beni culturali in attuazione dell’articolo 9 della carta costituzionale. La tutela riguarda in questo caso anche la documentazione corrente e, quindi, gli interventi di trasformazione digitale – oltre che di selezione e scarto –, su cui vigilano le strutture del Ministero della cultura. In particolare, la funzione di tutela riguarda tutte le attività finalizzate ad assicurare o a minacciare la persistenza dei patrimoni documentari di natura pubblica e implica il rispetto dei principi e dei metodi che garantiscono la conservazione nel tempo degli archivi (documenti e, soprattutto, aggregazioni).

All’interno di questo quadro normativo, il modello italiano, definito nelle Linee guida, è stato influenzato, oltre che dal peso che la produzione documentaria ha nel nostro ordinamento, anche dall’azione di salvaguardia esercitata sin dai primi anni Novanta dall’amministrazione archivistica in questo campo, sebbene la prolungata fase di debolezza organizzativa del Ministero dei beni culturali (oggi della cultura) e delle sue istituzioni ne abbia ridimensionato l’azione. Non vi è dubbio, tuttavia, che è merito di questa presenza nei gruppi di lavoro, che negli anni hanno elaborato le disposizioni in materia di archiviazione e conservazione digitale, se oggi la legislazione del nostro Paese è su questo fronte una delle più avanzate, sia per la sostanziale coerenza dei principi individuati sia per il rispetto degli standard internazionali più significativi e utili. Penso, in particolare, alle norme ISO 14721 Open Archival Information Model (OAIS), che approva il modello generale per la conservazione di qualunque risorsa digitale e ISO 16363 che definisce, in rapporto al medesimo modello, le indicazioni dettagliate per la valutazione e l’eventuale certificazione dei sistemi di conservazione grazie alla presenza di un sistema dettagliato di misure organizzative e tecniche. Pur riconoscendo che il rispetto delle condizioni di sicurezza dei depositi è un requisito fondamentale per la tutela conservativa dei patrimoni digitali, la normativa italiana di settore è riuscita a superare la logica meramente protettiva (pur ancora prevalente) e ad adottare una strategia conforme a quanto raccomandato dalle migliori raccomandazioni internazionali, solo recentemente prese in considerazione a livello europeo[1].

Conservazione digitale: i nodi da sciogliere

Tuttavia, non tutti i principi alla base degli standard citati sono stati esplicitamente considerati dalle norme in questione. Per esempio non troviamo, neanche nelle ultime Linee guida, alcun riferimento al ruolo centrale che l’OAIS riconosce all’obbligo di individuare con chiarezza le comunità di riferimento (designated community) alle quali il servizio conservativo è rivolto e destinato (uno o più gruppi ben individuati e descritti di potenziali utenti in grado di comprendere le informazioni e i contenuti informativi del deposito). Tale definizione ha un rilievo applicativo fondamentale poiché consente di dettagliare gli obiettivi specifici del sistema conservativo e valutare l’impatto che gli interventi (o le omissioni) determinano sulla capacità di fruire della documentazione conservata.

Un secondo nodo trascurato, anche se implicito nelle scelte di base del disegno normativo, riguarda il riconoscimento, ben presente e attestato invece negli standard e nelle buone pratiche internazionali, del fatto che la conservazione digitale non sia riducibile a una somma di metadati che si aggiungono automaticamente a un contenuto/documento da conservare immodificato nel corso delle attività di trattamento. Il termine metadato non è, per esempio e volutamente, presente nella norma OAIS per la sua genericità, mentre sono ritenute cruciali per la creazione di digital repository di qualità gli strumenti di organizzazione e le policy, tanto da aver indotto il gruppo di lavoro che ha elaborato lo standard a integrarlo con raccomandazioni specifiche raccolte nella citata norma ISO 16363.

Queste indicazioni hanno comunque fortunatamente, anche se parzialmente, influenzato la regolamentazione italiana. Si è adottato, per esempio, il principio per cui le informazioni descrittive dei contenuti da conservare devono essere identificate in connessione con le procedure e le attività di gestione attraverso la loro strutturazione in pacchetti informativi da confezionare sia in fase di versamento che nelle successive attività di archiviazione e distribuzione. Non si è invece tenuto conto del fatto che la formazione dei cosiddetti pacchetti, in particolare di quello di versamento nel sistema conservativo, deve essere pianificata considerando con attenzione la fase in cui tale trasferimento ha luogo: se l’invio coincide con la formazione/registrazione del documento, non è, infatti, possibile includere (e ancor meno stabilirne l’obbligatorietà precoce) informazioni che potranno essere acquisite solo nel corso delle successive attività di trattamento, come invece sembra ipotizzare l’allegato 5 delle Linee guida quando propone un impegnativo elenco di metadati obbligatori che non sono disponibili se non a conclusione dell’intero processo decisionale. È inevitabile che quei dati siano destinati a mancare e che quegli obblighi rischino di essere ignorati (determinando una disaffezione generale negli enti cui sono rivolti), soprattutto in considerazione delle limitate funzioni delle piattaforme conservative in uso.

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6 Settembre 2024

Conservazione digitale: le caratteristiche peculiari del modello italiano nelle Linee guida AgID

Il capitolo 4 delle Linee guida delinea correttamente la funzione conservativa in correlazione con la gestione documentale, coerentemente con il dettato del Codice dell’amministrazione digitale, in particolare ai sensi dell’articolo 44 riscritto in questi termini dal correttivo del Cad approvato con il D.Lgs 179/2016. Tale correlazione è tuttavia considerata soprattutto in termini di protezione precoce e messa in sicurezza dei documenti informatici sin dalla fase di formazione, anche se non è esclusa la finalità di sostenere le esigenze conservative di breve e medio termine. Rimane invece sostanzialmente estranea alla norma l’attenzione specifica per la conservazione permanente degli archivi destinati alla ricerca storica e scientifica. Si definiscono, infatti, le regole per il trasferimento dei documenti nel sistema di conservazione sin dall’archivio corrente, ma solo marginalmente si riconosce la possibilità che il versamento possa avvenire anche attraverso l’archivio di deposito, cioè nella fase in cui le pratiche si sono concluse e i fascicoli sono completi di tutte le informazioni sedimentate (come invece sarebbe auspicabile per la gran parte della produzione documentaria). È questo un nodo ancora aperto che si analizzerà più avanti e che soprattutto richiede l’impegno delle istituzioni archivistiche nazionali.

Le principali indicazioni oggi presenti nelle Linee guida riguardano aspetti comunque rilevanti anche ai fini delle esigenze conservative di lungo periodo e permanenti:

  • le responsabilità e i ruoli del processo,
  • l’obbligo di formare pacchetti informativi interoperabili, in grado quindi di essere trasferiti da un conservatore all’altro in caso di cessazione e trasferimento del servizio,
  • le modalità di esibizione, anche se non esplicitamente di fruizione e consultazione,
  • le autorizzazioni da richiedere all’amministrazione archivistica per le operazioni di selezione e scarto.

Nella sostanza la responsabilità di dettare le disposizioni sulla conservazione permanente degli archivi a fini storici rimane completamente in capo al Ministero della cultura che dovrà quindi, non solo elaborare indicazioni specifiche, ma anche vigilare sia sui sistemi di conservazione digitale affidati all’esterno degli enti in outsourcing, sia sulle attività conservative gestite in house, fermo restando che la responsabilità legale è sempre dell’amministrazione che ha prodotto e detiene l’archivio digitale.

Tra le novità importanti delle nuove Linee guida merita ricordare – con riferimento a quanto stabilito, con una formulazione incerta, dal citato articolo 44 del CAD – l’esplicito riconoscimento (sezione 4.1) che il trasferimento nel sistema di conservazione non sia affatto un obbligo generico, ma sia deciso dagli enti stessi sulla base delle loro esigenze, “con particolare attenzione per i rischi di obsolescenza tecnologica”. Nel testo si afferma inoltre, sia pure genericamente, che il trasferimento nel sistema conservativo possa riguardare alternativamente singoli documenti, aggregazioni (fascicoli o serie) o interi archivi. La sezione 4 dedicata alla conservazione non approfondisce molto i processi tecnici, soprattutto quelli archivistici, limitandosi nella sostanza a riprendere, con alcune precisazioni, il dettato delle precedenti – ora abrogate – regole tecniche approvate con D.M. 3 dicembre 2013 e rinviando le indicazioni sui formati, sugli standard e sui metadati agli allegati, che tuttavia non hanno una finalità univocamente conservativa e richiedono un impegnativo lavoro di analisi e valutazione.

Le Linee guida hanno soprattutto l’obiettivo di ridefinire o chiarire alcuni degli aspetti più critici del modello in uso in vigore dal 2013. In particolare si precisa (e in buona parte si conferma) che:

  • i servizi di conservazione devono essere distinti “almeno logicamente” dalla gestione documentale;
  • i pacchetti di versamento sono affidati alla cura del responsabile della gestione documentale, mentre i pacchetti di archiviazione e di distribuzione rientrano nelle competenze del responsabile della conservazione;
  • l’interoperabilità è assicurata dall’applicazione di specifiche tecniche conformi alla norma Uni 11386 – SInCRO – Supporto all’interoperabilità nella conservazione e nel recupero degli oggetti digitali, che ha visto la luce nel 2010 ed è stata aggiornata nel corso del 2020, sulla base delle esperienze realizzate dai fornitori di servizi di conservazione italiani;
  • è obbligatorio (4.4) che il responsabile dei pacchetti di versamento sia persona interna alla struttura organizzativa e che tale compito sia affidato, come si è già ricordato, al responsabile della gestione documentale;
  • il responsabile della conservazione (4.5), cui sono attribuiti compiti molto impegnativi minuziosamente descritti, è anch’esso riconducibile a un ruolo previsto nell’organigramma dell’ente “titolare dell’oggetto di conservazione” e dotato delle stesse competenze giuridiche, informatiche e archivistiche previste per il responsabile della gestione documentale.

In materia di responsabilità, si ribadisce quanto già stabilito in precedenza, cioè la possibilità di affidare alla stessa persona che governa la gestione documentale anche la funzione, articolata nelle seguenti attività:

  • definizione delle politiche e dei requisiti funzionali del sistema di conservazione in conformità con la normativa vigente, con gli standard internazionali e in ragione della specificità degli oggetti da conservare (inclusa la loro natura archivistica);
  • il monitoraggio della corretta funzionalità del sistema;
  • l’adozione di misure adeguate con riguardo alla obsolescenza dei formati;
  • la predisposizione delle misure necessarie per la sicurezza fisica e logica del sistema;
  • l’obbligo di assicurare la presenza di un pubblico ufficiale nei casi previsti dalla normativa;
  • per le amministrazioni statali centrali e periferiche, il versamento dei documenti, delle aggregazioni e degli archivi e degli strumenti di consultazione negli istituti archivistici competenti;
  • la predisposizione e la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del manuale di conservazione, lo strumento informatico – già previsto nel 2013 – che ha il fine di illustrare dettagliatamente l’organizzazione, i soggetti coinvolti e i ruoli svolti, il modello di funzionamento, la descrizione del processo, delle architetture e delle infrastrutture utilizzate dal sistema di conservazione, nonché le misure di sicurezza adottate (linee guida 4.6).

Una delle principali novità riguarda proprio le precisazioni sulla stesura del manuale di conservazione e sui suoi contenuti nel caso di affidamento a terzi del processo di conservazione. Tali precisazioni sono dettate dall’esigenza di assicurare che le policy e le direttive del soggetto versante siano compatibili, per gli aspetti più tecnici, con le soluzioni applicative del conservatore esterno. Su tale aspetto le linee guida, tuttavia finiscono di fatto per privilegiare le scelte di quest’ultimo, in primo luogo consentendo agli enti la delega di tale specifico compito, generalmente affidato al responsabile interno della conservazione (come indicato al punto 4.5, lettera m); in secondo luogo, lasciando alle amministrazioni che esternalizzano il servizio la possibilità di non descrivere nel proprio manuale di conservazione il processo gestito da terzi, pur trattandosi dell’attività principale qualificante il processo conservativo. Le garanzie di trasparenza sono comunque mantenute, almeno in ambito pubblico, grazie all’obbligo, in carico alla pubblica amministrazione, di individuare e rendere pubblici i tempi di versamento, le tipologie documentali trattate, i metadati, le forme di trasmissione dei pacchetti di versamento e le tempistiche di selezione.

La principale novità rispetto alle precedenti Regole tecniche riguarda l’abolizione del principio dell’accreditamento dei conservatori e della conseguente certificazione dei loro sistemi decisa dal legislatore italiano a seguito delle osservazioni che gli organismi europei hanno mosso al Codice dell’amministrazione digitale, notificando all’Italia (Notification 2019/0540/I) un perentorio invito a rimuovere le cause di non conformità del regime di accreditamento e di vigilanza previsto per i servizi di conservazione. La Commissione ha, in particolare. richiamato l’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2018/1807 che vieta agli Stati di stabilire obblighi di localizzazione, a meno che non siano giustificati da motivi di sicurezza pubblica nel rispetto del principio di proporzionalità ai sensi del diritto dell’Unione e l’articolo 3, paragrafo 4, della Direttiva 2000/31/UE che conferma quel divieto specificandone ulteriormente le ragioni[2].

Non sono mancate le critiche a questa decisione, peraltro inevitabile a fronte di un intervento tassativo della Commissione. In realtà, sebbene il processo di accreditamento abbia offerto strumenti di qualità e di controllo, il modello precedente applicato dal 2013 al 2021 non aveva risolto i problemi più significativi della conservazione digitale.

Di fatto, le disposizioni regolamentari e le deliberazioni AgID sui requisiti di qualità e sicurezza dei sistemi di conservazione digitale presentavano due ordini di problemi tutt’altro che irrilevanti:

  • riducendo il processo conservativo quasi esclusivamente alla messa in sicurezza dei sistemi e alla protezione dei contenuti informatici, soprattutto di quelli garantiti da una firma elettronica qualificata, si era finito per semplificare un problema complesso inducendo i principali attori, tra cui il mercato, a trascurare la completezza dei servizi offerti;
  • si era ritenuto che i sistemi di conservazione fossero in grado di gestire, in alternativa ai sistemi di gestione documentale e senza alcuna seria progettazione specifica, oltre all’immediata messa in sicurezza dei documenti informatici, anche la loro sedimentazione di lungo periodo che invece non può essere gestita senza la realizzazione di soluzioni applicative in grado di affrontare e trattare la fase intermedia dei contenuti digitali non più necessari all’attività corrente degli enti.

Il risultato complessivo di questo insufficiente apparato di norme e di applicazioni ha determinato un esito diverso da quanto originariamente ipotizzato dal legislatore: le amministrazioni e i privati si sono serviti dei sistemi di conservazione digitale proposti in modo marginale e per pochi documenti di particolare rilevanza o nei pochi casi obbligatori (per le fatture e per i registri di protocollo). Nessuna piattaforma (di gestione documentale o di conservazione) ha finora previsto fasi attive e condivise di effettivo trasferimento dall’archivio corrente al sistema di conservazione. Gli enti hanno anzi continuato a mantenere tutti i documenti informatici, inclusi quelli inviati in conservazione, anche nel loro sistema attivo di gestione documentale, duplicandoli completamente. Le conseguenze si sono fatte sentire anche sul piano operativo, dato che:

  • molti sistemi di gestione documentale non sono ormai più in grado di rispondere con efficienza alle crescenti esigenze operative correnti;
  • la conservazione a lungo termine e permanente non è ancora definita né praticata;
  • il sistema di conservazione ha di fatto sostituito nell’immaginario collettivo di larga parte degli stakeholder la funzione di archivio di deposito senza garantirne i servizi;
  • il nostro modello conservativo ha finito per deresponsabilizzare gli enti, che hanno nella sostanza delegato compiti e responsabilità specifiche ai conservatori accreditati, ritenendo di aver risolto un problema che, invece, non era neanche delineato con chiarezza, come dimostrano quasi tutti i manuali di conservazione disponibili, generici e prodotti con il copia incolla e la completa assenza di controlli sulla qualità dei servizi acquistati o diversamente acquisiti.

Per questa ragione, sebbene il processo di accreditamento – come si è detto e se ben articolato – fornisca strumenti fondamentali di verifica della qualità in un settore innovativo come quello della conservazione digitale, l’intervento della Commissione non deve essere necessariamente letto in termini negativi.

La domanda di fondo, cui il modello italiano precedente non dava risposte adeguate, riguarda in particolare la capacità di rendere le risorse conservabili, fruibili e comprensibili nel corso del tempo, soprattutto nel momento in cui non sono più attivi gli applicativi al cui interno i documenti e le relative aggregazioni sono stati generati. È il caso, per esempio, dei documenti creati e trattati nel sistema di gestione documentale da parte di una specifica struttura organizzativa e successivamente versati a fini conservativi senza che siano incluse – perché la norma non lo richiede – le informazioni sulle responsabilità amministrative originarie che sono ben note a qualunque fruitore dell’archivio corrente, ma del tutto sconosciute a chi acceda a distanza di tempo a quei materiali fuori dal contesto operativo. In questo caso, peraltro comune a tutti gli archivi della pubblica amministrazione, non basta la presenza tra i metadati obbligatori del nome dell’area organizzativa di riferimento o del registro utilizzato a fini identificativi, ma è necessario assicurare almeno la storicizzazione delle informazioni che individuano e descrivono gli organigrammi dell’ente e le loro frequenti modifiche. La fruizione e l’utilizzo consapevole del patrimonio documentario (qualunque sia la sua forma) richiede, infatti, un lavoro di analisi e mediazione svolto da personale tecnico archivistico in grado di elaborare strumenti di descrizione adeguati ai contesti e alle diverse fasi di gestione.

Le conseguenze più critiche, a questo proposito, riguardavano soprattutto la conservazione permanente, quella che non può essere risolta esclusivamente sul piano della protezione di sicurezza, perché si confronta con i fenomeni di obsolescenza di lungo periodo e include necessariamente servizi di trasformazione dei contenuti anche digitali a cura del deposito. A questo ha cercato di rispondere con una prima riflessione il gruppo di lavoro coordinato da AgID negli anni 2018-2021 con il supporto dell’Archivio centrale dello Stato, del Consiglio nazionale del Notariato, di Anai, della Direzione generale degli archivi e dei principali conservatori pubblici, aprendo la strada a una funzione conservativa più inclusiva e completa della fase attuale.

Il documento sui Poli archivistici: un primo riconoscimento delle criticità della conservazione permanente

Rispondendo agli obiettivi stabiliti dal Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione 2017-2019 e del Piano 2019-2021, il progetto dedicato ai Poli archivistici di conservazione ha progressivamente ampliato le finalità del lavoro includendo la necessità di:

  • formulare un quadro coordinato della normativa di settore inclusa quella di natura archivistica (cap. 3);
  • identificare le caratteristiche e i requisiti distintivi della conservazione a breve/medio termine rispetto alle esigenza della conservazione permanente;
  • sperimentare e valutare i livelli di interoperabilità tra le piattaforme di conservazione digitale, ritenuti elementi critici per la funzione conservativa;
  • descrivere sulla base di una scheda comune i servizi di conservazione offerti dagli enti che hanno partecipato al gruppo di lavoro.

In particolare, il documento sui Poli di conservazione, approvato e pubblicato nel corso del 2021, riconosce che:

  • gli inevitabili fenomeni di obsolescenza tecnologica al centro delle giuste preoccupazioni del legislatore non consentono di basare il modello conservativo sul controllo indefinito del flusso di bit originario;
  • è necessario dare rilevanza al ruolo dei poli di conservazione riprogettando le funzioni in termini di qualità organizzativa, di infrastrutture, di personale competente, di procedure e regolamentazione;
  • le criticità riguardano soprattutto la perdita di conoscenza sia dei processi originari di produzione dei documenti e delle loro aggregazioni, sia delle forme concrete di ordinamento e sedimentazione degli archivi stessi, delle relazioni significative e persistenti che ne hanno determinato la struttura e la forma originaria.

Si affermano, inoltre, alcuni principi e requisiti funzionali che, già grazie a questa prima formulazione e alla crescente consapevolezza dei limiti dell’attuale assetto dei servizi, potranno sostenere sviluppi metodologici e applicativi rilevanti per la conservazione permanente ma anche per la qualità della memoria breve. Si stabilisce, per esempio, che la conservazione debba essere incentrata non sui singoli documenti digitali ma sulle loro aggregazioni e sulle relazioni stabili che le definiscono in modo stabile (fascicoli e serie digitali). Si riconosce la necessità di rendere disponibili informazioni accurate e sufficienti a ricostruire (in modo auto-consistente) l’originario sistema di produzione documentaria (incluse le informazioni sugli organigrammi, sui criteri e sui metodi di profilazione degli utenti e le indicazioni organizzative e operative presenti nei manuali di gestione), descrivendo i criteri di ordinamento degli archivi e le regole di organizzazione interne agli enti. Si precisa che la responsabilità dei processi conservativi debba essere esercitata, nel caso degli archivi pubblici, da istituzioni che, compatibilmente con i principi del nostro ordinamento giuridico e con il modello attuale di tutela archivistica, possano gestire interventi di custodia attiva tale da implicare, se necessario, anche modifiche ai bit originari.

È in proposito opportuno ricordare che si tratta di azioni inevitabili nel lungo periodo e destinate ad avere un impatto rilevante sui contenuti digitali conservati, poiché trasformano di fatto e inevitabilmente la conservazione di documenti originali in conservazione di copie autentiche dei documenti e delle loro componenti, la cui conformità all’originale dovrà essere sempre debitamente attestata attraverso la presenza di pubblici ufficiali o funzionari delegati. Anche per questa ragione, è necessario stabilire con chiarezza e piena consapevolezza i limiti e le garanzie per l’esercizio di questa funzione. Il documento, del resto, conferma la specificità degli obblighi della conservazione permanente in quanto proiezione in ambito digitale di quanto previsto dal Codice dei beni culturali, in particolare dall’art. 30 comma 4, in relazione ai compiti e agli obblighi affidati allo Stato, alle regioni e agli enti locali, nonché a ogni altro ente e istituto pubblico, di conservare nella loro organicità i propri archivi storici digitali (per ora privi di una specifica e dettagliata regolamentazione tecnica).

Un sistema per la conservazione permanente così configurato presenta, naturalmente, criticità applicative che superano gli obiettivi del documento in questione e che dovranno essere considerate attentamente al fine di gestire a costi sostenibili e con garanzie di verifica dell’autenticità e di adeguata fruizione le attività complesse di cui si compone la funzione conservativa di lungo periodo, tra cui:

  • migrazioni tra formati,
  • interoperabilità tra sistemi anche a distanza di decenni,
  • acquisizione di documentazione di supporto riferita non solo alle fasi di formazione dell’archivio digitale (oltre che dei documenti), ma anche alle successive fasi di custodia,
  • interventi successivi, ben documentati, di selezione e scarto,
  • elaborazione di strumenti di ricerca che permettano la consultazione anche a utenti privi delle conoscenze e dei mezzi normalmente disponibili nei sistemi originari di gestione documentale e che tengano conto anche delle modifiche a lungo termine della stessa comunità di riferimento degli utenti per quanto riguarda la base di conoscenze implicite possedute.

Le questioni ora elencate sono tutte cruciali per una conservazione consapevole e funzionale ai bisogni di memoria dei singoli enti, dei cittadini e del Paese. Le risposte disponibili sono, tuttavia, ancora parziali. Il loro approfondimento implica il riconoscimento di alcuni presupposti, di cui si è già dato conto non solo in questo contributo ma anche in quelli che precedono. I principi che non possono essere trascurati e che, pur riconosciuti nel nostro ordinamento, non hanno ancora trovato risposte organizzative e applicative soddisfacenti riguardano in particolare i seguenti aspetti:

  • l’unitarietà dell’archivio è una condizione di qualità per l’intero sistema documentale, garantita da una gestione operativa in fasi e con strumenti coerenti ai diversi obiettivi perseguiti;
  • l’ipotesi che ha guidato l’attuale formulazione di un sistema di conservazione precoce e unico garantisce in linea di principio tale unitarietà ma non l’efficacia della sua gestione;
  • il modello attuale non è in per ora grado di affrontare compiutamente e con efficienza la natura complessa e dinamica della produzione documentale digitale e soprattutto ibrida:
  • il rischio della frammentazione è ancora molto elevato, considerata la quantità dei canali di trasmissione e produzione dei documenti e la presenza di applicativi specifici, i cosiddetti ‘verticali’, che non sono quasi mai intercettati dal sistema di gestione documentale e ancor meno dal sistema di conservazione;
  • la progettazione di servizi intermedi, quali quelli previsti nel mondo analogico dagli archivi di deposito, sarebbe in grado di offrire un interfacciamento trasversale e inclusivo, ma richiede una progettazione specifica.

L’inadeguatezza delle piattaforme di conservazione esistenti è evidente rispetto alla loro incapacità congenita di fornire risposte ai problemi qui elencati, incluso il requisito di partenza di una interfaccia aperta e dinamica per gestire i versamenti, consentendo per esempio di affiancare la sedimentazione dei documenti e delle loro aggregazioni con la documentazione indispensabile alla fruizione futura dell’archivio e non solo a fini di esibizione a fini probatori di documenti informatici. Le piattaforme di conservazione non tengono, infatti, conto a sufficienza del fatto che i documenti nascono e fanno parte di un sistema d’archivio in un ambiente in continua trasformazione che non solo non può essere ignorata, ma deve essere tracciata e resa disponibile in fase di consultazione. La responsabilità tuttavia non è dei fornitori che offrono quel che la normativa detta e di cui il mercato si accontenta: è delle amministrazioni largamente inconsapevoli e prive di strumenti e competenze, nonostante obblighi precisi e consolidati ed è soprattutto dei vertici politici che hanno l’obbligo di assicurare i mezzi necessari (sanzioni, qualità del personale) a chi vigila sulla corretta applicazione delle norme, in particolare di quelle che salvaguardano la dimensione archivistica della memoria.


[1] Si fa qui riferimento alla iniziativa avviata nel 2021 dal CEN – Comitato europeo per la normalizzazione sul tema della conservazione digitale

[2] Si veda su questo aspetto M. Guercio, Lo stop europeo all’accreditamento nazionale dei conservatori digitali: un’occasione per superare i limiti del passato, 16 settembre 2020.

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