Documenti digitali: la disciplina delle copie, ecco cosa prevede il quadro normativo

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La riproduzione dei documenti in ambiente digitale è da decenni considerato un nodo centrale dalla normativa nazionale sulla trasformazione digitale. Una tematica non ancora risolta. Vediamo quali sono gli ostacoli che gli enti devono superare nonostante la regolamentazione introdotta dalle Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici appena entrate ufficialmente in vigore

14 Gennaio 2022

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Mariella Guercio

Anai - Associazione nazionale archivistica italiana, Docente di gestione documentale - Università La Sapienza di Roma

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La riproduzione documentale in ambiente digitale è da decenni considerato un nodo centrale dalla normativa nazionale sulla trasformazione digitale. In particolare, le attività che hanno impegnato il legislatore sin dai primi anni Novanta riguardano la digitalizzazione dei documenti analogici all’interno del sistema di gestione documentale, la trasmissione telematica dei documenti analogici e la comunicazione in forma cartacea dei documenti informatici. Anche questi ultimi, peraltro, sono destinati nel lungo periodo a presentare problemi altrettanto rilevanti poiché la loro conservazione a lungo termine e soprattutto permanente implica inevitabilmente, per ragioni di obsolescenza tecnologica, rilevanti interventi di riproduzione, in grado di garantire l’integrità dei patrimoni e la loro fruizione.

Riproduzione e copia nella dimensione digitale: considerazioni introduttive

Sebbene l’attività di riproduzione dei documenti riguardi finalità e attività distinte, le copie ottenute, comunque, si sedimentano tutte – almeno così dovrebbe avvenire – nell’archivio dell’ente, trattate mediante il sistema di gestione documentale nella fase attiva e nei servizi di conservazione nelle fasi successive. E’ quindi indispensabile che le diverse categorie di operatori dispongano di un quadro chiaro di questa complicata materia[1], che – pur ancorata all’impianto stabilito dal codice civile – è stata oggetto in questi anni di numerosi interventi correttivi sia per quanto riguarda la digitalizzazione di documenti analogici già sedimentati, sia per la loro trasmissione attraverso i canali telematici oggi disponibili.

Con questo contributo si intende offrire una lettura unitaria delle disposizioni esistenti analizzando con maggior dettaglio il nodo delle attestazioni di conformità alla luce del ruolo che un buon sistema documentale e una corretta progettazione e gestione dell’archivio possono assicurare agli investimenti – sempre impegnativi – in questo ambito. E’, comunque, opportuno chiarire che in questo campo specifico non esistono soluzioni rapide e di facile applicazione sia per quanto riguarda l’assunzione di precise e impegnative responsabilità, sia per la necessità ineliminabile di una seria attività di pianificazione, di monitoraggio e di verifica della qualità in capo agli enti titolari degli archivi. La certificazione di processo, proposta nel decreto correttivo del CAD del 2017 e dettagliata nelle procedure delineate dalle Linee guida Agid, indica un percorso di smaterializzazione finalizzato a snellire i depositi cartacei creati in questi ultimi decenni. La sua applicazione, tuttavia, richiede – come vedremo – un lavoro molto impegnativo di contestualizzazione dell’intervento sin dalla fase progettuale, di cui la normativa vigente offre per ora indicazioni assai limitate, la cui integrazione è necessariamente affidata alle strutture di tutela che fanno capo al Ministero della Cultura.

Senza un adeguato lavoro preliminare di analisi, di valutazione e di definizione di requisiti di qualità, gli enti – e in particolare la pubblica amministrazione – corrono molti rischi: tra gli altri, quello del mancato rispetto delle condizioni previste dal Codice dei beni culturali e delle conseguenze che ne derivano in termini di sanzioni, ma soprattutto quello di investire risorse anche rilevanti senza aver considerato le criticità specifiche della digitalizzazione, per esempio in relazione all’accesso (la digitalizzazione massiva – se non attentamente valutata – accresce i problemi di tutela della riservatezza) e ai costi della conservazione.

Le definizioni di riferimento

Il legislatore, a partire dal 2005, ha dedicato molta attenzione alla definizione delle fattispecie di riproduzione oggetto dei suoi molteplici interventi sin dai primi anni Novanta. Come si è detto, è essenziale, per l’attuazione di un percorso di trasformazione digitale, conoscere in dettaglio le componenti concettuali e i principi che ne sono alla base. La tipologia che è stata prima e più di altre oggetto di un’attenzione normativa – che potremmo quantomeno definire tormentata – è la copia per immagine su supporto informatico di documento analogico, originariamente (Regole tecniche dell’Autorità per l’informatica del 1994 e del 1998) considerata come il risultato documentale di processi di archiviazione ottica e di riversamento sostitutivo. La sostituzione – termine per anni ricorrente nella normativa di settore – riguarda il trasferimento dei documenti analogici esistenti (e presenti in grande quantità nei depositi d’archivio) su supporti digitali, inizialmente individuati esclusivamente nella forma di dischi ottici per l’erronea convinzione che fossero meno fragili, più stabili e quindi più adatti alla conservazione a lungo termine. In realtà, sono bastate poche esperienze per maturare valutazioni diverse e, soprattutto, riconoscere che il nodo cruciale della riproduzione non è quello dei supporti, necessariamente sempre temporanei nel mondo digitale, ma quello del processo di trasformazione e delle garanzie di integrità dei contenuti e di identità degli elementi costitutivi del documento che ne assicurano la validità legale e l’efficacia probatoria in termini di provenienza e data certa, possibilmente opponibile a terzi.

Il legislatore, quindi, alla fine di un lungo ed estenuante processo di continua revisione delle disposizioni in materia[2], è giunto solo recentemente a definizioni consolidate e, soprattutto, a riconoscere che il problema di fondo di qualunque intervento di riproduzione riguarda l’attestazione di conformità, dato che in tutti i casi previsti (tranne quello del duplicato informatico) la forma della copia intesa come contenuto, configurazione logica, elementi estrinseci (legati cioè alla natura materiale dell’esemplare ottenuto) subiscono modifiche. La dimensione digitale della produzione documentale ha notevolmente arricchito le possibilità di formazione delle copie differenziandone le tipologie, il rispettivo valore legale e la relativa capacità probatoria.

Il primo ostacolo che gli enti devono superare riguarda, quindi, l’individuazione delle diverse tipologie di copie definite dal Codice dell’amministrazione digitale e regolamentate nelle successive Linee guida Agid del 2020, tenendo conto del fatto che la distinzione riguarda due ambiti principali: la digitalizzazione dei documenti analogici e la riproduzione di documenti nativi informatici. Nel primo caso il CAD individua due fattispecie principali e una terza, che non dipende dal tipo di copia, ma dalla natura del documento riferibile alla sua cosiddetta unicità (il documento originale non unico):

  • la copia per immagine del documento analogico (CAD, art. 1, comma 1, lett i-ter) ha contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui la copia è tratta;
  • la copia informatica del documento analogico (CAD, art. 1, comma 1, lett. i-bis) ha solo il contenuto identico a quello del documento analogico da cui la copia è tratta;
  • il documento originale non unico (CAD, art. 1, comma 1, lett. v)[3] è contraddistinto dalla possibilità di risalire al suo contenuto attraverso altre scritture o documenti di cui sia obbligatoria la conservazione, in possesso anche di terzi.

Nel caso del documento informatico le fattispecie trattate nel CAD riguardano la copia informatica e la copia analogica di documento informatico e il duplicato. Quest’ultimo è definito come la copia ottenuta mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binaridel documento originario (CAD, art. 1, comma 1, lett i-quinques). In questo caso copia e originale non sono distinguibili reciprocamente, ma solo in relazione al loro contesto e ai metadati di formazione e conservazione che lo descrivono.

A differenza del duplicato, la copia informatica di un documento informatico implica che il contenuto sia identico a quello del documento da cui è tratto ma sia espresso con una diversa sequenza di valori binari(CAD, art. 1, comma 1, lett i-quater). Merita rilevare che i termini forma e contenuto utilizzati dal legislatore non sono mai chiariti nelle norme citate. Di fatto si limitano a differenziare le diversità modalità di visualizzazione della configurazione grafica del documento, per esempio nel caso di un testo elaborato originariamente in formato word e trasformato in una copia in pdf, la copia per immagine implica solo la persistenza della percezione visiva di alcuni aspetti del documento.

Per quanto riguarda invece la copia analogica di un documento informatico, cioè la sua riproduzione su qualunque supporto analogico, il CAD non propone definizioni ma affronta la questione nell’articolo 23 in relazione alla sua efficacia probatoria con esclusivo riferimento al caso dei documenti informatici sottoscritti con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale e alle garanzie previste per la dichiarazione di conformità.

La certificazione di processo delle copie per immagine di documenti analogici

La certificazione di processo(CAD, artt. 22 c. 2-bis e 23-ter c. 1-bis) è stata introdotta per la prima volta dal D.Lgs correttivo del CAD 217/2017 con riferimento esclusivo alla copia per immagine (in ambito pubblico e privato) e alla copia informatica (solo in ambito pubblico) di documenti analogici con la condizione che si adottino tecniche e procedure in grado di garantire la corrispondenza della forma e/o del contenuto dell’originale e della copia. Tale possibilità è stata, tuttavia, resa operativa solo nel 2020 a seguito dell’adozione delle Linee guida Agid, il cui allegato 3 – basato quasi interamente su uno studio del Consiglio nazionale del Notariato dedicato alla certificazione a presidio delle fede pubblica[4] – ha stabilito le procedure e i requisiti da adottare. Il processo si basa in sostanza sull’utilizzo di indicazioni desunte dagli standard ISO 9001 e 27001per l’ambito oggettivo (ciclo della smaterializzazione massiva) e sul metodo del raffronto a campione per l’ambito soggettivo, definendo una procedura tecnologica e le modalità di descrizione e certificazione delle attività finalizzate a garantire la corrispondenza del contenuto e, quando necessario, anche della forma dell’originale con la copia. Lo scopo è favorire la digitalizzazione massiva dei documenti e degli archivi analogici, da tempo immemorabile – come si è detto – al centro delle preoccupazioni e degli interessi del legislatore. Basti ricordare che sin dal 2005 l’articolo 42 del CAD invitava (e invita tuttora) le pubbliche amministrazioni a valutare “in termini di rapporto tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e degli atti cartacei dei quali sia obbligatoria o opportuna la conservazione”, provvedendo alla predisposizione di piani di sostituzione degli archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche (le Linee guida Agid) e naturalmente delle disposizioni del Codice dei beni culturali e dei poteri di tutela del Ministero della cultura (richiamati del resto nel successivo articolo 43, comma 4).

Le indicazioni fornite nell’allegato 3 sono precise dal punto di vista formale, ma restano generiche e insufficienti allorché si tratta di specificare la qualità del progetto sia dal punto di vista organizzativo e con riferimento alle responsabilità da mettere in campo, sia dal punto di vista tecnologico e soprattutto tecnico-archivistico. Non è certo sufficiente stabilire l’obbligo di scanner professionali coerenti con gli obiettivi dell’intervento, né costituisce una garanzia adeguata per la qualità complessiva del progetto di sostituzione (riferita all’insieme del patrimonio documentario di cui quella specifica sezione è parte organica)  l’attestazione di conformità di un pubblico ufficiale le cui competenze rilevano in termini giuridici, ma non assicurano che l’intervento sia stato pianificato e successivamente realizzato con il supporto di quelle conoscenze e abilità necessarie (e previste) dal Codice dei beni culturali quando è in gioco la documentazione d’archivio dell’ente. In sostanza, quindi, gli obblighi di verbalizzazione e descrizione stabiliti nell’allegato sono molto utili sul piano procedurale, ma non qualificano tecnicamente e archivisticamente il progetto, come si dirà meglio in seguito.

Validità legale ed efficacia probatoria delle copie di un documento informatico

L’elemento di differenziazione tra le tipologie che il Codice dell’amministrazione digitale ha voluto rendere evidente riguarda, in tutti i casi indicati, non le riproduzioni digitali e i documenti analogici in quanto tali, ma i requisiti e i modi consentiti per dichiarare la conformità delle copie ottenute attraverso la digitalizzazione. A queste condizioni il legislatore ha aggiunto un ulteriore elemento di specificità legato alla possibilità di ricorrere a forme di attestazione che non richiedono necessariamente il previo raffronto tra il singolo documento e la sua copia, ma consentono una certificazione di conformità basata sulla qualità verificabile del processo massivo di riproduzione. In questo secondo caso la copia deve essere, infatti, prodotta mediante processi e strumenti che assicurino tale risultato ricorrendo a “tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia” denominate – come si è detto in precedenza – certificazione di processo (CAD, art. 22, c. 1-bis e art. 23-ter, c. 1-bis).

A prescindere dalle definizioni, la questione su cui il legislatore si concentra in materia di copie per tutte le fattispecie trattate riguarda, quindi, i requisiti e le modalità per assicurarne la validità legale e l’efficacia probatoria attraverso l’attestazione di conformità o l’utilizzo, nel caso dei riproduzioni analogiche di documenti informatici, di strumenti particolari, quali il contrassegno elettronico o timbro digitale (che consentono di accedere di fatto all’originale informatico e verificarne la conformità), l’indicazione di “firme autografe sostituite a mezzo stampa” o il ricorso a servizi – tuttora scarsamente o per niente sviluppati – di punti di accesso telematico (CAD artt. 3, 6-bis e 64-bis). Questi ultimi si riferiscono a soluzioni ideate soprattutto in caso di trasmissione a destinatari che non dispongano di domicili digitali.

In conclusione, il cuore del problema è l’attestazione di conformità, i cui principi derivano dagli articoli del Codice civile e la cui centralità è già stata ricordata, oggetto in questi anni di un processo di differenziazione e, soprattutto, di semplificazione per il contesto digitale, ferma restando l’esigenza di assicurare standard elevati di sicurezza giuridica, come ha rilevato il Consiglio del Notariato nel già citato studio del 2019 dedicato alla certificazione di processo[5]. A questo proposito la normativa (CAD, artt. 3-bis 22-23-quater, Linee guida Agid sez. 2.2, 2.3, 2.5 e allegato 3) distingue con attenzione le diverse tipologie di copie anche in base alla loro origine (pubblico ufficiale, funzionario delegato, detentore dell’originale), alzando il livello di garanzia soprattutto nel caso dei documenti analogici:

  • la dichiarazione di conformità di un pubblico ufficiale è in grado in qualunque caso e per qualunque tipologia di riproduzione (incluso il caso dell’originale unico e il caso della riproduzione informatica di documento analogico) di garantire alla copia la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui è tratta e di assolvere agli obblighi di conservazione legale (artt. 22, 23 e 23-bis);
  • la dichiarazione di conformità di un funzionario pubblico specificatamente autorizzato e delegato a svolgere questo compito nell’ambito della propria amministrazione e mediante l’utilizzo di una firma elettronica qualificata garantisce alla copia di un documento amministrativo informatico (CAD, art. 23-ter), che rispetti tuttavia l’identità sia di contenuto che di forma (quindi limitatamente alla copia per immagine di documenti analogici), la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui è tratta.

In assenza di dichiarazione di conformità ed esclusivamente per la copia per immagine di documenti analogici (identica per contenuto e forma all’originale) e per la copia informatica di un documento informatico (distinto dal duplicato) o di un estratto – prodotti tutti nel rispetto della normativa vigente –,  l’efficacia probatoria attestata dalla firma digitale del detentore dell’originale è valida fino a che la conformità non sia disconosciuta.

Il ruolo della tutela archivistica

L’analisi della normativa ora illustrata conferma la notevole attenzione per gli aspetti di validità legale che il legislatore ha riservato alle attività di riproduzione, soprattutto quella cosiddetta sostitutiva gestita nella fase corrente. Poco o nessuno spazio è invece lasciato ai problemi di gestione documentale delle riproduzioni e alle garanzie da riservare alla loro tenuta negli archivi a distanza di tempo. Problemi e garanzie che tuttavia hanno un elevato impatto sulla efficacia probatoria dei documenti.

Allo stato attuale, la tutela archivistica sui progetti specifici di digitalizzazione si basa, in linea generale, sulle disposizioni stabilite dal Codice dei beni culturali che prevedono l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di ottenere l’autorizzazione delle strutture competenti del Ministero della cultura sia della correttezza degli interventi stessi, sia della (eventuale) eliminazione degli originali di cui si sia effettuata la riproduzione. Gli unici provvedimenti di dettaglio sono le circolari 40 e 41/2015 predisposte dalla Direzione generale per gli Archivi e relative alle istruzioni diramati ai propri uffici sul territorio (Soprintendenze e Archivi di Stato) per la distruzione degli originali analogici riprodotti nel rispetto delle regole allora vigenti. Le due circolari si limitano a richiamare le disposizioni del CAD e delle regole tecniche, stabilendo eccezioni al processo di digitalizzazione a norma per un numero limitato di documenti – in particolare per le cartelle cliniche anteriori al 1978 – senza peraltro specificare le ragioni tecniche di queste esclusioni. Si tratta, peraltro, di indicazioni superata dalla nuova normativa.

In vista, quindi, di un inevitabile intervento dell’amministrazione archivistica in questo ambito,  è opportuno rilevare che le disposizioni riferibili all’esercizio della tutela sugli archivi devono essere considerate ad almeno due livelli di applicazione: da un lato, e in primo luogo, quello della riproduzione sostitutiva massiva che ha inevitabilmente un impatto molto rilevante sull’archivio come entità complessiva e richiederebbe quindi un’azione rigorosa di valutazione, verifica e autorizzazione, dall’altro quello della capacità di documentare nel tempo, anche al di fuori del sistema di gestione documentale corrente, la presenza dell’attestazione di conformità delle copie ottenute singolarmente a seguito del raffronto diretto con l’originale. Pur trattandosi di documenti singoli – ma il Codice dei beni culturali, come è noto, non distingue nell’esercizio della tutela se si tratta di archivi o di singole entità documentarie, di supporti analogici o digitali –, è indispensabile garantire agli utenti degli archivi, anche a distanza di tempo, la possibilità di riconoscere nei processi di conservazione la natura di ciascuna riproduzione digitale almeno in considerazione delle esigenze di efficacia probatoria.

Il fronte più impegnativo resta, peraltro, quello della certificazione di processo che non può non impegnare il Ministero della Cultura nella definizione di un modello di qualità da rispettare nei progetti predisposti dalla pubblica amministrazione e soggetti all’obbligo dell’autorizzazione preventiva, considerato che anche gli archivi correnti pubblici sono per legge beni culturali (Codice dei beni culturali, art. 10, c. 2, lett. b). Le responsabilità sono in capo alla Direzione generale degli archivi che ha, infatti, in corso la preparazione di adeguate linee guida per sostenere gli uffici che dovranno esercitare la vigilanza sugli enti in questa impegnativa e allo stesso tempo stimolante fase di trasformazione, la cui rilevanza è ulteriormente accentuata dagli investimenti previsti nel PNRR. La valutazione e la successiva approvazione delle iniziative di digitalizzazione dovrebbero, infatti, prevedere il rispetto di condizioni aggiuntive, possibilmente definite con indicazioni di livello nazionale, finalizzate a obbligare le amministrazioni a inquadrare le proposte di smaterializzazione nel contesto più ampio dell’intero complesso documentario, definendo esigenze e obiettivi specifici, descrivendo nel dettaglio la natura dell’intervento sia dal punto di vista tecnologico e tecnico-archivistico, sia sul piano della sostenibilità, dei costi, dell’analisi dei rischi e della qualità delle persone coinvolte nella realizzazione. Siamo, quindi, ben oltre le indicazioni che le circolari del 2015 richiedevano in termini di “formati, marcature, metadati e altri parametri standard”. D’altra parte, la trasformazione digitale relativa alle fonti documentarie non può essere considerato in problema esclusivamente tecnologico e, ancor meno, economico: è in gioco la salvaguardia di un patrimonio culturale garantito dall’articolo 9 della Costituzione, una salvaguardia che inizia – come ben sappiamo – dalla corretta formazione dei documenti e include naturalmente anche la qualità di quei processi di riproduzione sostitutiva nati a fini operativi e destinati a tradursi in nuove forme di tenuta nel tempo degli archivi.

Il Percorso formativo di FPA Digital School

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3 Luglio 2024


[1] Per una analisi recente del quadro normativo in materia di riproduzione dei documenti che tenga conto del punto di vista archivistico cfr P. Carucci e M. Guercio, Manuale di archivistica, Roma, Carocci, 2021, pp. 171-172 e 428-436.

[2] Le disposizioni in materia di riproduzione dei documenti analogici su supporti digitali sono state numerose e spesso inconcludenti, soprattutto prima del Codice dell’amministrazione digitale del 2005: dalle regole tecniche adottate con deliberazioni dell’Aipa n. 15 del 28 luglio 1994, n. 4 del 30 lugluo 1998, seguite – dopo l’approvazione del D.P.R. 445/2000 (art. 6) – dalle regole tecniche adottate dal Cnipa con deliberazioni 42 del 13 dicembre 2001 e 11 del 19 febbraio 2004. Anche il CAD affronta a più riprese la questione, che tuttavia dal 2005 assume una forma diversa, non necessariamente più chiara, introducendo la funzione di conservazione digitale che sostituisce definitivamente le varie espressioni con cui si era cercato in precedenza di identificare il problema: archiviazione sostitutiva, riversamento diretto, riversamento sostitutivo, conservazione sostitutiva, archiviazione ottica e altro ancora.

[3] Il D.P.C.M. 21 marzo 2013 pubblicato sulla G.U. del 6 giugno 2013, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 22, comma 5, del Codice dell’amministrazione digitale, ha individuato quelle particolari tipologie di documenti analogici originali unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione dell’originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all’originale deve essere sempre autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente e allegata al documento informatico.

[4] Consiglio nazionale del Notariato, Studio4_2018 DI. La “certificazione di processo” nell’ambito delle copie informatiche di documenti analogici, 2019m https://www.notartel.it/notartel/contenuti/news/pdf-news/4-2018-DI.pdf.

[5] Ibidem.

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