Il Compact britannico, un esempio positivo di secondo welfare
Come in molti altri Paesi europei, anche in Italia il sistema di welfare si trova oggi soggetto a due grosse pressioni. Da un lato i vincoli di bilancio impediscono incrementi di spesa e impongono importanti misure di contenimento dei costi. Dall’altro lato la continua trasformazione dei bisogni socialirichiede risposte molto complesse e diversificate. In questo senso appare particolarmente interessante un accordo che nel Regno Unito, da oltre 15 anni, regola i rapporti intercorrenti tra la pubblica amministrazione inglese e il terzo settore: il progetto Compact. In questo Dossier a più "puntate", Lorenzo Bandera, junior researcher presso Percorsi di secondo welfare ci guiderà in un’analisi sulla trasferibilità del modello nella realtà italiana.
15 Aprile 2013
Lorenzo Bandera
Come in molti altri Paesi europei, anche in Italia il sistema di welfare si trova oggi soggetto a due grosse pressioni. Da un lato i vincoli di bilancio impediscono incrementi di spesa e impongono importanti misure di contenimento dei costi. Dall’altro lato la continua trasformazione dei bisogni sociali – riconducibile a ragioni legate alla crisi economica ma anche a problematiche strutturali proprie del nostro modello di stato sociale – richiede risposte molto complesse e diversificate.
In questo contesto le pubbliche amministrazioni, specialmente quelle operanti a livello locale, si trovano nella difficile situazione di dover rispondere alle sempre più complesse necessità dei cittadini avendo a disposizione risorse sempre meno adeguate a tale scopo. Le istituzioni pubbliche più lungimiranti hanno quindi cercato di riequilibrare la propria spesa interna orientando l’attenzione verso le situazioni giudicate più urgenti. In molti casi, tuttavia, questi sforzi hanno comunque lasciato ampie zone grigie in cui i bisogni dei cittadini sono rimasti totalmente o parzialmente insoddisfatti.
In questa situazione di grave difficoltà appare quindi utile e auspicabile lo sviluppo di iniziative di secondo welfare, mix di protezioni e investimenti sociali a finanziamento non pubblico forniti da attori economici e sociali collegati in reti dal forte ancoramento territoriale (ma aperte a confronti e collaborazioni anche trans-locali) che vadano ad affiancarsi al primo welfare. Generalmente possiamo far rientrare nel primo welfare i regimi di base previsti dalla legge e i regimi complementari obbligatori di protezione sociale che coprono i rischi fondamentali dell’esistenza – salute, vecchiaia, infortuni sul lavoro, disoccupazione, pensionamento e disabilità – ovvero i servizi considerati “essenziali” per una sopravvivenza decorosa e per un’adeguata integrazione nella comunità, capaci di garantire il pieno godimento dei diritti fondamentali di cittadinanza. Al secondo welfare appartengono invece il settore della protezione sociale integrativa volontaria, soprattutto nel campo delle pensioni e della sanità, nonché servizi sociali di vario genere non sempre garantiti dal settore pubblico.
Ma i confini tra primo e secondo welfare devono essere definiti pragmaticamente: bisogno per bisogno, territorio per territorio, comunità locale per comunità locale. Essi, quindi, non devono essere considerati come due compartimenti stagni, ma piuttosto come realtà fortemente intrecciate, che sfumano l’una nell’altra a seconda delle politiche e delle aree di rischio e bisogno in esame. Il secondo welfare coinvolge attori economici e sociali di varia natura quali imprese, sindacati, fondazioni, assicurazioni e organizzazioni appartenenti al terzo settore, a cui le PA potrebbero guardare con maggiore attenzione per elaborare strumenti innovativi in risposta ai bisogni dei cittadini.
Moltissime pubbliche amministrazioni, specialmente a livello locale, già mantengono rapporti molto stretti con questi soggetti, in particolare con le organizzazioni del terzo settore (OTS) a cui spesso è affidata, attraverso convenzioni mirate, la gestione di vari servizi a carattere sociale. Tuttavia la presenza di accordi tra PA e terzo settore non esaurisce le potenzialità di rapporti che, se giustamente valorizzati, potrebbero sviluppare in senso positivo le politiche destinate al benessere dei cittadini.
In questo senso appare particolarmente interessante un accordo che nel Regno Unito, da oltre 15 anni, regola i rapporti intercorrenti tra la pubblica amministrazione inglese e il terzo settore: il progetto Compact.
“Compact” significa letteralmente “patto” o “accordo”, ma è anche il termine con cui nel Regno Unito si fa riferimento a una serie di documenti che, sviluppatisi sia a livello nazionale che locale, hanno permesso l’implementazione di politics, social policies e sistemi di governance condivise da PA e OTS in materie sociali. La natura flessibile e non vincolante di questi accordi ha consentito la strutturazione di reti di solidarietà, cooperazione e sviluppo che, in particolare a livello locale, hanno spesso garantito una più incisiva e capillare azione del terzo settore in tema di politiche di welfare.
Il Compact, come detto, rappresenta essenzialmente una dichiarazione di intenti, caratterizzata da standard generali di comportamento indirizzati sia alle istituzioni pubbliche che al terzo settore, che si propone di cambiare la cultura delle relazioni tra PA e OTS e favorire la collaborazione, in diversi ambiti e senza alcun obbligo di realizzazione, tra queste due realtà.
In tutte le sue versioni il Compact esprime innanzitutto le ragioni per cui il terzo settore è ritenuto fondamentale per il sistema britannico, sottolineando il contributo da esso fornito per lo sviluppo sociale, culturale, economico e politico del Paese. Le organizzazioni non profit sono riconosciute come realtà in grado di agire in ambiti in cui il settore pubblico si muove con difficoltà o in cui la presenza dello Stato risulterebbe meno incisiva di quella di strutture indipendenti, più radicate sul territorio e caratterizzate da un maggior grado di know how rispetto all’apparato pubblico. Attraverso diverse modalità, correlate alle proprie caratteristiche e capacità, sia le amministrazioni che le organizzazioni del terzo settore, nel momento in cui decidono di aderire ai principi del Compact, si impegnano ad aumentare il grado di reciproca collaborazione e di trasparenza del proprio operato, così da lavorare congiuntamente alla realizzazione di obiettivi chiari e condivisi in favore del bene comune.
Il Compact dal 1998 ad oggi ha influenzato positivamente le relazioni esistenti tra il mondo del non profit e la pubblica amministrazione, consentendo la crescita di segmenti della società civile che – tutelati e valorizzati dallo Stato in linea con i principi contenuti nell’accordo nazionale e nei documenti territoriali – si sono rivelati in grado di affiancare la propria attività a quella del settore pubblico nella gestione di servizi e funzioni di interesse generale.
Dal punto di vista culturale, sociale, giuridico, economico e politico Italia e Regno Unito sono indubbiamente molto diverse, ma niente vieterebbe di prendere in considerazione l’esperienza del Compact anche nel nostro Paese. Se infatti in Inghilterra si è riusciti a favorire esperienze spontanee in grado di coinvolgere il mondo dell’associazionismo e la pubblica amministrazione di ogni ordine e grado, cosa impedisce che anche nel nostro Paese possa verificarsi un simile sviluppo?
La riforma del titolo V, spesso lo si dimentica, ha introdotto due forme di sussidiarietà, una verticale e una orizzontale, che ben potrebbero supportare l’edificazione di sistemi favorevoli alla collaborazione continua tra PA e OTS. Lo sviluppo di un sistema che garantisca relazioni formali, chiare e positive tra questi soggetti, in una cornice che tuttavia continui a garantire autonomia e flessibilità di entrambi, potrebbe rappresentare una via innovativa per lo sviluppo forme di sussidiarietà orizzontale, e possibilmente circolare, in grado di avvicinare PA e cittadinanza in un momento in cui se ne sente assolutamente il bisogno.
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