La società replicante, l’Italia del rapporto Censis
La metamorfosi della società italiana, che sarebbe dovuta innescarsi grazie alle cosiddette minoranze attive, pare non essere mai iniziata. Questo è quello che emerge dal 43° rapporto Censis che fotografa una “società replicante” talmente prigioniera dei propri modelli da non riuscire a liberarsene. Tuttavia anche nella replica il Censis rileva tre novità:
4 Dicembre 2009
Letizia Pica
La metamorfosi della società italiana, che sarebbe dovuta innescarsi grazie alle cosiddette minoranze attive, pare non essere mai iniziata. Questo è quello che emerge dal 43° rapporto Censis che fotografa una “società replicante” talmente prigioniera dei propri modelli da non riuscire a liberarsene. Tuttavia anche nella replica il Censis rileva tre novità:
- una dura e progressiva ristrutturazione del settore terziario. La ridotta disponibilità di spesa e il rallentamento della produzione e dei consumi hanno ridotto le cavalcate espansive del settore terziario che inizia ad affrontare la prima ristrutturazione dell’Italia moderna.
- Il protagonismo del mondo delle imprese che stanno assumendo un ruolo di traino e leadership della società. Un ruolo che evidentemente la politica ha perso e che invece la parte più dinamica dell’impreditoria italiana è in grado di interpretare, combinando le strategie di presenza sui mercati mondiali con l’innovazione. Si rafforzano i grandi player dell’economia, molte medie imprese e una quota di piccoli imprenditori.
- Il mondo della rappresentanza ha perso la sua carica identitaria. Gli interessi si rappresentano direttamente senza confluire né aggregarsi nelle istituzioni rappresentative, non solo tra i big player ma anche nelle grandi filiere, nelle intese internazionali e nei territori. “Irrompono – e questa non pare però una novità – interessi privatistici in un pericoloso mix fra politica e affari in delicati settori pubblici, dalle infrastrutture alla sanità”.
Un’altra caratteristica rilevata dal rapporto è l’imperare delle opinioni sulle quali si discute e ci si contrappone, senza che il confronto maturi sulla base dei fatti che tendono, in questa sovreccitazione comunicativa, a esser messi da parte, quasi a scomparire. Questo fenomeno investe in pieno la classe politica corrodendone la leadership ma anche la credibilità: “non abbiamo nessuno spazio di autorità condivisa e non bastano a restituire allo Stato autorità e fiducia isolati episodi di buon governo del fare”.
La fine di un’era, anzi di tre
Se tre sono le novità nel panorama del sostanziale immobilismo della nostra società, tre sono anche i cicli, le culture che si apprestano a tramontare: la prima, quella dell’Italia risorgimentale e dei padri fondatori che attribuivano centralità allo Stato, emanatore di regole sottoposte al costante rispetto e controllo; la seconda è la cultura riformista nata nel secondo dopoguerra, per cui le classi dirigenti modificano le strutture pubbliche in risposta ai bisogni sociali, “ma oggi chi ha bisogno di garanzie per la sua vita anziana non crede che il suo problema verrà risolto dalla riforma pensionistica, chi ambisce a dare ai figli livelli formativi competitivi non crede che servirà la riforma della scuola e dell’università, chi avverte la drammaticità della propria posizione occupazionale non crede nella riforma del mercato del lavoro, chi avverte l’inefficienza degli apparati burocratici non crede che sarà una riforma della Pubblica Amministrazione a ridare agevolezza al rapporto fra cittadini e Stato”. Anche il primato della soggettività che si è fatto strada dagli anni ‘70 in poi, con la crescita del lavoro autonomo, pare destinato all’erosione: «L’individualismo vitale è sempre meno capace di risolvere i problemi della complessità che lo trascende, il soggettivismo etico mostra la corda rispetto all’esigenza di valori condivisi, la spietatezza competitiva e la carica di egoismo che derivano dal primato della soggettività hanno creato squilibri e disuguaglianze sociali che pesano sulla coesione collettiva”
Quale futuro si intravede?
Se la psicologia collettiva è oggi attanagliata da un profondo mix di “stanchezza e vergogna per i tanti fenomeni di degrado valoriale, o almeno comportamentale, che caratterizzano la vita del Paese, c’è di conseguenza la speranza di uscirne, con una propensione a pensare al dopo, a una società capace di migliorarsi”. Il futuro non è, però, uno spazio vuoto da riempire o un orizzonte lontano da raggiungere. L’oggi del nostro domani – ci ricorda De Rita, direttore del Censis – è qui e adesso che dobbiamo costruirlo, senza voltarci indietro o guardare troppo lontano, col rischio di perdere di vista quello che siamo o che potremmo essere, proprio qui e adesso.