L’Spc aiuterà la Scuola: occasione per il lancio di piattaforme e servizi digitali

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Nella Corea del Sud, da un decennio avamposto dello sviluppo della banda ultra larga sia fissa che mobile, uno dei paesi al mondo stabilmente ai primi posti nei ranking internazionali, si è partiti proprio dalla scuola per poi allargare a tutta la società civile i benefici della digitalizzazione

21 Giugno 2016

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Francesco Vatalaro, università Tor Vergata

Molti mesi fa il Governo Renzi ha lanciato un piano ambizioso di rinnovamento della Scuola Pubblica, intitolato “La Buona Scuola”. Si è trattato di impegni di investimento per la bonifica edilizia di molti edifici in cattive condizioni, ma anche di impegni sulla digitalizzazione. Per raggiungere quest’ultimo importante obiettivo, il piano prevede la connettività in fibra ottica e l’uso del Wi-Fi per consentire a studenti e docenti di essere messi in rete.

Sul versante delle infrastrutture fisiche di certo occorre andare avanti e c’è ancora molto da fare, specialmente in quelle aree del Paese in cui si soffre di condizioni di lontananza dai grandi centri e si rischiano forme di isolamento che possono avere un serio impatto sull’integrazione sociale e culturale dei più giovani in un mondo che corre a velocità sempre maggiori.

Ma le infrastrutture fisiche da sole non bastano (fra queste includo, evidentemente, gli stessi terminali – uno per studente): infatti, occorre fare uno sforzo di creatività per inserire nuove piattaforme e nuovi servizi specializzati alla didattica scolastica. Sono questi che, in realtà, possono fare la differenza, insieme con un accurato livello di preparazione di docenti e tutor (dunque corsi di aggiornamento periodici).

Ricordiamo che nella Corea del Sud, da un decennio avamposto dello sviluppo della banda ultra larga sia fissa che mobile, uno dei paesi al mondo stabilmente ai primi posti nei ranking internazionali, si è partiti proprio dalla scuola per poi allargare a tutta la società civile i benefici della digitalizzazione. Mi colpì molto che, intorno alla metà degli anni 2000, in quel Paese fosse stabilito per Legge che i compiti a casa dovevano essere trasmessi dal docente via Internet e che gli studenti dovevano rispondere con la stessa modalità affinché la prova fosse ritenuta validamente eseguita.

Oggi la Corea del Sud è membro del D5 (o Digital 5), un gruppo informale e volontario di Paesi fra quelli più digitalizzati al mondo (gli altri sono Estonia, Israele, Nuova Zelanda e Regno Unito). Si incontrano una volta all’anno per scambiare esperienze e correggere reciprocamente gli errori di attuazione delle politiche digitali. Fra i temi di condivisione ce ne è uno particolarmente rilevante: insegnare ai bambini la programmazione. Detto in altro modo, significa imparare a ragionare in modo algoritmico e dunque essere in grado, da grandi, non solo di interagire con gli umani ma anche con le macchine.

Uno dei libri più di successo del 2015 è il best seller di Tyler Cowen sul futuro del lavoro “La media non conta più”. L’autore parla degli scacchi ma non del gioco a cui siamo abituati: descrive il nostro “futuro Freestyle” in cui il ragionamento umano di successo si integra con il calcolo in tempo reale delle macchine.

È davvero straordinaria la sfida davanti a noi per adeguare i modelli di apprendimento. Anche i paradigmi di insegnamento cambiano: esistono ormai i MOOC (Massive Open Online Courses) e molte Università e qualche Scuola avanzata stanno cambiando le stesse tecniche di interazione culturale in classe. Lo studente studia online la lezione, lo fa quando vuole e dove vuole, la ripete tutte le volte che serve per raggiungere il livello desiderato di comprensione, fa gli esercizi (sempre più sistemi automatici aiuteranno a misurare il livello raggiunto). Poi, in classe si discute, alla presenza e con il coordinamento del docente. Insomma, cambiano i modelli che da verticali diventano orizzontali e da chiusi divengono aperti (ma sicuri).

Occorre dunque cambiare i modelli culturali e, per fare questo, occorre disporre delle appropriate piattaforme. Queste ultime sono sempre più “social” e consentono l’interazione entro la comunità di studenti e professori.

Nuovi modelli culturali e piattaforme social: è su questi due aspetti che si dovrebbe concentrare una vera riforma che prepari i giovani al mondo del lavoro degli anni 2020. Con questi modelli e strumenti, infatti si stimolano tre aspetti molto importati: la capacità di autoapprendimento, la creatività e l’interdisciplinarietà. Le scuole di ogni ordine e grado e il Ministero dell’Istruzione dovrebbero aprirsi ad un redesign di questi modelli, in modo da sapere cosa chiedere ai fornitori di piattaforme e servizi SPC per fare il dovuto salto di qualità.

Un’ultima riflessione sui contenuti. Sempre più, negli Stati Uniti e in Europa, ci si convince che i programmi scolastici non sono più adeguati perché occorre che i giovani siano dotati di quelli che si chiamano gli e-skill.

Un recente rapporto del World Economic Forum (“The Future of Jobs – Employment, Skills and Workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution”, gennaio 2016) stima che il 65% dei bambini che oggi sono avviati alla scuola elementare finirà per svolgere lavori che ancora neppure esistono. Per vincere questa sfida sono tre le categorie di e-skill ritenute necessarie: competenze nell’uso delle ICT, abilità dei professionisti ICT, competenze di e-Business (e-Leadership). C’è molto da fare e, ogni giorno che passa si allarga i divario con i paesi leader: il ritardo comincia ad essere significativo e occorre attivarsi presto perché questa che abbiamo di fronte è, a tutti gli effetti, già un’emergenza senza che neppure ne siamo consapevoli.

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