Obama mette online la banca dati dello Stato…e da noi?

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La notizia (uscita ieri su Repubblica.it) è di quelle semplici da raccontare: tutto l’archivio federale degli Stati Uniti (una cosetta che vale 32.000 documenti l’anno solo di aggiornamento) sarà online a disposizione di tutti e così, tramite l’Open Government Initiative, lo saranno tutti i documenti delle varie agenzie.

7 Ottobre 2009

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

La notizia (uscita ieri su Repubblica.it) è di quelle semplici da raccontare: tutto l’archivio federale degli Stati Uniti (una cosetta che vale 32.000 documenti l’anno solo di aggiornamento) sarà online a disposizione di tutti e così, tramite l’Open Government Initiative, lo saranno tutti i documenti delle varie agenzie. Nel frattempo, come ci ricorda Gianni Dominici nel suo articolo di oggi, l’enorme patrimonio informativo costituito dai dati pubblici degli USA è già a disposizione di tutti (anche per l’uso profit delle imprese) tramite il portale www.data.gov. E lo sono altrettanto le leggi su www.regulations.gov, con la possibilità di leggerne il percorso e commentarne i testi. Obama si avvia così a mantenere la promessa elettorale di un settore pubblico interamente trasparente ed aperto (cfr. www.whitehouse.gov/open).

Circa 25.000 siti pubblici (oltre 500 solo per i 14 ministeri), tutti costruiti con logiche, grammatiche e layout diversi; domini delle amministrazioni con nomi in libertà[1]; regolamenti, leggi e pandette sulla trasparenza emanate da anni, ribadite più volte da successive norme, disattese senza che niente succedesse (è, ad esempio, il caso degli organigrammi sui siti pubblici obbligatori già con il CAD, prescritti con severità dal Governo Prodi e il cui obbligo è di nuovo parte della L.69/09); tanti progetti di sistematizzazione della conoscenza (a partire da una semplice e ancora vagheggiata “rubrica della PA”) abortiti, nati morti o scomparsi in tenera età; una direttiva europea sulla valorizzazione dei dati pubblici che non ha trovato alcuna sponda; un diritto di accesso agli atti che nasce quasi vent’anni fa (la famosa legge 241 del 1991) e che da allora è stato tenacemente reso nella pratica impossibile da una giustizia amministrativa che ne ha dato sempre una interpretazione assolutamente restrittiva: dagli USA eccoci tornati in Italia.

Per onestà dobbiamo dire che il Ministro Brunetta ha fatto della trasparenza uno dei suoi cavalli di battaglia sin da quando (era a Palazzo Vidoni da pochi giorni) ha fatto mettere sul suo sito stipendi e curricoli dei suoi collaboratori e poi di tutti i dirigenti. Già molte amministrazioni, volenti o nolenti, hanno seguito la legge e si sono allineate, ma il percorso ancora da fare è enorme e quell’obiettivo, sia pure simbolicamente significativo, è solo una tappa.

È necessario ribaltare l’attuale impostazione e pretendere che tutto quello che non è esplicitamente e motivatamente riservato sia pubblico. E non solo. Deve essere anche fruibile e, quindi, organizzato e indicizzato. Ma non con un motore simil-google che ci restituisca migliaia di pagine (se i siti sono 25.000 fate da voi i conti) di cui, se va bene, leggiamo i primi cinque riferimenti, ma con una tecnologia evoluta che si basi su ontologie e ricerche semantiche. Il sapere c’è e nella maggior parte dei casi è anche sviluppato in Italia e con soldi pubblici: peccato che nessuno lo usi.

Un gruppo di lavoro molto agguerrito si era riunito sotto l’egida della Scuola Superiore della PA qualche mese fa e aveva elaborato un Manifesto della Trasparenza che avevamo poi presentato allo scorso FORUM PA di maggio. Ve lo ripropongo perché, seppure la legge 69/09 lo supera in parte nel dettato normativo, rimane invece voce nel deserto nella sua concreta applicazione.

Un discorso a parte merita poi il tema della conoscenza posseduta dalla PA intesa come “bene comune”. Su questo vi consiglio di leggere il prezioso libro uscito or ora per i tipi della McGraw Hill dal titolo “Contenuti aperti, beni comuni – La tecnologia per diffondere la cultura”. Il libro parte dalla esperienza della Regione Sardegna, ma si avventura sul terreno difficile della restituzione alle comunità locali della cultura identitaria tramite le tecnologie. Vale la pena di leggerlo, ma per chi non ne avesse il tempo consiglio almeno il sito www.sardegnacultura.it. Come vi sarà immediatamente evidente non si tratta di un’operazione di “nostalgia”, ma di una solida base per uno sviluppo anche economico dei sistemi territoriali che si basi sugli asset propri di ciascuna area.

Di questo e di molto altro si è parlato nei tre giorni dell’Internet Governance Forum che si è chiuso oggi a Pisa: peccato che non ci fosse nessun rappresentante del Governo e pochissimi politici e che quindi si finisca per parlarci po’ un addosso, sempre pochini e sempre gli stessi, chiedendoci l’un l’altro “come va?” e scuotendo leggermente la testa.

 


[1] (neanche i Ministeri sono riusciti tutti ad accettare una regola banale come il dominio gov.it:  se volete il Ministero dell’Ambiente dovete cercarlo come www.minambiente.it , ma se cercate il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dedicato all’attuazione del programma di Governo si chiama www.attuazione.it e il Dipartimento per la gioventù ecco uno squillante www.gioventu.it )

 

 

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