Open data: senza trasparenza e sviluppo economico aprire i dati serve a poco
I dati aperti ora disponibili sono sempre di più, ma aprire i dati senza accompagnarli ad una strategia che cerchi di fare leva anche su variabili quali trasparenza e sviluppo economico rischia di creare cattedrali nel deserto
18 Novembre 2016
Maurizio Napolitano, Fondazione Bruno Kessler
Se guardiamo all’ultimo lustro di quella che è la storia dell’open data in Italia, è innegabile che la quantità di dataset ora disponibili è aumentata velocemente. Qualcuno potrebbe non essere d’accordo con questa affermazione semplicemente perché va a guardare il portale italiano dati.gov.it dove, la situazione, aggiornamento dei dataset è ferma dal 2015, ovvero da quando il nuovo portale è stato lanciato. Il portale ha anche la funzione di aggregare i dataset che vengono pubblicati sugli analoghi portali delle varie pubbliche amministrazioni italiane. Funzione che, per un anno non è stata utilizzata e, così, la percezione dell’aumento di dataset in Italia – per i non addetti ai lavori – sembra ferma.
In realtà però sono sempre di più i dati aperti ora disponibili. Non si tratta solo di quei casi virtuosi di chi già aveva cominciato come, ad esempio, la Provincia Autonoma di Trento dove, ora sono pubblicati in automatico anche i dati del 90% dei comuni, ma anche quelli di nuovi attori che si presentano sulla scena.
Certo, siamo ancora in attesa delle azioni di regioni di Campania e Sicilia anche se, qui, le rispettive comunità opendata, hanno dato vita ai rispettivi “non portali”: cataloghi di raccolta dati creati da chi ne sente l’esigenza.
La domanda però da porsi ora è: ma nonostante tutti questi dataset, cosa è successo in Italia in questo anno? La risposta non è molto positiva, ma proviamo ad individuare quali sono le variabili che vanno prese in considerazione. Solitamente agli open data si associano i concetti di trasparenza e di sviluppo economico. Questi due assi sono sicuramente importanti, ma, la storia insegna ormai che, aprire i dati, senza accompagnarli ad una strategia che cerchi di fare leva su una delle tre variabili, rischia di creare cattedrali nel deserto.
Pertanto, il ragionamento a monte, è prima chiedersi quali sono le azioni svolte nel 2015 per favorire quei tre assi.
Se guardiamo a livello di governo centrale, sono ben poche le cose che ci portiamo a casa: dati.gov.it è stato aggiornato, ma poi le funzioni di popolamento sono state interrotte; è stato definito uno standard sulla modalità di definizione di cataloghi (dcat-ap-it); è nato il forum online NetworkOT11/OT2 dove si discute di alcuni obiettivi dell’agenda digitale europea che includono anche le questioni open data; sono state linee guida sugli open data e, infine – grazie anche alla spinta dell’entusiasmo creato dal FOIA – è partito il progetto open.gov.it dove discutere dei temi dell’Open Government Partnership.
Tutte azioni partite bene ma poco incisive se vogliamo andare a sviluppare i temi dell’open data a fondo nei punti sviluppati sopra.
Trasparenza, nel bene o nel male, dei tre assi è quello che appare un maggiore effetto: in seguito al decreto trasparenza sono nati, su ogni portale, la sezione “Amministrazione trasparente” dove è possibile trovare anche dati in formato tabellare e che viene monitorato dal servizio MagellanoPA attraverso la sua bussola (ora fermo in quanto in via di revisione in seguito alle novità introdotte dal FOIA).
Il vantaggio è che sono aumentati i dataset, ma è questa la metrica che stiamo cercando? Nonostante la lista dei dataset sia definita, il modo con cui devono essere strutturati e presentati non lo è affatto e la conseguenza diventa che creare strumenti di comparazione o, più semplicemente per interpretare cosa viene offerto, diventa difficile e quindi si mette in discussione il concetto di trasparenza.
Sul fronte invece dello sviluppo economico la questione la si può mettere su due piani: cosa i dati offrono e quali azioni sono state fatte per riusarli. Non si tratta di due questioni ben separate in quanto entrambi si possono contaminare e, in questo momento, ne hanno un grande bisogno.
Dall’Europa sono arrivate belle opportunità per startup per farsi finanziare le loro idee, in particolare i progetti europei Finodex e Odine hanno offerto parecchi finanziamenti per startup europee che fanno uso di opendata. Purtroppo le aziende italiane hanno risposto in poche (anche se, in particolare in Finodex, sei hanno ottenuto dei buoni finanziamenti). Una delle cause è la scarsità di dati di qualità o in grado di creare valore economico che il panorama italiano offre.
Parlando con queste aziende si scopre la mancanza di adozione di standard, di regole che definiscano le strutture dati, la quantità di errori, la mancanza di dataset in grado di fare una copertura globale dell’Italia, ed anche la totale assenza di dati in molti settori.
Questo aspetto fa riflettere molto ed è questa, molto probabilmente, l’azione su cui si dovrebbe sviluppare di più una strategia open data. La strategia però non deve cadere nella miopia di creare bandi di finanziamento che vanno a chiedere di sviluppare applicazioni basate su open data senza andare a fare una pre-analisi di cosa si sta offrendo.
Purtroppo questo aspetto spesso lo si dimentica eppure, la saggezza popolare dei proverbi ci ricorda che “chi semina buon grano, ha poi buon pane”. Sembra una banalità, ma se il fine deve essere quello di far crescere, la pubblicazione dei dati deve essere guidata nella direzione di avere qualità: meglio pochi ma buoni che troppi e malfatti.
Guardando in positivo possiamo dire che aprire dati non è diventato più un problema, e dobbiamo ringraziare poi quelle realtà (ancora a macchia di leopardo sullo Stivale) che stanno portando iniziative come concorsi, corsi di formazione, stimoli al riuso che però, purtroppo, rimangono isolati nei territorio.
L’open data deve essere un mezzo e non un fine, e, invece, quello che stiamo assistendo è ancora una inutile corsa ad aprire quantità di dati senza andare a ragionare invece sui processi e sul loro riuso.
Abbiamo ancora grandi opportunità, non bisogna mollare, ma certo, quando i risultati sono pochi, l’entusiasmo si perde. Il rischio è che se andremo avanti in questa direzione i costi dell’apertura dei dati saranno troppo alti.