PA Social è la risposta. Ma quale è la domanda?

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Dato per scontato che la PA del 2016 deve stare sui social, chiediamoci perché. Tra il basilare e sempre valido “catching up with the people” (ovvero stai dove stanno le persone) e la creazione di un servizio collaborativo di comunicazione pubblica, c’è di mezzo la PA che vogliamo sui social come sui territori.

20 Luglio 2016

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Chiara Buongiovanni

Partiamo dai fondamentali. Dalle basi della psicologia dei nuovi media all’esperienza di tutti noi emerge che non tutte le tecnologie sono un “mezzo” e nel momento stesso in cui lo diventano sono sempre e comunque un mezzo “situato”. In sintesi, ciò che rende la tecnologia un mezzo è la sua utilità in un dato contesto. Quando parliamo di PA Social parliamo della presenza e (si spera) dell’utilizzo dei social media da parte della pubblica amministrazione.
Dunque, prima domanda: nel contesto di riferimento della comunicazione pubblica, i social sono un mezzo per fare cosa?

Social media nella PA: un mezzo per fare cosa?
I social media rispondono alla funzione di mettere in relazione e condividere. Punto centrale: non possiamo pensare ai social media senza tenere conto della loro funzionalità. In particolare, i social media permettono alla PA di creare un nuovo ecosistema di relazioni da attivare e sviluppare su una serie di dimensioni: la dimensione peer to peer (orizzontale o tra pari, per cui non c’è solo la PA che parla a molti o il singolo cittadino che parla alla PA ma ci sono anche i cittadini che “parlano tra loro” e con la PA); la dimensione quotidiana (per cui i social sono un luogo da abitare costantemente); le conversazioni, non solo da presidiare ma da abilitare e a cui partecipare; le interconnessioni tra comunità differenti (chi frequenta un ambiente social ne frequenta anche altri entrando in relazione con diverse comunità e gruppi).

Se la PA Social è una piattaforma
I social media sono e funzionano come delle piattaforme, non sono canali monodirezionali né bidirezionali. Parafrasando Simone Cicero e il suo ragionamento sul Platform Design, se una piattaforma è un mezzo che ci permette di offrire supporto alla generazione, estrazione e scambio di valore, la presenza della PA sui social dovrebbe essere orientata ad abilitare specifici “flussi di valore”. Se questo sembra appropriato in ambito market dovrebbe esserlo ancora di più se riferito alla comunicazione pubblica, attività giustificata nella misura in cui genera valore (altrimenti spreco di risorse pubbliche).

Dunque cosa ci garantisce che la PA social sia orientata alla creazione di valore e non alla mera promozione del politico di turno o a un maquillage generazionale dell’organizzazione? Ci aiuta a rispondere Luca Zanelli, del team Comunicazione Pubblica e Social Media del Comune di Bologna, in arte @CapitanAchab. “Parlando di comunicazione pubblica è indiscusso – conferma Luca – che “PA Social” sia un termine acquisito ma è altrettanto innegabile che le pratiche non sono ancora abbastanza diffuse e anche sui profili attivi delle pubbliche amministrazioni, facendo riferimento soprattutto a Twitter e Facebook, c’è ancora molto da interrogarsi sul senso e sulle modalità di comunicare e interagire”.

La PA Social non è uno posto per politici
“A livello centrale – continua Luca Zanelli – sento di poter affermare da cittadino e professionista che, tranne in rarissimi casi, i social dei Ministeri funzionano praticamente come profili dei Ministri. Per capire cosa intendo basti pensare al caso, per me un vero e proprio “epic fail”, dell’account della Farnesina durante gli attacchi terroristici di Parigi: mentre tutte le ambasciate europee davano informazioni utili il primo tweet della Farnesina riguardava la dichiarazione del Ministro Gentiloni sugli attentati. A livello regionale la commistione tra politico e amministrativo è ancora abbastanza forte, mentre incide decisamente meno nei Comuni. Forse perché più vicini ai cittadini, gli enti locali sui social assolvono maggiormente la funzione di comunicazione pubblica”.

A quanto pare due i principali rischi a cui la retorica dominante della PA Social può esporre le amministrazioni: adottare un modello orientato alla propaganda più che al servizio; isolare la comunicazione social dal resto della comunicazione pubblica dell’ente.

In particolare sul secondo punto, Luca sottolinea il rischio di rendere la presenza sui social una mera operazione di svecchiamento di immagine e linguaggi della PA. “Non a caso – sottolinea – spesso si tende a valutare la giovane età del Social Media Manager come un requisito positivo di-per-sé, sottovalutando la competenza di saper integrare la comunicazione social all’interno di una strategia di comunicazione pubblica complessiva e dunque collegarla all’intera organizzazione e operatività dell’ente”. Bene ricordare, infatti, che non può esistere un PA Social che funzioni in una PA che non funziona.

La PA Social non è un lavoro da smanettoni
Chi dunque potrà salvare la PA Social dalla retorica della PA Social? Per Luca Zanelli, il compito spetta alla dirigenza, avendo ben chiari gli obiettivi della legge 150/2000 e del CAD e avendo gli strumenti per connettere la comunicazione social con la complessità dell’organizzazione retrostante. La mancanza di connessione con la complessità retrostante è del resto ben evidente nella gran parte delle situazioni di emergenza, tema di lavoro privilegiato per Luca e il suo team.

“Il punto centrale – sostiene Luca – è che la PA Social è un servizio. Perché funzioni è necessario lavorare al coinvolgimento massivo delle pubbliche amministrazioni, immaginando anche forme e programmi di tutoraggio tra le stesse PA. Ad esempio, mi domando in base a cosa la Questura di Taranto e quella di Treviso sono su Twitter mentre non c’è quella di Bologna? Alla fine è una volontà personale che determina o meno la presenza sui social e per me questo è inaccettabile”. In materia di sicurezza ed emergenze ambientali e non, il fatto che una Questura sia su Twitter o meno può fare la differenza anche per le altre amministrazioni. “Ad esempio – spiega – se la Questura di Genova non fosse su Twitter, in caso di emergenza il Comune dovrebbe prima o poi farsi carico di veicolare informazioni con fonte Questura, senza avere un ritorno con la Questura stessa”. “In questo – continua – è esemplare il sistema anglosassone, dove dalla FBI al 911 le agenzie pubbliche sono tutte presenti nell’ecosistema social, pronte ad interagire con i cittadini e tra loro”.

Quello della compresenza delle amministrazioni sui social è un tema evidentemente centrale per costruire una rete che funzioni in termini di servizio di comunicazione pubblica, altrimenti il rischio è di avere una serie di esperienze spot e molto parziali.

La PA Social non è un’azione di svecchiamento della PA
“Ad oggi – conclude Luca – è finito il tempo iniziale della sperimentazione, tempo in cui le aspettative erano ovviamente più elementari. Sono molto più evidenti le critiche e le contraddizioni, perché i sistemi diventano maturi ma non è matura l’organizzazione. Non è un caso che, tornando alle emergenze e ai tragici fatti della scorsa settimana in Puglia, la governance della gestione dell‘emergenza sui social, in questo caso in particolare su Twitter, si muova primariamente a livello orizzontale, partendo e diffondendosi attraverso account di cittadini o organizzazioni della società civile”.

Chi scrive la grammatica della PA Social?
“Il disastro ferroviario in Puglia – afferma Luca – ha dimostrato che potrebbe servire una mini grammatica per disastri non ambientali”. In questo ambito sono diverse le posizioni perché c’è chi sostiene che dovrebbe essere l’istituzione a prendere in mano la situazione e avviare la comunicazione di emergenza sui social.
“Il mio approccio – continua – è un po’ diverso, perché di fatto sui media sociali il confine non c’è e il tempo è pressoché istantaneo, ancora di più quando si tratta di emergenze. Secondo elemento da considerare: sui social la PA deve essere abbastanza autorevole per avere la regia, in Italia ancora non è così”.

A quanto pare la PA social rende ben evidente il ridisegno dei confini, fino allo sconfinamento vero e proprio, tra amministrazione e cittadini in rete rispetto ai modelli tradizionali, richiamando per dei versi il modello dell’amministrazione condivisa e (più recente) quello della PA collaborativa. Alla domanda iniziale possiamo rispondere con una nuova domanda di lavoro: se considerassimo la PA social un servizio collaborativo di comunicazione pubblica cosa succederebbe?

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