Patrimonio immobiliare: non solo dismissione
Quale impatto avrà la nuova normativa in materia di valorizzazione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico? Lo abbiamo chiesto a Silvano Curcio, Direttore generale di Terotec, e docente di Processi e metodi della manutenzione edilizia e urbana presso l’Università Federico II di Napoli.
11 Novembre 2008
Quale impatto avrà la nuova normativa in materia di valorizzazione e alienazione del patrimonio immobiliare pubblico? Lo abbiamo chiesto a Silvano Curcio, Direttore generale di Terotec, e docente di Processi e metodi della manutenzione edilizia e urbana presso l’Università Federico II di Napoli.
“In termini di gestione del patrimonio immobiliare pubblico la dismissione è una strategia, ma non può essere l’unica. Accanto ad essa deve esserci anche una logica di gestione più ampia, nell’ottica del facility management, della manutenzione, della salvaguardia, o anche della valorizzazione con la copartecipazione di altri soggetti secondo logiche innovative”. A mettere l’accento su questo aspetto è Silvano Curcio, architetto, Direttore generale di Terotec, docente di “Processi e metodi della manutenzione edilizia e urbana” presso l’Università Federico II di Napoli. A lui abbiamo chiesto un commento sull’articolo 58, “Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Comuni ed altri Enti locali”, del Decreto legge 112/2008 (convertito dalla legge 133/2008, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 21 agosto 2008, n. 195) e sul reale impatto che questo potrà avere sulla gestione dei patrimoni immobiliari pubblici e sullo sviluppo dei territori. Ne viene fuori una descrizione alquanto critica sullo spirito della norma e sugli effetti che potrebbe sortire.
“Direi che la lettura stessa della norma fa nascere per lo meno dei quesiti, degli interrogativi – sottolinea Silvano Curcio -. È vero che il titolo è ‘Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare degli Enti locali’, però poi, se si va a vedere dentro lo scritto dei commi, emerge come l’articolo 58 sia finalizzato quasi esclusivamente alla dismissione. La lettura in particolare del comma 2 è significativa: non si parla di processi di ricognizione e censimento dei beni immobili degli Enti locali tesi ad incentivare logiche di programmazione, di gestione in senso lato, di valorizzazione, comprensivi anche dell’eventuale dismissione. C’è una distorsione, una forzatura rispetto al titolo dell’articolo. Io sono favorevole a qualsiasi processo che avvii iniziative di conoscenza del patrimonio, però i giochi devono essere chiari, motivati e inseriti in una logica di approccio generale, ponendosi problemi di strategia, di programmazione”.
Che una parte del patrimonio degli Enti locali versi in stato di abbandono, o non sia più adatto ad un uso istituzionale, e che le casse degli Enti locali siano in una situazione critica, per cui il patrimonio immobiliare finisce per essere una delle poche fonti di entrate (se non l’unica), sono fatti riconosciuti da Silvano Curcio. Il quale, tuttavia, tiene a sottolineare: “Anche se è vero che la situazione economica delle casse pubbliche è allo stremo, la logica da banco dei pegni, secondo cui il patrimonio immobiliare può essere visto come argenteria da liquidare per fare cassa, è una logica distorta. Fino ad oggi le esperienze di valorizzazione/dismissione del patrimonio immobiliare, sia a livello centrale che locale, sono state fallimentari proprio perché gestite con il solo obiettivo di fare cassa. A fronte di un patrimonio male utilizzato, la dismissione è una delle possibili strategie e non va criminalizzata. Ma non può essere l’unica. Va inserita, invece, in processi più corretti e organici di approccio al patrimonio immobiliare, che partono per forza di cose dalla conoscenza. La ricognizione, il censimento, l’anagrafica e, quindi, la conoscenza del patrimonio immobiliare, sono la conditio sine qua non per la gestione tout court del patrimonio immobiliare, non solo per la sua alienazione, ma anche per la sua valorizzazione”.
Proprio sull’importanza della conoscenza si sofferma Silvano Curcio: “Senza conoscenza come si può mettere in atto un’opera di gestione e valorizzazione mirata? Anche qui, come in ogni settore, se si conosce si può programmare, pianificare, decidere strategie. Per questo, ripeto, mi sembra un forte limite il fatto che la norma finalizzi la conoscenza, che dovrebbe essere un processo diffuso, quasi esclusivamente alla dismissione. A livello di conoscenza, comunque, siamo ancora molto indietro: si pensi che solo lo scorso anno è stato ultimato il primo censimento dei beni di proprietà dello Stato (non degli enti locali!) da parte dell’Agenzia del Demanio. Ecco un altro motivo dell’insuccesso delle passate e presenti operazioni di cartolarizzazione dei patrimoni immobiliari: se uno non conosce non può sapere neanche il valore di mercato del proprio patrimonio. Ed ecco, quindi, le svendite. In realtà questa nuova norma potrebbe essere una sorta di specifica di un obbligo già esistente per gli enti locali, che nei bilanci dovrebbero inserire un censimento per lo meno quantitativo del proprio patrimonio. Un sistema introdotto alcuni anni fa con la riforma dei bilanci degli Enti pubblici, ma che non si è ancora consolidato né nella cultura né nella pratica”.
Un’ulteriore questione sollevata da Curcio è quella delle strumentazioni. Sono in grado gli Enti locali di fare un certo tipo di attività? Ci sono le competenze per attivare dei censimenti e come vengono fatti? Una questione non secondaria, in un contesto in cui gli uffici tecnici delle amministrazioni appaiono sottodimensionati e già oberati da numerose incombenze.
A questo punto chiediamo a Silvano Curcio una valutazione conclusiva, che ci offra una prospettiva di scenario. Viste le premesse, naturalmente la visione non è molto ottimista: “Quello che vedo è una corsa a fare cassa. Una finalità, forse l’unica, del decreto è quella di proceduralizzare certe situazioni, per evitare incongruenze o situazioni di sottostima e gli Enti locali troveranno pane per i loro denti in queste forme di semplificazione. Ad esempio, con la nuova norma l’inserimento nel Piano determina per il bene la classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone la destinazione urbanistica. E, visto che da sempre il cambiamento di destinazione d’uso è considerato come una delle procedure più complesse, ora che c’è lo strumento per scardinare questo castello procedurale, credo che tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal colore politico, faranno uso di questo ‘grimaldello’ pensando di risolvere i loro problemi. In realtà io credo che le politiche serie di gestione debbano essere fatte a tutto tondo. Al piano di dismissione si dovrebbe affiancare, ad esempio, un piano di manutenzione programmata e di riqualificazione su alcuni tipi di immobili. Pensiamo al patrimonio scolastico e ospedaliero, che in alcuni casi presenta un elevato livello di degrado e obsolescenza. In una logica del genere, con una seria programmazione, il sacrificio dell’alienazione di una parte del patrimonio potrebbe essere finalizzato al recupero di un’altra parte”.