Perchè fallisce l’e-Government

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by Cindy Seigle

Dopo l’editoriale dello scorso numero della nostra newsletter “PA digitale chi l’ha vista?”, che riprendeva i temi dell’innovazione tecnologica “dimenticata” nel nostro Paese abbiamo pensato che fosse utile ed interessante ripercorrere le tappe di questa “non-riforma” con Alessandro Osnaghi, oggi docente presso l’università di Pavia.
Il professor Osnaghi è uno dei “padri” dell’e-Gov italiano, a partire dalle prime riforme Bassanini, e, al tempo stesso, uno dei più amari critici del percorso intrapreso in questi dieci anni, che ha visto come un’opportunità sprecata.

23 Settembre 2008

D

Tommaso Del Lungo

Articolo FPA
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by Cindy Seigle

Dopo l’editoriale dello scorso numero della nostra newsletter “PA digitale chi l’ha vista?”, che riprendeva i temi dell’innovazione tecnologica “dimenticata” nel nostro Paese abbiamo pensato che fosse utile ed interessante ripercorrere le tappe di questa “non-riforma” con Alessandro Osnaghi, oggi docente presso l’università di Pavia.
Il professor Osnaghi è uno dei “padri” dell’e-Gov italiano, a partire dalle prime riforme Bassanini, e, al tempo stesso, uno dei più amari critici del percorso intrapreso in questi dieci anni, che ha visto come un’opportunità sprecata.

L’occasione ce l’ha offerta un suo interessantissimo commento proprio all’editoriale del 17 settembre scorso.

Professor Osnaghi ci può aiutare a riassumere rapidamente le vicende dell’e-Gov italiano e le motivazioni del suo insuccesso?

Se volessimo riassumere con pochissime parole, potremmo dire che durante il periodo del Ministro Stanca – che è quello che coincide con la massima attenzione ai temi di quello che chiamiamo e-Government – i fondi messi a disposizione con il Piano del 2000 sono stati utilizzati seguendo un’impostazione nettamente diversa da quella originariamente pensata. I massimi sforzi si sono concentrati su progetti che riguardavano l’erogazione di servizi on line, mentre a leggere il Piano originale, bisognava lavorare sull’integrazione tra sistemi.

Quindi lo sbaglio è stato puntare sui servizi, invece che sul back office?

Chiunque segua l’evoluzione di internet sa che erogare servizi on line è il naturale obiettivo di qualunque soggetto che sceglie di “posizionarsi” in rete. A mio avviso, quindi, anche se con lentezza, le amministrazioni pubbliche, in particolare quelle locali, avrebbero realizzato i servizi on line con fondi propri. Non bisogna dimenticare, infatti, che i servizi on line contribuiscono ad offrire un’immagine positiva degli amministratori. Sarebbe stato nel loro interesse, quindi, offrirli ai cittadini, prima o poi, mettendo a frutto le proprie risorse locali.
Per questo, quella enorme disponibilità di fondi extra avrebbe dovuto essere utilizzata per interventi tecnici ed organizzativi di natura infrastrutturale che, non avendo ricadute di immagine, difficilmente sarebbero stati sponsorizzati dalle amministrazioni pubbliche, in particolare le locali.
Tutto ciò non lo dico io, ma il Piano del 2000 che prevedeva già che bisognasse finanziare l’integrazione tra le amministrazioni e, quindi, l’accesso alle basi dati ed ai servizi reciproci: in linguaggio tecnico il B2B piuttosto che il C2B e gli opportuni interventi sul back office senza dei quali peraltro i servizi che è possibile erogare ai cittadini sono molto limitati.

Quindi finiti i soldi finito l’interesse?

Non è stata solo una questione di soldi. È tutta l’impostazione ad essere stata completamente sbagliata. Questo tipo di impostazione, tipicamente italiana, basata sull’eterna concertazione e sul mettere d’accordo tutti ad ogni costo, che è poi quella che ha scelto di premiare le aggregazioni di enti: tanto più numerose erano tanto più il loro progetto veniva valutato.
Ora a parte la difficoltà di riuscire a tenere insieme amministrazioni di diverso colore politico – e in progetti come People, di cui mi sono occupato personalmente, i Comuni coinvolti erano più di 50 – il punto è che non si è pensato a dare a queste aggregazioni una garanzia di vita: terminato il progetto tecnico e i finanziamenti connessi, finiva anche l’aggregazione. Con la tragica conseguenza che tutto quello che era stato realizzato veniva abbandonato a se stesso. I risultati di questi progetti finanziati per milioni di euro, quindi, sono stati raramente messi in esercizio o riusati, perché quale ente oculato metterebbe in esercizio un software che non ha una struttura di supporto, che non viene aggiornato o che non garantisce assistenza? Alla fine dei progetti, quindi, qualcuno ha utilizzato qualcosa per conto suo, ma il risultato complessivo è scomparso.

Quale avrebbe dovuto essere, allora, una chiave di sostenibilità?

Ad esempio si sarebbe dovuto prevedere la necessità di finanziare, non solo il progetto, ma anche un primo periodo di esercizio, un costo che, invece, è stato completamente sottovalutato dal bando.
Una seconda chiave avrebbe potuto essere messa in moto quando è partito il secondo bando legato al riuso delle soluzioni realizzate. Ad esempio si sarebbero potuto individuare i due o tre progetti eccellenti, con valenza nazionale e che avevano caratteristiche esportabili, e sostenere la loro diffusione, finanziandone il supporto, la manutenzione e, soprattutto, l’evoluzione e l’aggiornamento. Nella realtà, invece, tutta la faccenda del riuso è stata gestita in maniera assolutamente inadatta, certamente anche per colpa del cambio di legislatura. Le indicazioni politiche sono cambiate diverse volte, ci sono stati tanti annunci, tantissime promesse, qualche iniziativa, molto poco strategica, e nessun risultato.

Passata questa fase di “facciata”, sembra però che ora l’attenzione sia realmente rivolta all’integrazione!

Sono piuttosto pessimista e mi sembra che i pochi temi rimasti in piedi siano, per lo più, slogan politici. Pensi ad esempio all’integrazione tra le banche dati, un concetto citato spessissimo dai politici, ma che in termini tecnici non vuol dire nulla. Quando questa terminologia inesatta diviene norma, si scrive una legge che nessuno applica perché non si sa cosa vuol dire. Il tema della integrazione delle banche dati (meglio dei servizi) è un tema legato alla semplificazione dei procedimenti amministrativi e in molti casi anche alla privacy, se non si dice quali basi dati devono essere integrate e per quale procedimento il termine è privo di significato.
Il modo tecnico per tradurre dalla terminologia politica “l’integrazione delle banche dati” è la cosiddetta cooperazione applicativa, ovvero la possibilità di accesso da parte di un’amministrazione ai dati ed ai servizi di altre amministrazioni. Uno dei temi più critici al riguardo è l’accesso alle basi dati demografiche dei Comuni da parte di altre amministrazioni procedenti. Sembra impossibile che, nonostante la legge lo consenta da anni, il Ministero dell’Interno continui a frapporre ostacoli alla realizzazione di servizi di questa natura che, oltre a realizzare una completa decertificazione (che si risolve solo in parte con l’autocertificazione) consentirebbe di dare una soluzione a numerosi problemi di natura sistemica. Si pensi al caso della Sanità dove è tuttora impedita, apparentemente solo per questioni di puntiglio, la realizzazione delle anagrafi sanitarie regionali e soprattutto il loro aggiornamento diretto da parte dei Comuni, come se un ente che ha titolo a gestire un servizio non abbia diritto di sapere quali sono gli utenti dello stesso servizio e di mantenerne aggiornato l’elenco a fronte di variazioni anagrafiche.

C’è il Sistema Pubblico di Connettività e Cooperazione!

Certo c’è l’SPC. Lì, però, quello che manca mi sembra sia il meccanismo impositivo che chiami tutte le amministrazioni non solo a connettersi fisicamente alla rete SPC, ma soprattutto a mettere i propri dati a disposizione. Il punto più desolante è che non esiste un piano, nemmeno a lunghissimo termine, in cui si possano leggere gli obiettivi concreti da raggiungere per le amministrazioni. Il cambiamento si crea se si riescono a mettere in pratica progetti e programmi di lungo periodo che si traducono in azioni e passaggi concreti. Continuare a parlare di “integrazioni delle anagrafi” è inutile. Vogliamo sapere quali anagrafi dobbiamo integrare e in quali tempi, come fanno ad esempio  i Comuni a realizzare questo obiettivo, quali servizi queste amministrazioni devono erogare e quando e quali sono le sanzioni per chi non lo fa. Qui manca proprio la strada.

È in questo quadro desolato e desolante quindi che si inserisce il suo commento “amaro” sulla CIE che ha lasciato sul nostro sito!

Di fatto la CIE è l’esempio paradigmatico dell’assoluta difficoltà, per non dire incapacità, di fare qualunque cosa di un po’ complesso e di natura sistemica in Italia.
Il progetto CIE, così come è oggi, è  sostanzialmente identico a quello proposto all’epoca di Bassanini dieci anni fa. Ma in questi dieci anni le tecnologie si sono sviluppate e sono state pensate altre procedure di autenticazione ugualmente efficaci e ragionevolmente sicure. Pensi alle banche, o alle credenziali di autenticazione sviluppate dal progetto People, che alcuni Comuni, tra cui Roma, già utilizzano, o alle credenziali del Ministero delle Finanze, nessuna di queste prevede smart card, eppure la politica è rimasta ancorata allo slogan CIE. Da Bassanini in poi tutti i Governi hanno inserito la CIE nei loro programmi elettorali. L’ultimo non lo ha ancora fatto e spero che il provvedimento che allunga la validità della carta di identità cartacea da 5 a 10 anni segni davvero la fine di questo progetto ormai vecchio e superato. Naturalmente se si riesce a trasformare la carta di identità cartacea in uno strumento di identificazione personale solo ai fini di pubblica sicurezza (non per l’accesso in rete) saremo tutti più contenti. In fondo quello che è stato fatto con il passaporto elettronico su pressioni esterne potrebbe essere fatto anche per la Carta di Identità elettronica.

Lei ha criticato anche l’utilizzo della smart card come strumento di accesso ai servizi. Perché?

È il concetto stesso di smart card ad essere superato tecnologicamente come strumento di accesso in rete attraverso un browser.  La tecnologia smart card è stata pensata per accedere a servizi erogati da stazioni fisse, fornite da un gestore unico (tornelli, mense etc), non per il computer di casa sul quale ciascuno installa le soluzioni che più gli piacciono. Esistono problemi di incompatibilità di software che si sono rivelati insuperabili, o meglio, che si possono superare solo con l’affermazione di standard almeno nazionali. Dato che niente del genere è stato fatto, mi aspetterei che ci si accorga del fallimento e si abbandoni il tutto. E invece no, si rimane attaccati alle bandiere politiche senza cognizione di causa su quello che c’è dietro. Le norme del CAD, ad esempio, impongono l’uso della CIE o della CNS per l’accesso a qualunque tipo di servizio in rete via internet, senza tener conto del fatto che così non è possibile, in generale, rispettare gli standard sull’accessibilità. Il problema qui non è quello di diffondere più carte, ma di cambiare l’articolo del CAD!
L’e-Government fallisce per queste cose. Cioè perché non si conoscono i problemi, né si sa come risolverli, oppure perché per risolvere un problema tecnico si chiede il concerto politico di decine di amministrazioni.

Quindi per invertire la tendenza occorrerebbe tornare alle indicazioni del 2000?

Le cose da fare per impostare nel Paese un cambiamento serio, fondato sull’innovazione tecnologica, dette nel 2000, sono state a parole ripetute da tutti i governi successivi e riproposte nei lavori di centri studi come Astrid  che a suo tempo aveva prodotto un documento che riportava una serie di proposte al Governo Prodi su come procedere. Sono tutte cose ancora assolutamente valide. Da 10 anni a questa parte, infatti, le cose non sono cambiate, dato che, per quanto riguarda l’e-Gov, non si è fatto nemmeno un piccolo passo avanti e si sono portate avanti bandiere politiche senza una vera visione sistemica e progettuale.
 

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