Quando il vino non è questione di gomito alzato, ma piuttosto di messa all’indice
Le recenti polemiche sul divieto dell’uso dei telefono esterni da parte dei dipendenti della pubblica amministrazione mi ha fatto tornare alla mente, per assonanza e similitudine in termini di “proibizione”, un episodio che mi è stato raccontato qualche tempo fa. Il palcoscenico è quello della Regione Lazio, istituzione che non per la prima volta prende decisioni discutibili rispetto al bisogno ineludibile di una comunicazione pubblica che deve mostrarsi moderna e al passo con i tempi: concetti che la PA nostrana – anche localmente – tarda e ritarda a metabolizzare.
26 Giugno 2012
Tiziano Marelli
Le recenti polemiche sul divieto dell’uso dei telefoni esterni da parte dei dipendenti della pubblica amministrazione – provvedimento che nel giro di poche ore, quasi da copione, si è prestato anche a fraintendimenti, precisazioni, smentite e conferme – mi ha fatto tornare alla mente per quasi assonanza e similitudine – un episodio che mi è stato raccontato da un collega e amico, qualche tempo fa. Il palcoscenico è quello della Regione Lazio, che non per la prima volta prende decisioni discutibili rispetto al bisogno ineludibile di una comunicazione pubblica che deve mostrarsi moderna e al passo con i tempi: concetti che la PA nostrana – in grande parte, nel suo complesso – tarda e ritarda a metabolizzare.
Del resto, ricordo personalmente e perfettamente, ad esempio, che nella sede regionale centrale (è a Roma, sulla via Cristoforo Colombo) le telefonate esterne, ai livelli più bassi, da epoca ormai remota non erano possibili nemmeno nell’ambito urbano per chi non era ritenuto necessitato a farne, ed era quindi abilitato solo al digitare di numeri interni (la situazione cambiava salendo di livello, fino alle intercontinentali, permesse – e ci mancherebbe – a quello massimo). Ancora, ricordo che uno dei primi provvedimenti presi dalla nuova governatrice è stato quello di bloccare l’accesso a tutti i social network agli stessi dipendenti di basso e medio… profilo – salvo mantenerlo per sé, per gli assessori, le loro segreterie e i consiglieri tutti, fra l’altro tutta élite alla quale è naturalmente concesso anche l’onore di una presenza ufficiale su Facebook. Invece che ritenere una ricchezza questa possibilità e sfruttarla nel migliore dei modi, la permanenza in rete indiscriminata con possibilità di connessione a quelli che ormai vengono abitualmente definiti (anche nella PA: a tal proposito consiglio la lettura, per chi ancora non la conoscesse, dei risultati della ricerca specifica compiuta ultimamente da Giovanni Arata) social media network, è considerata solo una mera perdita di tempo (e, di conseguenza, anche di produttività).
Ma l’episodio che voglio citare è diverso, e davvero – almeno per me – emblematico. Dunque, la Regione Lazio ha imposto da tempo un “filtro” ad una serie di parole-chiave che, se digitate su Google, venivano automaticamente bloccate dai responsabili del server. Regina di tutte queste “male parole” è naturalmente “sex”, con tutte le possibili assonanze e similitudini che potevano scaturirne. Non era l’unica, ma che fra quelle messe all’indice ci potesse essere anche “vino” il collega che citavo all’inizio lo ha scoperto solo quando ha dovuto procedere ad una ricerca per acquisire informazioni utili alla partecipazione della Regione Lazio all’ultimo Vinitaly, che si è svolto a Verona alla fine dello scorso mese di marzo.
Non credendo ai propri occhi e pensando anzitutto ad un errore, il testardo e pugnace comunicatore ha riprovato e riprovato a digitare le poche sillabe occorrenti alla composizione del vocabolo sulla tastiera, finché ha capito cosa poteva determinare l’impasse, chiesto quindi lumi ed ottenuto purtroppo conferma: la parola era considerata fuorviante e pericolosa, utile allo “svago” dei dipendenti laziali tutti della Regione, e per questa esclusa dalle possibili e preziose (in questo caso) informazioni che il più famoso motore di ricerca mondiale poteva rilasciare in tempo reale su un argomento stringente e al contrario utilissimo nel frangente specifico.
A questo punto, al reprobo restavano solo due possibilità (escludendone una terza: lasciar perdere e farsi gli affari propri, come succede spesso e puntualmente quando un dipendente della PA trova ostacoli sul suo cammino che non ha interesse più di tanto a superare): chiedere di poter accedere a Google da uno dei pc “liberi” da filtri ed esclusioni (quindi rivolgendosi ad una segreteria o all’ufficio di un assessore, se non all’assessore stesso) oppure “portarsi il lavoro a casa” per poi caricare l’occorrente in una chiavetta usb e riportare il tutto di utile acquisito in ufficio, dove a questo punto il divieto sarebbe risultato inutile. Per amor di colleganza e amicizia lascio a voi lettori libertà di pensiero nell’immaginare quale sia stata la decisione presa, tenendo in conto anche bazzecole da anime candide come quelle che possono sollevare termini del tipo “dignità” e “rispetto”, e invece quello che voglio porre è un altro, di quesito: certe cose le studiano apposta o vengono fuori così, spontaneamente, dal cilindro della lungimiranza di chi ci governa, anche localmente?
Lascio abbondantemente tutto il tempo che ci vuole per immaginare e formulare una risposta, e inganno l’attesa brindando (virtualmente: ci sta, nel caso) alla modernità di qualche istituzione illuminata capace di fornire materiale che per fortuna (o sfortuna? Mah…) alla scrittura di un PAssepartout non manca mai.
Naturalmente, il brindisi è a base di acqua minerale o, al massimo, aranciata: non sia mai che qualcuno abbia da ridire se digito che mi accingo a farlo a sorsi di vino.
Al sol pensarci, un blocco totale/all’istante mi assale.