EDITORIALE
Quale cittadino digitale vogliamo? Proviamo a rispondere a #forumpa2016
Lo SPID, il Codice per l’Amministrazione Digitale, il domicilio
digitale, così come il più ampio CAD, configurano un nuovo tipo di rapporto tra
PA e cittadini e creano nuove forme di cittadinanza, quella digitale. Ma è la
direzione giusta? Sicuramente la realizzazione dei progetti in corso è una
condizione necessaria per modernizzare la nostra PA ma, se si riflette sulla
strada percorsa, non si può non concludere che le azioni messe in cantiere non
sono sufficienti per dare al nostro paese gli strumenti necessari per
rispondere completamente ai bisogni delle famiglie e delle imprese.
20 Aprile 2016
Gianni Dominici
Cerco di procedere con ordine. Il programma di digitalizzazione in corso è indispensabile, non solo formalmente, per risalire la tragica posizione in cui si trova l’Italia nelle classifiche internazionali (quart’ultima nel famigerato indice Desi della Commissione europea) ma anche per assicurare a tutti noi cittadini un miglior rapporto con i servizi erogati dalle amministrazioni alle quali ci riferiamo. La creazione di un’identità unica con cui accedere ai diversi servizi della PA (SPID), la possibilità di pagare in modalità elettronica i servizi pubblici (Pago PA), la realizzazione dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione residente, tanto per citarne alcuni, rappresenteranno, un volta a regime, un passo decisivo di modernizzazione dei servizi della nostra PA in grado di renderli più efficaci, più economici e più vicini al cittadino raggiungendo così degli standard di servizio paragonabili a quelli di altri paesi europei. Sullo stato dell’arte dei diversi processi in corso daremo molto spazio all’interno del prossimo FORUM PA (Roma, 24-26 maggio 2016), convinti della necessità di valorizzare le diverse soluzioni già operative affinché si diffondano sempre di più.
Passi importanti quindi ma che, come scrivevo in apertura, probabilmente non bastano. Non bastano in termini operativi, perché è sempre più evidente come la tecnologia sia uno strumento formidabile nel momento in cui la modernizzazione è sostenuta anche da iniziative di natura culturale e organizzativa. È difficile, ad esempio, pensare a un miglioramento dei rapporti con i cittadini senza un forte processo di “empowerment” dei funzionari pubblici, ottenuto rafforzando le capacità istituzionali ed organizzative dei diversi enti. I nostri dipendenti pubblici hanno un’età media che è la più alta di Europa e per via della dissennata politica dei tagli lineari non hanno più accesso a strumenti di aggiornamento e di formazione (mediamente un funzionario pubblico italiano ha accesso a mezza giornata di formazione all’anno contro le 7-8 dei colleghi francesi o inglesi). Ogni anno decine e decine di dipendenti pubblici ci scrivono riferendoci che hanno preso un giorno di ferie e viaggiato a proprie spese per partecipare al nostro FORUM PA e accedere così a migliaia di ore di formazione e aggiornamento gratuito mettendo a punto percorsi formativi individuali per non rimanere indietro con i cambiamenti. Senza un processo di empowerment l’innovazione rischia di essere vissuta come un ulteriore adempimento e non come un’occasione di crescita individuale e collettiva[1].
Ma c’è un altro motivo per cui questi importanti processi avviati rischiano di non essere sufficienti a supportare il percorso di modernizzazione della PA, motivo che è riconducibile alla concezione stessa di PA che ne è alla base. I progetti in corso vanno a razionalizzare una amministrazione che, nella sua forma e funzione attuale, non è più in grado di rispondere ai bisogni sempre più complessi delle famiglie e dei cittadini. Citiamo spesso il discorso del 2011 di Obama alla nazione in cui diceva “Non si può affrontare il futuro con una PA del passato”. E se questo è vero per gli USA è tanto più vero da noi. La PA attuale è figlia di un concezione bipolare nei confronti dei cittadini che, di volta in volta, sono trattati come utenti, clienti, pazienti. In un interessante libro di Gavin Newsom, ex sindaco di San Francisco, viene citata la metafora per cui la PA è paragonata ad un distributore automatico dove i cittadini inseriscono i soldi (le tasse) per ricevere i diversi prodotti/servizi. Come succede nella vita di tutti i giorni, se per qualche motivo il distributore non eroga il prodotto, viene scosso e preso a calci[2]. È evidente che ci dobbiamo parametrare su un approccio completamente diverso che superi questa concezione bipolare.
Il rischio che stiamo correndo inseguendo l’indice Desi, infatti, è che non ci accorgiamo che il mondo sta cambiando radicalmente (basti pensare all’economia della condivisione, solo per isolare un fattore di cambiamento) e velocemente.
E allora non basta fare “fine tuning” dell’esistente, proporre una innovazione incrementale in grado di migliorare quello che già abbiamo, bisogna immaginare una nuova PA conseguenza, usando un termine in voga nei contesti aziendali, di una innovazione genetica, distruttiva.
E alla base di questa rivoluzione copernicana ci deve essere proprio il rapporto tra la PA e i cittadini e le imprese: non più da considerare come meri destinatari dell’azione pubblica ma come partner di un nuovo modo di gestire il bene comune. Non più, quindi, portatori di bisogni o di problemi ma anche di soluzioni e di competenze.
Dal punto di vista politico si tratta di superare il paradigma dell’e-government per abbracciare con convinzione e con coerenza quello dell’open government. Dal punto di vista operativo, il PON Governance, se ben utilizzato, può essere lo strumento principale per sostenere il cambiamento . Non sprechiamo anche questa occasione, potrebbe essere l’ultima.
[1] Come esempi, basti citare come in molte realtà istituzionali vengono interpretati gli open data o l’esempio specifico del servizio “Io Segnalo” del Comune di Roma. Un servizio tramite il quale i cittadini possono segnalare al Comando del Vigili problematicità di diversa natura (auto in doppia fila, passi carrabili bloccati, etc). Dopo alcuni mesi dal lancio, sulla rete si leggono in continuazione lamentele di cittadini che dicono di essere trattati spesso come dei rompiscatole.
[2] Gavin Newsom e Lisa Dickey, Citizenville: How to Take the Town Square Digital and Reinvent Government, Penguin Books, 2013, Edizione Kindle.