Una rete per città più sicure

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La Rete delle città intelligenti si incontra lunedì 18 aprile ad Ancona. Il tema centrale di questa terza giornata di lavori è il “governo con la rete” – tema che sarà anche al centro di FORUM PA 2011 – con un’attenzione particolare alla sicurezza urbana. Di questo aspetto così delicato – uno dei più sentiti dai cittadini, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni di criminalità comune – abbiamo parlato con Giorgio Pighi, sindaco di Modena e presidente del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana (FISU). Pighi ci ha anticipato alcune riflessioni che saranno oggetto del suo intervento nell’incontro di Ancona.

5 Aprile 2011

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Michela Stentella

Articolo FPA

La Rete delle città intelligenti si incontra lunedì 18 aprile ad Ancona. Il tema centrale di questa terza giornata di lavori è il “governo con la rete” – tema che sarà anche al centro di FORUM PA 2011 – con un’attenzione particolare alla sicurezza urbana. Di questo aspetto così delicato – uno dei più sentiti dai cittadini, soprattutto per quanto riguarda i fenomeni di criminalità comune – abbiamo parlato con Giorgio Pighi, sindaco di Modena e presidente del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana (FISU). Pighi ci ha anticipato alcune riflessioni che saranno oggetto del suo intervento nell’incontro di Ancona.

Prima di tutto, cosa intendiamo quando parliamo di città intelligenti dal punto di vista della sicurezza urbana?
Uno degli aspetti è senza dubbio la capacità di usare le tecnologie in funzione di una maggiore sicurezza e non parlo solo delle telecamere ma di tutte quelle tecnologie avanzate che ci aiutano a leggere i fenomeni criminali. C’è poi un altro aspetto, sempre di tipo tecnologico, che influenza la sicurezza ed è legato all’uso corretto di alcuni strumenti informatici, quali i bancomat (che devono avere certe caratteristiche di sicurezza) o i sistemi che consentono il controllo sugli spostamenti e il passaggio delle persone. All’estero si stanno sperimentando interi quartieri in grado di “leggere” automaticamente chi entra e chi esce, di determinare da quanto tempo è entrato e così via. Tuttavia si tratta di progetti pilota che, secondo me, difficilmente potranno diventare strumenti diffusi di sicurezza urbana, al massimo potrebbero essere utili in contesti quali gli aeroporti. C’è invece un altro aspetto molto importante: una città è intelligente quando, dal punto di vista dell’esposizione al rischio, non va per aggiustamenti successivi, ma cerca di organizzarsi prima che i rischi si manifestino tenendo conto di numerosi aspetti (le modalità con le quali si muovono i flussi di traffico, gli orari, l’organizzazione dei servizi di trasporto pubblico, la progettazione dei parcheggi e dei sottopassi). Queste sono città che pensano in maniera intelligente e che programmano la loro organizzazione affinché non nascano problemi di sicurezza, mettendo in campo anche l’urbanistica. Per esempio se creiamo quartieri in cui ci sono solo scuole, avremo ovviamente problemi di controllo nelle ore notturne.

Leggi gli editoriali di Carlo Mochi Sismondi sul tema delle città intelligenti

Quali sono i maggiori ostacoli a una gestione efficiente della sicurezza urbana e, in particolare, all’adozione di politiche integrate?
Ci sono aspetti economici, ma anche limiti normativi. Per quanto riguarda i primi, dal punto di vista degli enti locali pesa molto il fatto che dal patto di stabilità non siano escluse alcune aree della finanza locale. Questo fa nascere fenomeni paradossali per cui, per evitare che lo Stato sia impresentabile a Bruxelles dal punto di vista del debito pubblico, gli enti locali sono spesso costretti a fare scelte assolutamente diseconomiche e che non consentono modernizzazioni fondamentali. Faccio un esempio, anche se non ha a che fare col tema della sicurezza: nel mio Comune alcune sedi amministrative sono ancora in edifici in affitto, avremmo voluto intervenire, magari indebitandoci un po’, e invece non l’abbiamo potuto fare. La conseguenza è che abbiamo un tasso di indebitamento ridicolo, ma spendiamo di affitto molto più di quello che andremmo a spendere per fare questo investimento.

E dal punto di vista normativo?
Per esaminare questo aspetto bisogna partire dall’Europa dove, dagli anni novanta, assistiamo a due tendenze: la prima punta a un maggiore coinvolgimento di sindaci e amministrazioni comunali sul tema del disagio urbano; la seconda mira a creare nuove relazioni fra le attività ordinarie dei Comuni (pensiamo alla scuola, alla gioventù difficile, ai ritrovi per i giovani, all’organizzazione degli spazi urbani, alla gestione delle piccole inciviltà che non costituiscono reato) e le competenze proprie dello Stato, che sono principalmente di repressione attraverso le forze dell’ordine.
Queste due tendenze – nuovi poteri dei sindaci e nuova tensione al coordinamento tra i Comuni e lo Stato – hanno avuto sviluppi diversi nei singoli paesi. La Gran Bretagna, con il “Disorder Act” del 1998, ha puntato più sul “pugno duro”, su una maggiore incisività negli interventi dei Comuni sui ragazzi difficili, sulla disciplina scolastica, sull’abuso di bevande alcoliche (basti ricordare l’azione che hanno fatto nei confronti degli hooligans). I francesi, invece, con la legge “Prévention de la délinquance” del 1997, hanno previsto nuove modalità di intervento soprattutto sui giovani, alcune decisamente innovative anche se discutibili dal punto di vista delle garanzie. Di fronte a un giovane problematico il sindaco può chiamare la famiglia e formulare un vero e proprio verbale di obblighi e prescrizioni (controllo sulla frequenza scolastica, divieto di uscire dopo un certo orario o di lasciare il comune di residenza, e così via); sostanzialmente viene anticipato ad una fase preventiva quello che si è sempre fatto nei confronti dei minorenni che hanno commesso un reato, ovvero prendere dei provvedimenti alternativi alla detenzione in carcere.
In Italia, invece, la figura del sindaco è stata rafforzata con poteri che sono una vera e propria appendice di quelli di pubblica sicurezza (le ordinanze introdotte dal decreto Maroni nel 2008), mentre stenta a partire un sistema di politiche integrate di sicurezza con attività di prevenzione sul territorio. Pesa molto la mancanza di una legge di coordinamento, che è prevista dalla Costituzione e che è contenuta in una proposta di legge, la Barbolini-Saia, che però è praticamente ferma. Questa legge è necessaria per realizzare un’integrazione dei diversi livelli istituzionali e per dare un quadro organico di riferimento alle Regioni, che sono competenti in materia di polizia amministrativa locale e che, finora, hanno legiferato ognuna per proprio conto.

Leggi il PanelPA "Città più sicure. Quali proposte?"

Torna quindi in primo piano il tema della rete, ovvero l’importanza di un coordinamento e di un confronto tra le diverse realtà.
Su questo aspetto finora anche l’Unione Europea è stata un po’ assente. Ogni Paese ha seguito un proprio orientamento, l’unico confronto è arrivato grazie all’impegno volontario dei Comuni a confrontarsi attraverso il Forum europeo della sicurezza urbana e, in Italia, attraverso il FISU. Possiamo dire, quindi, che il nostro Paese risente di un duplice scollamento: la lontananza dell’Unione Europea e la mancanza della legge di coordinamento nazionale. In questo senso i due Forum, europeo e nazionale, anche se sono associazioni del tutto volontarie, sono stati fondamentali. Se non c’è un soggetto che fa da raccordo, infatti, le esperienze anche significative fatte dai Comuni restano confinate in una dimensione locale. L’obiettivo, invece, è mettere in luce progetti che possono essere poi replicati o adattati anche ad altre realtà territoriali. Il FISU ad esempio sta promuovendo la seconda edizione di “100 idee per la sicurezza”, una raccolta di esperienze degli enti locali in materia di sicurezza urbana, contrasto alla criminalità organizzata ed educazione alla legalità. Credo che su questa scia di confronto e condivisione si inserisca anche la Rete delle città intelligenti, naturalmente su un ventaglio di temi più ampio.

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