Solo la cultura ci salverà dalle fake news
Il Ministro dell’Interno Minniti ha lanciato un progetto finalizzato a combattere la diffusione delle fake news: chiunque potrà fare una segnalazione via web alla Polizia dando mandato per approfondimenti e, nel caso, segnalazione con apposita smentita della notizia “fake”. Nel corso degli anni questo procedimento di affidamento a terzi di procedure delicate e censoree è stato più volte inserito in disegni e proposte di legge. Sicuro sia il caso di insistere su provvedimenti spot? Sicuro non sia il caso, piuttosto, di fare un investimento a lungo raggio – ed a lungo termine – mostrando lungimiranza per l’unico fattore di reale cambiamento?
23 Gennaio 2018
Morena Ragone, Giurista, dottore di ricerca, esperta in diritto applicato alle nuove tecnologie, Regione Puglia
Non riesco a non pensare al Ministero della Verità di orwelliana memoria, ogni volta che leggo che qualcuno – chi? come? perché? – si erge, o viene designato, a ruolo di “filtro” alla nostra capacità di comprendere, sentire, correlarci con il mondo. Eppure, anche se nell’ultimo caso noto il ruolo di censore ufficiale verrebbe assunto dalla Polizia di Stato, le domande restano, e sono sempre le stesse.
Breve riepilogo per chi – immagino e temo pochi – non ha letto la notizia: in un succinto comunicato stampa/protocollo, il Ministro dell’Interno Minniti ha informato l’opinione pubblica dell’avvio di un progetto finalizzato a combattere la diffusione delle fake news, in questo particolare momento storico, a poche settimane dalle elezioni politiche. Intento di per sé meritorio – come da parte di chiunque si prefigga tale obiettivo – se non fosse per quel metro di giudizio, che cambia quando questo ruolo viene reso “ufficiale”. Ed è allora che cominciano i problemi. Traducendo in pratica l’idea del Ministro, sul sito della Polizia di Stato è ora presente un “bottone rosso”, che, cliccato, porta alla pagina qui sotto:
Chiunque – e sottolineo chiunque – potrà segnalare notizie “farlocche” (uso il termine tra virgolette, e ci ritorniamo), dando mandato alla Polizia per approfondimenti e, nel caso, segnalazione con apposita smentita della notizia “fake”.
Sul sito si legge che “grazie ad esso il cittadino, giovandosi di un’interfaccia web semplice ed immediata, capace di guidarlo passo dopo passo nel più corretto utilizzo dell’applicazione, sarà in grado di comunicare alla Polizia l’esistenza di contenuti assimilabili a fake news”.
L’interfaccia web è la semplice schermata che avete visto sopra, nessun tutorial, del resto inutile, vista la semplicità dei dati richiesti.
“Attivata la procedura – prosegue la news sul sito – la Polizia postale verificherà, per quanto possibile, l’informazione, con l’intento di indirizzare la successiva attività alle sole notizie manifestamente infondate o apertamente diffamatorie. In particolare, verrà presa in carico da un team dedicato di esperti del Cnaipic (Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche) che, in tempo reale, 24 ore su 24, effettuerà approfondite analisi, attraverso l’impiego di tecniche e software specifici. (…) Grazie al “Red button” si limiterà, nell’interesse del singolo ma anche dell’intera comunità che usa i social, la diffusione di notizie false, ingiuriose o diffamatorie o che addirittura possono destare allarme sociale; in più si potrà arginare l’operato di quanti, al solo scopo di condizionare l’opinione pubblica, orientandone tendenziosamente il pensiero e le scelte, elaborano e rendono virali notizie destituite di ogni fondamento, relative a fatti od argomenti di pubblico interesse. E qualora venga individuata con esattezza una fake news – sul sito del Commissariato di PS on line e sui canali social istituzionali verrà pubblicata una puntuale smentita”. (Il grassetto è mio)
Sorvolo sul “bottone rosso”, diventato ormai triste simbolo, evocativo di ogni possibile sventura o disgrazia, da Trump indietro; e sorvolo anche sul procedimento poco chiaro, uno dei principali limiti della procedura ipotizzata – che, immagino, sia/verrà chiarita in altri documenti ufficiali che, al momento, non è dato conoscere.
Negli ultimi giorni da quando la notizia è stata diffusa, molti esperti e giornalisti di settore si sono interrogati sulla bontà o meno della soluzione proposta; per quanto abbia cercato, non ho letto commenti positivi praticamente da nessuno – nel caso, vi prego di segnalarmeli nei commenti all’articolo – e la maggior parte delle critiche
Vorrei, però, fare un passo indietro e provare a ricostruire un po’ il percorso logico-giuridico degli ultimi, densi, avvenimenti sul tema.
Cos’è una fake news?
A lezione, spesso mi diverto a partire dall’origine della parola “bufala”, che, in parte – ma solo in parte – può essere considerata la traduzione italo-romanesca del termine “fake”. Ci sono tante leggende sulla possibile origine della parola: bufala come sinonimo di persona rozza, sciocca – anche per via dell’anello al naso che serviva a trascinare l’animale – per esempio.
La Crusca riporta, tra gli altri un significato figurato di bufala, che “avrebbe avuto origine in ambito gastronomico, non con riferimento alla mozzarella di bufala, ma alla carne; alcuni ristoratori romani disonesti, infatti, avevano il malcostume di spacciare la carne di bufala invece della più pregiata carne di vitella; di qui il termine avrebbe assunto il valore di ‘fregatura’ e quindi di ‘notizia falsa’ e di ‘produzione artistica/cinematografica scadente’”.
Ulteriore versione – sempre riportata dalla Crusca – vuole la nascita del termine “a Roma, intorno agli anni Quaranta. All’epoca le donne erano solite portare, per risparmiare, delle scarpe con le suole in pelle di bufalo/bufala, invece del più costoso cuoio; capitava, nei giorni di pioggia, che con tali calzature si scivolasse, anche con considerevoli conseguenze; quando una donna infortunata arrivava al Pronto Soccorso (l’allora CTO della Garbatella), il personale d’ospedale, considerata l’alta frequenza dei casi, usava l’espressione “Ecco un’altra bufala” (indicando la paziente metonimicamente con la causa del suo incidente: ‘un’altra scarpa in pelle di bufalo aveva provocato nuovamente una brutta caduta’). Di qui il termine sarebbe diventato sinonimo di fregatura, per passare poi a indicare sia la notizia falsa, sia una produzione cinematografica di scarso valore”.
Il di là del pur importante significato che la parola ormai ha assunto nel folklore nazionale, il Governo uscente ha/aveva predisposto un Disegno di Legge – atto del Senato n. 2688 – dal quale è possibile trarre una definizione più “giuridica” di cosa sia una fake news. Il testo è stato rubricato “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”, toccando argomenti cari a molti, a me in particolare sul fonte della trasparenza e della alfabetizzazione ai nuovi media.
Il Disegno di Legge – contestatissimo, e anche per questo non (ancora?) approvato, a differenza, per esempio, di quanto fatto in Germania con la “Act to Improve Enforcement of the Law in Social Networks”, entrata in vigore lo scorso 1° ottobre, tra molte polemiche – con gli articoli 1 e 2 inserisce l’art. 656-bis e modifica l’art. 265 del Codice Penale, definendo il proprio ambito applicativo come quello della “pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico, attraverso piattaforme informatiche” e della “diffusione di notizie false che possono destare pubblico allarme, fuorviare settori dell’opinione pubblica o aventi ad oggetto campagne d’odio e campagne volte a minare il processo democratico”.
Non mi soffermerò sul contenuto – l’hanno fatto altri prima di me e sicuramente meglio di quanto potrei fare io ora – ma voglio sottolineare due cose: la prima è l’ampiezza della possibile previsione, non per destare allarme, ma per evidenziare come sia altrettanto esteso l’ambito di ciò che può essere considerato “falso”; la seconda – se torniamo a noi, e al protocollo del Ministro Minniti ed alla Polizia di Stato – la notevole somiglianza delle parole utilizzate.
Al di là della valutazione se sia giusto, e opportuno, prevedere che un organo a ciò NON deputato, possa sindacare o filtrare – perché poi di questo essenzialmente si tratta – ciò che è vero da ciò che non lo è –. il Disegno di Legge non è stato mai discusso, non è in vigore…O si?
Chi decide cosa è vero? Esiste una sola verità? Esiste una verità che possa dirsi oggettiva?
Quando si chiede a gran voce che gli umanisti si occupino dei problemi connessi all’uso della rete e delle tecnologie, forse, è perché con questi interrogativi stiamo andando proprio alla radice dell’uomo, ai problemi esistenziali – mai risolti, ma non per questo trascurabili – di ciò che siamo, dei meccanismi della comprensione del mondo, della nostra relazione con noi stessi e con l’altruità.
E se certo la Polizia non può, anche per compiti istituzionali, occuparsi di discernere ciò che è vero da ciò che non lo è – la stessa Polizia Postale interviene all’interno di un procedimento giudiziario che, in questo caso, non pare esserci – chi può farlo?
Ci pensa Facebook!
Analogo problema, se la veridicità di un fatto/notizia viene rimessa ad un privato: notizia praticamente contestuale al Protocollo Minniti, la verifica di attendibilità che Facebook rimetterebbe alla “volontà popolare”, quella del suo popolo. Non è cosa da poco affidare a chicchessia – ad eccezione del soggetto magistratura o, se del caso Authority, nell’ambito di procedimenti definiti dalla legge – qualcosa che dovrebbe appartenere alla nostra vita quotidiana.
Facebook può davvero valutare l’attendibilità delle notizie? E come? E, soprattutto, perché dovrebbe rilasciare un “predigerito”, deresponsabilizzandoci dal capire e comprendere come svelare una “bufala”?
Il problema non è chi – Facebook, oggi, domani…chi altri? – ma è l’affidare all’esterno qualcosa che deve essere e restare nel nostro perimetro di relazione con il mondo: come imparare, da piccoli, cosa è giusto e cosa è sbagliato, in un ambito valoriale sempre discutibile – perché il dubbio è fondamentale patrimonio dell’essere uomini – ma avere gli strumenti e le capacità per farlo.
Verrebbe da diffondere l’hashtag #fattelanadomanda (usato al proposito da @brunomastroianni su Twitter).
Altrimenti, sarà sempre qualcun altro a decidere per te, per noi. E, davvero, non importa chi.
Antibufalisti e Commissioni di studio
Se si passa dal pubblico al privato, quindi, non cambia pressoché nulla: non conta il soggetto – con i dovuti distinguo, sui quali immagino di poter sorvolare –, conta l’illusione più o meno indotta di poter delegare a terzi quello che deve far indifferibilmente parte del bagaglio di ciascuno di noi.
Ben vengano quindi, progetti “antibufalisti” e gruppi di studio: sempre che ci mostrino come usare gli strumenti a nostra disposizione e facciano leva sul nostro senso critico. E se non c’è, ci insegnino a costruirlo. Ma nessuno, nessuno che lavori al posto nostro.
La sensazione che resta
E’ strano doversi ogni volta quasi difendere da cose che – ogni volta – speri siano definite. Eppure, nel corso degli anni questo procedimento di affidamento a terzi di procedure delicate e censoree è stato più volte inserito in disegni e proposte di legge; sempre, ogni volta, noi portatori di interessi e/o semplici cittadini attivi abbiamo reagito, scrivendo “criticando”, contestando e proponendo emendamenti. E, quasi sempre, ottenendo qualche risultato.
Ma è il metodo che non funziona
Quel metodo per cui sembra che il cittadino si debba difendere, o (peggio?) evitare di fare/scrivere/comunicare per evitare di incappare nelle maglie di qualche “filtro” più o meno istituzionalizzato, in una sorta di censura preventiva di una possibile censura, con eventuali, ulteriori e peggiori conseguenze.
Basta con la metafora del far west!
La rete non è, né è mai stata, territorio di nessuno, e spero davvero che ormai lo sappiano anche le pietre. E se questo a maggior ragione deve essere chiaro alle istituzioni – alla ricerca di rimedi nella migliore delle ipotesi inapplicabili, quando non illeciti/illegittimi – può non essere chiaro all’utente medio, ed allora qualche domanda, il Governo, dovrebbe farsela, ancora a ancora: sicuro sia il caso di insistere su provvedimenti spot? Sicuro non sia il caso, piuttosto, di fare un investimento a lungo raggio – ed a lungo termine – mostrando lungimiranza per l’unico fattore di reale cambiamento?
La cultura di salverà
Non è un desiderio, ma una scommessa: sul futuro nostro, della nostra società, dei nostri figli. E non mi riferisco solo alla cultura intesa come consapevolezza della rete, deontologia del suo utilizzo e diritto della/alla stessa, pur fondamentali. Mi riferisco anche e soprattutto alla cultura in senso lato. Quando si parla di “educazione civica digitale”, per esempio, io penso alla educazione civica, tutta, che dovrebbe essere in grado di comprendere l’uso delle nuove tecnologie, senza farne un settore a sé.
Tanti (se non tutti) dei problemi che affliggono la società moderna sono, direttamente o indirettamente, collegati ad un problema culturale: dalla questione di genere al “gender pay gap”, dal femminicidio al bullismo, che sia cyber o meno. Lo vogliamo vedere? Se lo vogliamo vedere, inutile concentrarci su altro: senza una visione più ampia, sono e resteranno solo interventi sporadici.
p.s. Mentre scrivo, sento le parole di Papa Francesco: “promuovere legge e cultura per combattere ogni forma di ingiustizia”. Ecco.