Trasparenza, accesso all’informazione pubblica (Foia) e open data chiamate alla verifica degli obiettivi
Se consideriamo i dati per quello che sono – strumenti e non obiettivi – il percorso circolare è evidente. Aprire non per aprire, ma per “educare” – ex-ducere – alla responsabilità e alla partecipazione, per arrivare, in fondo, a quello che dovrebbe essere l’obiettivo sotteso ad ogni azione di governo: il miglioramento della qualità della vita
12 Gennaio 2018
Morena Ragone, Giurista, dottore di ricerca, esperta in diritto applicato alle nuove tecnologie, Regione Puglia
Nell’ottobre scorso in un post su Medium a firma di Robert Palmer dell’Open Data Charter si rifletteva sugli strumenti di misurazione dell’apertura dei dati, ovvero sull’effettivo miglioramento dei servizi e della crescita per effetto di tale apertura.
Il post analizzava quattro strumenti – l’Open Data Barometer, il Global Open Data Index, l’OECD OURdata Index, l’Opendata Watch – e citava, per elementi essenziali, una serie di progetti e report internazionali che includono la misurazione dell’apertura dei dati come parte di una più ampia riflessione sulle politiche di apertura dei rispettivi governi.
La riflessione partiva dalla considerazione che, pur nella diversità degli strumenti comparati e utilizzati, è indubitabile che negli ultimi anni gli obiettivi programmatici tendano ad essere più omogenei, sì da rendere tali rilevazioni non identiche ma quantomeno assimilabili.
Non entro nel merito dei report – che comunque vi invito a leggere – perché non credo che in questa sede sia interessante confrontare dati e vedere se e “quanto siamo stati bravi” o, al contrario, pessimi; è invece rilevante considerare trasparenza, FOIA e dati aperti “solo” strumenti nella visione globale del processo che investe da alcuni anni il contesto nel quale viviamo, lavoriamo e operiamo, e interrogarci sempre più approfonditamente su tale processo.
La sfida chiave?
L’anno che ci apprestiamo a lasciare ha rappresentato una tappa importante nella prima fase di questo lungo e articolato percorso di apertura, partito all’inizio di quest’ultimo decennio con il grande entusiasmo per i dati aperti e con la richiesta di una informazione pubblica accessibile e riutilizzabile, che ora, finalmente, viene riconosciuta quale consolidato potenziale per incoraggiare la crescita economica e la trasformazione sociale, nonché per fondare una nuova forma di responsabilità della politica e del governo.
Eppure, è ancora scarsa e frammentata la conoscenza del modo in cui il tessuto sociale recepisce i dati aperti, e ancora pochi gli studi sull’impatto che essi stanno realmente avendo: se escludiamo il famoso studio di McKinsey del 2013 sul potenziale economico dei dati aperti, e quello dell’Omidyar Network nel 2015, quanta parte della nostra riflessione, anche oggi, tocca l’impatto dei dati?
Eppure un ripensamento costante, strutturato e adeguato sull’uso e sull’impatto di questi dati, su quali trasformazioni economiche e sociali hanno prodotto, sulle conseguenze dell’apertura delle informazioni nel quotidiano, sulle procedure di accesso, sui rischi potenziali e reali che ancora permangono è ora, probabilmente, la vera sfida. Mi sento di condividere le riflessioni portate a riguardo dall’ODImpact – per citare un altro, importante studio che raccoglie una nutrita serie di casi internazionali di uso e riutilizzo di dati aperti – evidenziando il fatto che senza una vera analisi di impatto si rischia di non comprendere le reali necessità di un Paese e, tra l’altro, di sovrastimare la domanda di dati aperti.
La carenza di studi sistematici, sostituita in gran parte da stime ipotetiche, ha continuato per anni a non considerare gli esempi reali: esempi ora disponibili, da cui trarre informazioni, insegnamenti e conoscenza.
La stratificazione normativa italiana e la valutazione di impatto
In Italia, in particolare, pur se l’argomento è diventato centrale nelle discussioni politiche e nella produzione normativa dell’ultimo decennio – tra legge anticorruzione, plurime riforme del Codice dell’Amministrazione Digitale e riorganizzazione della trasparenza – sembra che a solide premesse non siano sempre seguite azioni concrete mirate ad una seria valutazione di impatto.
Eppure, per evitare che tali premesse si tramutino in promesse, e che restino sganciate dalla realtà, è necessario calmierare quella sorta di “ansia da prestazione” che spesso caratterizza tante iniziative e che spinge a valutare i risultati prima del tempo, o a portare alla valutazione solo dati parziali e opportunamente selezionati.
Di certo, non può dirsi che l’attenzione alle tematiche sia scarsa: dal Piano triennale per l‘Informatica nelle Pubbliche Amministrazioni alla produzione di “soft law” da parte di Anac – che con le sue Linee Guida ha avviato un processo di “traduzione” del disposto normativo in regole di più concreta applicazione da parte della amministrazioni pubbliche –, per finire alla guida operativa fornita dalla Circolare n. 2/2017 della Funzione Pubblica – una sorta di bignami della procedura di accesso – possiamo dire che non esiste livello di governo, ente o amministrazione che non si sia interessato all’apertura dei dati.
Chi mi legge sa che sono per l’apertura da sempre, ma per un’apertura vera ed effettiva, che sia bilanciata e basata su regole predefinite e su misurazioni scientifiche, che consideri gli interessi di pari livello come una tutela doverosa nei confronti delle persone e non come una limitazione, o, peggio, una scusa per non operare. Ma la valutazione è essenziale, e per questo, spesso, temuta: cosa succederebbe se i numeri ci mostrassero qualcosa che non vogliamo vedere? Impegnati a dare a noi stessi una visione di insieme molto forte e positiva di una realtà che è certo dinamica e in divenire, forse tendiamo ad edulcorarla?
Competenze, reddito, partecipazione
E così, se parliamo di misurazione e di impatto, diviene molto difficile non incrociare i “dati sui dati” portati dai rapporti ai quali abbiamo accennato con i risultati delle tante indagini sulle competenze degli adulti, non ultima la Survey of Adult Skills – PIAAC dell’OCSE, che raccoglie una serie di campioni rappresentativi della popolazione residente di età compresa tra 16 e 64 anni in ciascun Paese partecipante.
Note positive a parte, che per fortuna esistono (come il fatto che il gap esistente viene in parte recuperato dalle giovani generazioni e praticamente azzerato nel confronto uomodonna), si evidenzia che in tutti i Paesi, compresa quindi l’Italia, le competenze degli adulti sono fortemente correlate con i livelli d’istruzione: a scarse competenze scientifiche e matematiche corrispondono scarsi livelli di istruzione generale, nonché un’influenza diretta di queste componenti sullo stato di salute, sulla consapevolezza politica, sulla partecipazione alle attività di volontariato e sul senso di fiducia nel prossimo.
Come dire che una popolazione meno istruita è anche meno “partecipativa”, meno reattiva e coinvolta, meno felice e soddisfatta.
Elementi di cui tener conto nella pianificazione delle politiche pubbliche e nello studio degli indicatori che emergono, sì, anche dai dati che vengono aperti e dal coinvolgimento che tali aperture e l’accesso sempre più generalizzato sono in grado di generare nella popolazione.
Dato-obiettivo o dato-strumento?
Se quindi consideriamo i dati per quello che sono – strumenti e non obiettivi – il percorso circolare è evidente. Aprire non per aprire, ma per “educare” – ex-ducere – alla responsabilità e alla partecipazione, per arrivare, in fondo, a quello che dovrebbe essere l’obiettivo sotteso ad ogni azione di governo: il miglioramento della qualità della vita.
Misurare tutto quello che emerge dai dati ci consentirà di capire sempre più e sempre meglio cosa non funziona e perché, migliorando e adeguando quello che è in nostro potere migliorare e adeguare.
Meno proclami e meno vittorie, forse, ma più attenzione alle esigenze degli utenti o dei cittadini.