EDITORIALE

Un anno fa a Venaria…

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Un primo anno è passato dal grande evento “Italian Digital Day”. Molto si è fatto e molte cose buone ho visto, ma non lì dove le aspettavamo, non nei grandi progetti dello Stato, forse con l’unica eccezione del pur contestato Piano Nazionale per la Scuola Digitale, ma piuttosto sui territori, nelle Regioni, in molti comuni che, come la nostra ricerca ha dimostrato, sono cresciuti in smartness e in capacità di coniugare tecnologie con innovazione sociale

23 Novembre 2016

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Carlo Mochi Sismondi @Carlomochisis

Un anno fa, il 21 novembre 2015, ero a Venaria Reale per il grande evento “Italian Digital Day” che aveva raccolto tutta la politica, l’amministrazione e l’impresa che conta attorno al progetto di una nuova spinta alla digitalizzazione del Paese. In quella occasione nel suo intervento il Presidente del Consiglio aveva lanciato una sfida dicendo così: “torniamo qui tra due anni, il 21 novembre 2017, per fare di nuovo il punto: per vedere quello che siamo riusciti a fare e se l’Italia sarà più digitale ossia più semplice e più giusta”. Bene un primo anno è passato e io provo a rileggere oggi gli appunti presi quel giorno per vedere se siamo sulla buona strada.

Nei miei appunti di allora c’era, con doppia sottolineatura, “piano Barberis” che era un titolo per ricordare la centralità dell’esposizione di Paolo. Un piano fatto di quattro pilastri: la cittadinanza digitale; la strategia per la banda ultra larga; l’educazione digitale e le competenze; l’industria 4.0. Era un piano visionario (potete riguardare qui il video della presentazione) e concreto che individuava con chiarezza la strada da seguire. Un anno è passato e temo che ci si sia persi un po’ nel tenere la direzione: non ne sono completamente certo, perché molti provvedimenti sono stati annunciati e qualcuno anche approvato, ma l’impressione è che quel deciso cambio di passo che lì si auspicava ancora non ci sia stato.

Prendiamo il primo degli obiettivi: quello che Barberis aveva sintetizzato come “Italia Login”. Nel corso di un anno il progetto sembra aver perso a mano a mano energia: si è infatti tacitamente trasformato in quello che scherzosamente abbiamo chiamato il “pallogramma”, ossia la somma di cinque interventi che non hanno costruito però una forma comune: l’Anagrafe nazionale, SPID, il nodo dei pagamenti, i servizi online standardizzati, con siti disegnati ad hoc secondo precise indicazioni comuni, e infine le notifiche. Tutte cose giuste, a volte, come il nodo dei pagamenti, attese da tempo, ma che hanno perso la loro forma complessiva e che quindi trasformandosi da innovazione disruptive a innovazione incrementale, hanno smesso di mobilitare nuova energia e, piano piano, sono rientrate nella routine. Così ad esempio l’Anagrafe è molto, ma molto indietro, il progetto SPID, che aveva come obiettivo del 2016 tre milioni di identità, viaggia su meno di duecentomila rilasci e non è ancora riuscito a coinvolgere davvero i service provider privati, i siti pubblici hanno continuato a fare ciascuno come hanno creduto e sono tutti diversi, come sempre, a cominciare dai Ministeri. Meglio i pagamenti, niente di concreto per le notifiche, che sono evidentemente la parte che più dipende da una vera integrazione delle basi di dati pubbliche.

Se poi riascolto la parte dell’intervento che Marianna Madia fece in quell’occasione che riguardava le risorse e l’uso della programmazione europea 2014-2020 per la sfida del digitale, non posso che rammaricarmi che questa destinazione sia ancora indistinta e che per ora possiamo contare per questo obiettivo, alla fine di tre dei sette anni di programmazione, solo su un’assegnazione – del tutto preliminare – di 50 milioni all’AgID (meno del 10% dell’ammontare dei fondi) senza che questa stessa si sia trasformata non in somme effettivamente impegnate, ma neanche in progetti.

Passando infine alla governance complessiva dell’innovazione dire che permangono forti incertezze è un eufemismo. Il nuovo commissario ha poteri sulla carta enormi, ma non sembra ancora operativo (l’articolo di Luca De Biase sul Sole24Ore che lo annunciava era del 10 febbraio) e solo oggi ha pubblicato una parte della sua squadra, dove la presenza di Barberis ci consola. Gli altri protagonisti, comprese le grandi società pubbliche di tecnologie, stanno, come sempre, a guardare che succede, aspettandolo al varco.

Tutto male quindi? Certo che no: molto si è fatto e molte cose buone ho visto, ma non lì dove le aspettavamo, non nei grandi progetti dello Stato, forse con l’unica eccezione del pur contestato Piano Nazionale per la Scuola Digitale, ma piuttosto sui territori, nelle Regioni, in molti comuni che, come la nostra ricerca ha dimostrato, sono cresciuti in smartness e in capacità di coniugare tecnologie con innovazione sociale. Forse è da lì che dobbiamo ricominciare con curiosa umiltà, portando a standard quanto di meglio già si è fatto, senza buttare neanche una briciola di quel che c’è di buono. Perché la PA non è e non sarà mai un green field, una landa cinese su cui costruire dal nulla una nuova razionale metropoli. E’ invece più simile, specie in Paesi, come il nostro, di diritto amministrativo, a una città medievale, dove la semplificazione dei percorsi passa più per l’astuzia delle mappe e la tenacia nel mantenere la direzione che per le ruspe. Ripartiamo quindi dai territori innovativi, facciamoci insegnare la semplificazione da chi l’ha già fatta, l’open government da chi lo pratica, la collaborazione competitiva dalle Regioni che l’hanno già sperimentata. Le attese della palingenesi sono sempre pericolose e foriere di frustranti delusioni, funzionali solo a chi sta aspettando che “passi a nuttata”. L’innovazione, specie se disruptive, non può che passare dall’intelligente e creativo uso di cose e ingredienti esistenti, ricomposte in forme nuove, aperte, democratiche.

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