Web 2.0 per educare la PA al cambiamento
Lo scorso 29 ottobre a Bologna, durante il convegno organizzato dal CRC Emilia Romagna Gianluigi Cogo, responsabile dell’Ufficio Progettazione Architetture internet ed intranet della Regione Veneto ha parlato di un web 2.0 utile non tanto nel rapporto tra pa e cittadini, quanto tra pa e dipendenti della pa.
8 Novembre 2007
Lo scorso 29 ottobre a Bologna, durante il convegno organizzato dal CRC Emilia Romagna Gianluigi Cogo, responsabile dell’Ufficio Progettazione Architetture internet ed intranet della Regione Veneto ha parlato di un web 2.0 utile non tanto nel rapporto tra pa e cittadini, quanto tra pa e dipendenti della pa.
Potrebbe descriverci la differenza tra questi due modi di pensare le applicazioni web?
Non tendo mai a voler persuadere gli altri che la mia prospettiva sia l’unica dalla quale poter vedere le cose, ma se posso cerco di portare un contributo offrendo quella che è l’esperienza dell’amministrazione in cui lavoro. Per questo lunedì scorso mi sono soffermato sull’utilizzo del web 2.0 come elemento di gestione del cambiamento interno all’amministrazione regionale, perché è proprio quello che, come Regione Veneto, stiamo portando avanti sin dal 2002.
Da una parte è vero, infatti, che per quanto riguarda il front end classico i nostri portali sono abbastanza monolitici, non prevedono interazioni, né consentono di interagire con chi propone contenuti e servizi, ma si tratta di una situazione comune a tutta la Pubblica Amministrazione in Italia.
Il punto è che un’amministrazione può fare tutti gli sforzi che vuole per migliorare il front end, ma se poi questi progetti innovativi non sono sostenuti dalle dinamiche interne all’amministrazione, se la gente che lavora dietro a questi progetti non li capisce, o non è in grado di modificare il proprio lavoro adeguandosi ad un nuovo approccio, sostanzialmente ogni sforzo si traduce in uno spreco.
Voi dunque avete utilizzato le potenzialità di un web collaborativo per un’azione di change management interno?
La chiave con cui abbiamo sempre lavorato è stata quella di "educare" al cambiamento, attraverso gli stessi strumenti protagonisti del cambiamento. Per governare il cambiamento siamo partiti dall’area intranet che, sostanzialmente, è un termine che si usa per definire una serie di cose differenti, che vanno dal dominio applicativo posizionato dietro al firewall aziendale, ai documenti interni, ai comunicati fino ai servizi al personale. Assodato ciò il primo elemento su cui abbiamo fatto leva per avviare questo cammino è stato quello di provare a far passare il concetto che qualunque dato in possesso di una pubblica amministrazione appartiene al cittadino, anche quello interno, quello considerato più personale e meno utile agli altri, quello custodito gelosamente come reliquia, ogni tipo di informazione che circola in una PA è pubblica e in quanto tale va gestita seguendo regole di trasparenza. Se si riesce ad abbattere la cultura della segretezza e a far emergere ciò che c’è all’interno di ogni singola struttura si stimola il personale e si avvia una competizione virtuosa. Da noi tutto questo è successo, ovviamente non ovunque, né con lo stesso entusiasmo e, anzi, ci sono ancora alcune forti sacche di resistenza, ma sicuramente l’esperienza è stata positiva.
Concretamente in cosa si è tradotto questo training all’apertura e al dialogo interno?
Innanzitutto occorre partire dal back office e in particolare dalla scelta di un prodotto. Nel nostro caso la soluzione individuata è incentrata sullo sviluppo di "workspace" e quindi ad ogni struttura dell’ente è stato affidato uno spazio di lavoro collaborativo, mentre l’interfaccia dell’Intranet è diventata, sostanzialmente, l’aggregatore di questi workspace. Per la formazione vera e propria abbiamo cominciato individuando un gruppo pilota e facilitando l’approccio al nuovo sistema in quei settori che avevamo individuato come "killer" cioè in quelle strutture che se si fossero mosse sul nuovo ambiente, avrebbero potuto influire sul comportamento di tutti gli altri, facendo la differenza. Giusto per farle l’esempio più comprensibile, il workspace del CRAL o del RSU ha permesso di spostare sulla intranet tutta una serie di attività che toccavano orizzontalmente tutti gli utenti (l’organizzazione delle feste o i buoni sconto) contribuendo a cambiare alcune abitudini consolidate. Le persone che avevano parte attiva in queste attività hanno, poi, riportato questo modo di lavorare nelle proprie strutture di appartenenza e, passo dopo passo, in tre anni di cambiamento si sono aperti centinaia di workspace pubblici e molti più workspace privati, cioè aree chiuse dove potersi scambiare documenti, riflessioni e processi fra colleghi del gruppo, in un’ottica di project management.
Nel web 2.0, però, queste stanze chiuse dovrebbero comunque portare ad un sapere condiviso!
Difatti questa è esattamente la seconda parte del nostro lavoro ossia portare avanti un cambiamento innanzitutto culturale, attraverso sessioni estese (anche con due o trecento persone) in cui sono state illustrate le dinamiche della partecipazione e degli altri fattori che hanno determinato il successo del web 2.0. Ci sono stati, poi, veri e propri corsi di addestramento, metà in aula e metà in e-Learning, che hanno dato origine a delle comunità professionali all’interno delle quali i diversi partecipanti, provenienti dalle varie strutture, hanno cominciato a scambiarsi opinioni e idee. È così che sono nati i primi mash up interni, alcuni anche molto creativi, che hanno permesso alle diverse strutture di liberare le proprie energie. Prima non era possibile aggregare informazioni, discussioni, sondaggi, forum, documenti, immagini, presentazioni o video in un unico calderone, mentre ora il valore dell’informazione contenuta all’interno di ciascun workspace ha cominciato a venire fuori, tenendo nascosti i processi. Oggi la nostra intranet è un vero e proprio archivio di oggetti che possono essere presi e riutilizzati nei differenti workspace. Ovviamente non sono tutte "rose e fiori" e ci sono alcune strutture che non hanno mai partecipato a questo processo né hanno intenzione di parteciparvi, ma nel disegno complessivo questo incide poco.
In che senso incide poco?
In questo disegno tutti sanno che una determinata cosa si può fare e se anche la propria struttura non la implementa direttamente, la conoscenza circola e gli stessi utenti cominciano ad avanzare richieste rispetto a ciò che continua ad essere fatto in una maniera tradizionale e che, invece, potrebbe essere fatto in un modo più semplice e più veloce. È questo il cambiamento: non ci sono più scuse, la tecnologia è abilitante e sostenibile, l’unica difficoltà è culturale. Occorre rendere tutti partecipi del cambiamento. Dimostrare che ogni dipendente può esprimere il suo valore mettendosi in gioco. La mia esperienza è basata sulla gestione del cambiamento e della sua facilitazione. È necessario coinvolgere i dipendenti nel FARE.
Potrebbe descriverci l’esperienza del barcamp delle PA del Veneto?
La responsabilità della struttura tecnologica se, da una parte, è un privilegio dall’altra è anche una sfida continua che richiede allenamento, confronto e contaminazione con chi segue un percorso parallello o diverso rispetto al nostro. L’idea è stata, quindi, quella di mettere insieme la PA, le aziende e i pensatori liberi (giornalisti, ricercatori, evangelisti, blogger) per contaminarsi a vicenda. Molti erano stralunati da quel mondo incomprensibile ai più, ma ho visto anche Dirigenti del top-management che si sono fermati solo per ascoltare le non-conferenze dei blogger. È un segnale positivo e quest’anno replicheremo ad aprile 2008 con ben tre giornate con i Parchi Scientifici, le Istituzioni, le aziende e ancora la blogosfera.
Quale è il peso del sentimento di appartenenza in questo percorso verso il cambiamento?
Non credo nella costrizione. Credo nell’accompagnamento culturale. Se vogliamo proporre una novità, come il web 2.0, che abbia un ritorno effettivo sui servizi dobbiamo, innanzitutto, far capire a cosa serve e che vantaggio il web 2.0 può avere per gli utenti e per la loro istituzione. È proprio qui che il senso di appartenenza fa sentire maggiormente il suo peso. Purtroppo, nella pubblica amministrazione questo senso di adesione è ancora troppo scarso e molto più presente nei giovani, che negli utenti con una maggiore anzianità anagrafica o di servizio. Intendiamoci ciò che manca non è il senso di appartenenza al comparto pubblico, ma quello di partecipare ad una missione. Nelle generazioni più anziane, una volta chiuse le mansioni che rientrano nella contingenza, è difficile che ci si senta ancora partecipi di una missione. Nei giovani, invece si assiste proprio al perdurare di questo senso di attaccamento alla missione. Le reti sociali possono rafforzare sicuramente questa partecipazione.