Conoscenza, reputazione, governance. Tre pilastri per il futuro possibile della politica di coesione europea
L’opinione pubblica europea possiede una consapevolezza piuttosto limitata dei valori e dei benefici della politica di coesione; ciò nonostante essa rappresenti più di un terzo del bilancio europeo e sia la principale leva di investimento dell’Unione a favore di cittadini e territori. Serve un cambio di paradigma che può fondarsi esclusivamente su una nuova governance della comunicazione
18 Dicembre 2017
Raffaele Paciello
La politica di coesione rappresenta da sempre uno dei principali volti con cui l’Unione europea si manifesta sui territori e con cui attribuisce concretezza ai suoi principi e valori intangibili. L’anima “coesiva” di tale politica si ispira a quella necessità, contenuta all’interno dello stesso Trattato istitutivo CE, di favorire uno sviluppo armonioso fra i territori che compongono l’Unione europea. Eppure, quando qualche anno fa fui chiamato a guidare la prima indagine nazionale sulla conoscenza della politica di coesione in Italia, provare a comprendere non solo il livello di diffusione, ma anche lo “stato d’animo” dei cittadini verso una politica pubblica così rilevante, sembrò ai più un mero esercizio di stile.
Perché sì, il cuore di politiche dal sano carattere europeo era da sempre insito nella capacità di programmazione e buona rendicontazione degli aspetti economico-finanziari; nella centralità di un approccio tecnocratico fondato su figure prevalentemente deputate a dare sostanza ad espressioni quali “dotazione finanziaria”, “monitoraggio”, “certificazione”, “avanzamento della spesa”, “audit e controlli”. Per contro, al netto di qualche indagine demoscopica, quasi mai l’attenzione era orientata all’opportunità di dare realmente conto della compenetrazione della politica di coesione nella vita quotidiana dei cittadini.
Per anni abbiamo così assistito ad approfonditi dibattiti sui temi della “spesa” o delle possibili restituzioni di “risorse non utilizzate”; alla meglio, in periodi più recenti, abbiamo assistito ad un’evoluzione verso erudite controversie sulla cosiddetta “qualità” (dei progetti e della spesa), senza tuttavia mai porre al centro dell’attenzione un necessario interrogativo di fondo: spesa e qualità per chi?
Per molto tempo, dunque, abbiamo condotto azioni di investimento significative, senza però preoccuparci troppo di quel necessario processo che, con un’espressione attualizzata, potremmo definire di citizen journey.
A questo proposito uno dei dati più interessanti emersi proprio dalla ricerca condotta qualche anno fa riguardava la socializzazione degli sforzi della politica di coesione. Così, a fronte del fatto che l’enorme mole finanziaria investita sui territori dall’Unione europea tramite i fondi strutturali rappresentasse una grande “opportunità”, la ricerca evidenziava come le occorrenze semantiche più associate alla parola “Fondi europei” nell’immaginario collettivo appartenessero tutte all’area di denotazione del “rischio” (rischio spesa, rischio frode, crisi, tagli, ritardi, patto di stabilità etc…).
Le motivazioni principali di tale esito erano in parte ricomprese in fattori di scarsa attenzione mediatica verso attinenze positive della politica di coesione, in parte nell’incidenza della complessità linguistica e di scarsa efficacia comunicativa del gergo tecnico. Ancora oggi, un esempio rilevante in questo senso resta il diffuso utilizzo del termine “spesa” (intesa come costo a carico della collettività) in luogo di “investimenti” (intesi come percorsi a favore della collettività). Ovviamente, nonostante la ricerca italiana e i vari Eurobarometri europei abbiano disegnato già da qualche anno una strada di lavoro piuttosto chiara, l’attenzione alla dimensione strategica della comunicazione è rimasta marginale rispetto agli sforzi destinati alle percentuali di bilancio e, per l’appunto, alla spesa.
Per questo, nonostante la dimensione regolamentare dichiaratamente favorevole ad una nuova stagione prioritaria del valore comunicativo nella politica di coesione per il periodo 2014-2020, la diffusa cultura tecnocratica ha trasformato molto spesso la stessa comunicazione in un ulteriore fattore di adempimento privo di visione strategica. In altri termini, così come per il periodo precedente, anche nel ciclo 2014-2020, l’efficacia e la rilevanza strategica della comunicazione sembra essere stata affidata più alle sensibilità dei singoli decision makers, che ad una dimensione sistemica funzionale all’affermazione conoscitiva, alla credibilità e al governo stesso della politica di coesione.
Il risultato più evidente è che ancora oggi tutti i principali indicatori disponibili evidenziano in modo chiaro che l’identificazione dei cittadini europei nei valori comunitari risulta ai minimi storici e che l’opinione pubblica europea possiede una consapevolezza piuttosto limitata dei valori e dei benefici della politica di coesione; ciò nonostante essa rappresenti più di un terzo del bilancio europeo e sia la principale leva di investimento dell’Unione a favore di cittadini e territori. L’impatto dirompente di tale lacuna è reso evidente dalla diffusione di nazionalismi, derive autonomiste e processi di disimpegno verso i valori comunitari come nel caso inglese e, in parte, catalano.
Un simile contesto critico e l’approssimarsi di uno scenario post 2020, che richiede ormai scelte puntuali per assicurare la tenuta della stessa dimensione armonica dello sviluppo territoriale europeo, sembrano aver favorito una nuova stagione di sensibilità verso il tema della percezione e, dunque, della funzione strategica della comunicazione della politica di coesione. Ne sono prova gli investimenti su alcuni progetti di ricerca come Perceive e Cohesify, finanziati attraverso il programma Horizon 2020 e tesi ad indagare la percezione pubblica dei fondi strutturali; la rinnovata spinta delle istituzioni europee verso il tema della migliore comunicazione della politica di coesione e l’unanime consenso del Consiglio degli Affari Generali dell’Unione europea che, il 25 aprile 2017, ha sancito la necessità di rafforzare la visibilità e migliorare l’immagine della politica di coesione nei confronti di cittadini e decisori pubblici.
Forse anche per questo, in occasione dell’ultima “Settimana europea delle Regioni e delle Città” tenutasi a Bruxelles dal 9 al 12 ottobre 2017, numerosi sono stati i richiami alla rilevanza e pertinenza della comunicazione nell’ambito delle politiche europee. Anche l’Italia, in particolare con il lavoro della Regione Calabria e del PON Città Metropolitane, ha portato il suo contributo alla riflessione sul futuro della comunicazione dei fondi strutturali europei. Ne è emerso un imprescindibile bisogno di innescare un processo win-win, finalizzato a superare quegli atteggiamenti svalutativi verso la politica di coesione che, spesso, ne deteriorano il suo effettivo valore per la quotidianità dei cittadini.
È evidente che, per realizzare una tale aspirazione, non ci si può più accontentare di un puntellamento dell’Europa, ma è prioritario guardare ad un processo di rigenerazione dei valori, fondato sulla credibilità e sulla reputazione delle politiche europee, ivi compresa la sua politica di coesione.
Se ad oggi i fondi strutturali non hanno raggiunto gli obiettivi sperati in termini di percezione e di engagement dei cittadini è anche perché, dunque, la comunicazione ha mostrato molti significativi punti di debolezza: troppo frammentata fra le diverse fonti (programmi, progetti, istituzioni locali e non); sicuramente troppo adempitiva e poco ispirata a logiche di efficacia; certamente eccessiva nei tecnicismi e nella quantità di messaggi sovrapposti. Allo stesso tempo, sul fronte del contesto esterno, hanno fatto sentire la loro influenza negativa la generale crisi di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni pubbliche e l’insufficienza di risorse e competenze all’interno delle organizzazioni pubbliche. Così fra overbooking informativo, complessità linguistica, cultura tecnocratica, mancato orientamento alle logiche di efficacia e scarsa misurazione dei risultati, il perimetro per il miglioramento della comunicazione della politica di coesione sembra essere piuttosto definito. Ciò che, invece, è ancora necessario disegnare è il percorso necessario al superamento di tali debolezze.
Come già evidenziato in altre occasioni, in un tempo dove l’estremismo individualista sembra aver cancellato la capacità di trovare un fine collettivo e, per dirla con Ulrich Beck, sembra generare una dispersione continua per trovare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”, la comunicazione può coltivare spazi ampi a servizio di una nuova stagione di credibilità della politica e delle politiche. Tutto ciò a patto che non si attivi quel riduzionismo storico che guarda alla comunicazione come semplice protagonismo mass mediatico o, peggio ancora, come ‘smanettonismo’ funzionale alla social visibility.
La comunicazione va intesa come funzione strategica di governo e, dunque, della politica di coesione; non come tensione al protagonismo e alla visibilità individuale o, peggio ancora, come amplificazione dell’immunità al contatto con le differenze di cui fake news, hate speech e tanti altri inglesismi sono solo le più evidenti conseguenze.
Se vogliamo ridare tono e luminosità al blu e alle stelle della bandiera europea non possiamo lavorare applicando semplici filtri. Darebbero il senso del fotoritocco, della finzione legata all’ormai insufficiente immagine estetica. Dobbiamo invece ampliare quello spazio di “negoziazione delle differenze” e di coerenza fra visibilità e quotidianità che darebbe lustro e fiducia alla dimensione sistemica dell’emblema europeo e della sua azione armonica.
Per fare questo, probabilmente, serve un radicale cambio di paradigma che si ispira ad una transizione dall’idea di immagine a quella di reputazione, da strumenti di promozione a strumenti di ingaggio e relazione, da una dimensione adempitiva di efficacia alla misurazione dei risultati della comunicazione. Un cambio che può fondarsi esclusivamente su una nuova governance della comunicazione e della sua funzione olistica integrata che, per il post 2020, dovrà sostanziarsi nell’istituzione di una vera e propria autorità di reputazione della politica di coesione e dei suoi programmi di investimento.
Questo articolo è parte del dossier “Programmazione Europea 2014-2020, a che punto siamo”