Politiche di coesione e autonomia differenziata

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Serve un colpo d’ala per uscire dal ginepraio di un regionalismo male impostato. La chiave di volta sta nel combinare correttamente principio di sussidiarietà, valutazione delle esternalità inerenti alle diverse materie, dimensione delle economie di scala dei processi amministrativi e produttivi necessari ad assicurare la fornitura dei servizi ai cittadini

27 Febbraio 2025

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Claudio De Vincenti

Sapienza Università di Roma, LUISS Institute for European Analysis and Policy, Presidente onorario della Fondazione Merita - Meridione Italia

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Questo articolo è tratto dal capitolo “PNRR e Coesione” dell’Annual Report 2024 di FPA (la pubblicazione è disponibile online gratuitamente, previa registrazione


La riforma della governance del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC), varata circa un anno fa dal Governo, ha previsto che l’utilizzo delle risorse FSC da parte delle Regioni (sia del Sud che del Nord) sia condizionato alla stipula di “Accordi di coesione” tra ognuna di esse e il Ministro per il Sud e la Coesione. Gli Accordi – alcuni già siglati, altri in corso di elaborazione – definiscono obiettivi, interventi e loro tempistiche, nonché le complementarità con l’impiego dei fondi strutturali europei. Vengono inoltre stabilite modalità di monitoraggio stringenti sull’uso effettivo delle risorse da parte delle amministrazioni titolari degli interventi. Con questa riforma – come anche con l’istituzione della ZES unica nel Mezzogiorno – si afferma una impostazione che fa perno su un’assunzione di responsabilità da parte del Governo centrale per la costruzione di una politica di sviluppo coerente del Paese, evitando quella eccessiva frammentazione delle politiche che è una delle cause della insufficiente efficacia nell’uso dei fondi di coesione sperimentata nel nostro Paese. Si tratta, del resto, di uno schema di governance che si ispira a quello impostato dall’Unione Europea per l’utilizzo, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), delle risorse di Next Generation EU e che ricalca e sviluppa quanto venne impostato nel nostro Paese dai governi della XVII Legislatura con i “Patti per lo sviluppo” del biennio 2016-17, lasciati poi inattuati dai governi 2018-21.

Ma, ed è quanto cercherò di argomentare in questa nota, questo quadro di governance – che ritengo sostanzialmente condivisibile rischia di subire un vulnus grave in ragione della specifica configurazione che ha assunto, attraverso la Legge n. 86 del 2024 (Legge Calderoli), la cosiddetta Legge “autonomia differenziata”.

La Legge 86/2024

La Legge Calderoli porta alle sue estreme conseguenze quelli che possiamo considerare i limiti principali del modo in cui è andato via via configurandosi, dal 1970 ad oggi, l’assetto regionale italiano. Li riassumo – evitando per brevità di ripercorrere i passaggi che nel corso del tempo li hanno determinati – nei termini seguenti:

  • attribuzione alle Regioni di competenze di spesa senza una corrispondente attribuzione di responsabilità di entrata, generando situazioni di rivendicazionismo finanziario nei confronti dello Stato e insufficiente responsabilizzazione delle giunte regionali nei confronti delle comunità amministrate; questa situazione si è aggravata nel corso degli ultimi vent’anni, prima con il depotenziamento dell’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) e poi con il restringimento della base imponibile dell’addizionale Irpef attraverso il regime forfettario per i lavoratori autonomi; oggi la somma di Irap residua e addizionale Irpef copre non più del 25% della spesa sanitaria delle Regioni, il ruolo preponderante lo gioca la compartecipazione all’Iva che è nei fatti equivalente a un trasferimento dal bilancio dello Stato, essendo determinata ogni anno a copertura delle spese;
  • attribuzione – da parte del nuovo Titolo V varato nel 2001 – di potestà legislativa concorrente in materie che hanno esternalità nonché economie di scala di rilevanza nazionale, come l’energia, i trasporti nazionali, l’istruzione, le comunicazioni, la tutela e sicurezza del lavoro, il commercio con l’estero; ne è derivata una conflittualità permanente tra livelli di Governo – in ispecie tramite contenziosi davanti alla Corte Costituzionale – che sia al Nord che al Sud ha paralizzato i processi decisionali.

La Legge Calderoli, pur modificata nell’iter parlamentare per cercare di tener conto di alcune delle critiche mosse al testo di partenza, finisce per ingigantire questi difetti dell’assetto esistente, con conseguenze che possono essere paralizzanti per le politiche di sviluppo e quindi per lo stesso disegno delle politiche di coesione. Vediamo perché:

  • del tutto inadeguata allo scopo di salvaguardare l’unità giuridica ed economica della Repubblica appare la disposizione che affida a una decisione del Presidente del Consiglio pro-tempore la delimitazione delle materie – tra le 23 possibili, ossia quelle di legislazione concorrente più le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente – che di volta in volta sarà possibile conferire alla potestà legislativa esclusiva di una Regione. Stiamo parlando di materie fondamentali per la tenuta stessa del Paese, come le grandi reti infrastrutturali di trasporto o quelle dell’energia o quelle di telecomunicazione o come la tutela della salute o quella dell’ambiente e dei beni culturali o ancora le norme generali sull’istruzione: temi di rilevanza nazionale, decisivi per le prospettive di crescita economica, civile e sociale dell’insieme del Paese, temi sui quali una potestà esclusiva regionale avrebbe implicazioni gravi in termini di disarticolazione del tessuto unitario, di veti contrapposti e di blocco di investimenti essenziali per lo sviluppo economico e sociale del Paese, con implicazioni negative per l’intera collettività nazionale;
  • i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che saranno oggetto dei decreti legislativi da varare nei 24 mesi successivi all’entrata in vigore della Legge sono quelli riferiti alle sole materie trasferibili, laddove i Lep da garantire su tutto il territorio nazionale secondo la Costituzione fanno riferimento all’insieme dei diritti civili e sociali; se si definiscono i Lep solo per un loro sottoinsieme e si individuano – ammesso e non concesso che ci si riesca – le risorse necessarie a soddisfarli in modo paritario in tutte le Regioni, resta il rischio che altri Lep, non corrispondenti alle funzioni trasferibili e che saranno definiti successivamente, restino sottofinanziati; il fatto è che l’esercizio di finanza pubblica consistente nell’individuare le risorse necessarie non può che essere un esercizio unitario e, ove si constati che alcuni Lep resterebbero sottofinanziati, occorre ridurre il finanziamento ai Lep trasferibili e quindi anche rivederne il livello, che quindi non può essere stabilito prima di aver completato il processo di valutazione di tutti i Lep; è un esercizio di finanza pubblica essenziale per i cittadini italiani, in qualsiasi Regione risiedano, perché il sottofinanziamento dei Lep non trasferibili riguarda tutti (si pensi, per limitarci a due soli esempi, ai diritti civili e sociali in materia di previdenza e di ammortizzatori sociali);
  • viene esplicitamente mantenuto e ampliato il finanziamento delle funzioni trasferite tramite compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, che sono nei fatti equivalenti a forme di trasferimento dal bilancio statale, con tutte le conseguenze deresponsabilizzanti che da ciò derivano sui comportamenti regionali, al Nord come al Sud.

In conclusione, la Legge 86/2024 rischia di determinare una disarticolazione del tessuto unitario del Paese, disarticolazione che non tanto penalizza il Sud per avvantaggiare il Nord quanto penalizza sia il Sud che il Nord, o per lo meno i cittadini, i lavoratori, le imprese del Sud e del Nord.

Serve un colpo d’ala

Per uscire dal ginepraio di un regionalismo male impostato è necessaria una revisione complessiva del rapporto Stato-Regioni-Autonomie locali che consenta di ritrovare efficienza, efficacia e responsabilità delle scelte a tutti i livelli di governo, ridefinendone le competenze e le risorse. La chiave di volta sta nel combinare correttamente principio di sussidiarietà, valutazione delle esternalità inerenti alle diverse materie, dimensione delle economie di scala dei processi amministrativi e produttivi necessari ad assicurare la fornitura dei servizi ai cittadini:

  • ogni livello di governo – a cominciare dal livello comunale, uno snodo chiave messo in ombra dal ridisegno operato dalla Legge Calderoli – deve essere chiamato a gestire in autonomia le materie per le quali le esternalità ineriscono al suo ambito territoriale e in esso si esauriscono e per le quali risulta coerente la dimensione minima efficiente definita dalla tecnologia produttiva del servizio o dell’infrastruttura corrispondente;
  • all’aumentare della dimensione delle esternalità prodotte e/o della scala minima efficiente di produzione è necessario che la responsabilità di assicurare un servizio o una infrastruttura sia assunta dal livello di governo più elevato.

La riforma di cui c’è bisogno consiste allora nel:

  • condurre – con legge costituzionale alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie che hanno esternalità e/o economie di scala di rilevanza nazionale, come per esempio l’energia, i trasporti nazionali, l’istruzione, la sanità, le comunicazioni, l’ambiente, il commercio con l’estero; in alcune di queste materie si può prevedere di affidare alle Regioni compiti amministrativi (non legislativi) di programmazione e di valorizzare il ruolo organizzativo dei Comuni;
  • sul resto delle materie concorrenti, prevedere procedure agili di leale collaborazione istituzionale e di composizione del dissenso, decongestionando il contenzioso in Corte costituzionale; in ogni caso, prevedere in capo allo Stato il potere di emanare disposizioni generali e comuni vincolanti e introdurre una clausola di supremazia;
  • realizzare, nei limiti dei principi di coordinamento della finanza pubblica, una autonomia di entrata delle Regioni e dei Comuni che configuri la loro responsabilizzazione nella copertura delle spese di loro competenza;
  • definire i Lep su tutte le materie che toccano i diritti civili e sociali in relazione alle compatibilità di finanza pubblica attuali e prospettiche nell’ambito di un orizzonte di programmazione ragionevole; nei territori dove i Lep non sono oggi assicurati, prevedere un percorso di avvicinamento tramite obiettivi di servizio e il corrispondente finanziamento della Regione e del Comune tramite fondo perequativo con vincolo di destinazione (altrimenti le risorse potrebbero non essere realmente utilizzate per rimontare il gap nei servizi in cui vi è divario); disporre che il tiraggio sulle risorse avviene solo in corrispondenza della realizzazione degli obiettivi;
  • prevedere il raccordo tra i Lep e gli obiettivi di servizio definiti sull’orizzonte di programmazione e gli investimenti nelle relative materie previsti dai Fondi strutturali europei e dal Fondo sviluppo e coesione (tenendo conto naturalmente che questi fondi devono finanziare anche interventi di sviluppo economico non direttamente riferibili ai diritti civili e sociali); si potrebbe prevedere per il conseguimento degli obiettivi di servizio tramite fondo perequativo lo stesso orizzonte di programmazione dei fondi di coesione.

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