Cominciare da un ricambio dei vertici?

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Nelle vicende di questi giorni, il proposito del Governo di mettere mano alla riforma del sistema pubblico – a dire del premier Renzi, “la madre di tutte le riforme” – non può che far piacere. Finalmente, si potrebbe dire. Se non l’avessimo detto già tante volte, illudendoci altrettante volte che fosse quella buona.

27 Febbraio 2014

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Stefano Sepe*

Articolo FPA

Nelle vicende di questi giorni, il proposito del Governo di mettere mano alla riforma del sistema pubblico – a dire del premier Renzi, “la madre di tutte le riforme” – non può che far piacere. Finalmente, si potrebbe dire. Se non l’avessimo detto già tante volte, illudendoci altrettante volte che fosse quella buona.

 

Il problema andrebbe, forse, rovesciato, facendosi una domanda secca: perché i cambiamenti – che spesso sono stati interessanti e positivi nel breve/medio periodo (mi riferisco a un secolo e mezzo di storia nazionale) – alla lunga non hanno retto? Perché l’innovazione viene sistematicamente – o quasi – soffocata sotto una coltre opaca?  Come in un’eruzione vulcanica. Tanto più essa è violenta e squassa l’assetto precedente, tanta più cenere lavica si libera nell’aria e poi scende, lentamente, a coprire tutto con un manto grigiastro e uniforme. Che tutto unifica, che tutto soffoca. Vivi e morti, cose belle e cose brutte, affreschi e sporcizia, palazzi sontuosi e baracche sporche. L’innovazione nell’amministrazione sembra un fiore malato, inadeguato a reggere alle intemperie. Eppure, sappiamo tutti che non è così. In particolare nello spostamento di visuale che le trasformazioni inducono nel sistema sociale. L’amministrazione di oggi è diversissima da quella di vent’anni fa; diversissima la domanda sociale di servizi che ha indotto moltissimi cambiamenti, innescando una miriade di processi di adattamento alle esigenze dei cittadini.

Quindi, di chi è la colpa dell’insoddisfacente rendimento medio delle amministrazioni pubbliche e della pessima reputazione che esse hanno presso l’opinione pubblica? Se si guarda al problema come se fosse un prisma (lo è, in effetti), basta cambiare lato per vedere come principale un aspetto, piuttosto che un altro. Carente qualità del persone pubblico, confusione e/o incapacità del ceto di governo a capire come far funzionare l’amministrazione, tessuto civile non proprio cristallino, eccetera. L’elenco potrebbe essere come la radice di due. Un numero con infiniti decimali.

Nel 1889, parlando alla Camera, Francesco Crispi affermò – a proposito delle gravissime carenze del sistema assistenziale pubblico – “intra et extra moenia peccatur”. Le vicende dell’amministrazione italiana rispondono precisamente a quella opinione. Andare alla ricerca del capro espiatorio non serve. O peggio, produce soltanto guai. Basta ricordare la forsennata campagna contro i fannulloni, condotta a forza di norme catenaccio che facevano da pendant a illusorie campagne su rivoluzioni in atto. Come è vero che le scorciatoie sono il sentiero preferito di chi non ha forza nelle gambe.

Provo a suggerire uno degli aspetti che più hanno reso vischiose nel modo di agire e scivolose nei prodotti le amministrazioni pubbliche italiane. I luoghi dell’incrocio politica/amministrazione. Luoghi popolati da persone: l’alta burocrazia, da un lato, e i capi gabinetto e capi uffici legislativi, dall’altro. Lati che non sempre sono opposti, anzi spesso convergono. Ma che ancora più spesso vedono uno dei due piegarsi a vantaggio di quello idealmente opposto. Chi conosce appena le amministrazioni pubbliche lo sa bene. Lo sperimenta quotidianamente. Gli uffici di diretta collaborazione sono lo snodo tra politica e amministrazione. Se funzionasse bene, il raccordo compiuto dagli uffici di diretta collaborazione eviterebbe il frequente corto circuito tra indirizzo politico e attuazione amministrativa. Di fatto, i gabinetti (per non dire delle segreterie tecniche) finiscono per sovrapporsi – in modo operativamente non fluido – alle strutture di line, perché i ministri preferiscono l’aggiramento degli apparati, piuttosto che un confronto approfondito sulle questioni sul tappeto. Aggiramento che produce ostinate resistenze da parte delle burocrazie interne.

Ai vertici degli apparati i cambiamenti e gli avvicendamenti sono pochi o di facciata e, quando avvengono, sono spesso “giri di valzer” che si riducono a uno scambio di poltrone. Le nomine negli uffici di diretta collaborazione rispondono ad un “tempo politico” e ciò dovrebbe portare a cambiamenti continui. Di fatto, vi è un ristretto gruppo di “professionisti del gabinettismo” che emigra da un ministero all’altro, oppure incarna la continuità svolgendo ininterrottamente la stessa funzione in governi diversi. Nella storia del dopoguerra si segnalano casi di permanenza ultradecennale sempre nel medesimo ministero. A ben vedere non è questione di competenze. Con le dovute eccezioni, i consiglieri di Stato, i consiglieri della Corte dei conti, piuttosto che gli Avvocati dello Stato sono persone competentissime sul piano giuridico. Conoscitori finissimi delle leggi, ma sovente sublimi conservatori, che riescono a sterilizzare in fase attuativa i cambiamenti innescati da leggi potenzialmente innovative.

 

Il presidente del Consiglio ha dichiarato di volere cominciare da un ricambio robusto ai vertici. Proposito assai incoraggiante. Nelle prossime settimane si vedrà, ma soprattutto in pochi mesi si capirà quali potranno essere i risultati in termini di cambio di marcia delle amministrazioni.

*Stefano Sepe

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