EDITORIALE
Competenze, competenze, competenze
Inutile girarci intorno: la carenza di competenze nella PA costituisce probabilmente il maggior freno ad una sua reale innovazione. Questo è il tema su cui chiediamo ora, con una consultazione di PanelPA, la vostra opinione e il vostro giudizio. È la nostra community che porta avanti nella PA la bandiera dell’innovazione, ma, come non ci stanchiamo di ripetere, innovazione senza attenzione e empowerment delle persone è inutile tecnocrazia che non costruisce alcun solido cambiamento
29 Marzo 2018
Carlo Mochi Sismondi
Inutile girarci intorno: la carenza di competenze nella PA costituisce probabilmente il maggior freno ad una sua reale innovazione sia istituzionale, sia organizzativa, sia infine tecnologica, tale da permettere di usare al meglio le potenzialità di una transizione al digitale ad oggi più evocata che agìta. Questo è il tema su cui chiediamo ora, con una consultazione di PanelPA, la vostra opinione e il vostro giudizio. Siete voi, è la nostra community che porta avanti nella PA la bandiera dell’innovazione, ma, come non ci stanchiamo di ripetere, innovazione senza attenzione e empowerment delle persone è inutile tecnocrazia che non costruisce alcun solido cambiamento.
La carenza di competenze adeguate ha radici antiche: le assunzioni, fatte quando ancora si poteva assumere, erano comprensibilmente mirate alle necessità di una PA radicalmente diversa da quella che serve ora. Una PA che si occupava soprattutto di adempimenti, di autorizzazioni, di procedimenti amministrativi standard, di fornire servizi uguali per tutti con il massimo di qualità e velocità possibile, ma secondo un processo di tipo “fordista”, dove la produttività poteva essere calcolata in qualcosa di simile ad unità di prodotto per tempo. Sono stati assunti così profili per lo più esecutivi (l’Italia ha il più basso tasso di laureati nella PA tra i Paesi europei) e le figure direttive sono state selezionate sulla base delle competenze giuridiche, immaginando che il Vangelo dell’amministrazione fosse il diritto amministrativo.
La PA che ci serve ora è qualcosa di radicalmente diverso: è quella che è aperta a partecipazione, trasparenza e collaborazione, che ha imparato a “governare con la rete”, è quella che sa che l’energia di una comunità è fuori dal palazzo, che considera la complessità e la diversità come una ricchezza, che gioca un ruolo di regista e non di attore in prima persona, che è continuamente integrata e connessa, che si riconosce come una grande knowledge farm in cui la materia prima non sono più i procedimenti o le norme, ma i dati e la conoscenza.
Cambiare un’organizzazione enorme e frammentata come la PA italiana vuol dire cimentarsi con le teorie del caos. È un compito che sconta oltretutto uno sfasamento temporale insormontabile: il cambiamento che ci serve deve essere tempestivo, ma gli impiegati assunti ieri avevano davanti una permanenza media nella PA di oltre trent’anni che, a causa dell’avanzamento dell’età pensionabile, sono diventati spesso quaranta e più. Ce li ritroviamo quindi tutti dentro: idonei e spesso competenti per compiti che ora non sono essenziali, tesi però a conservare comunque l’ecosistema che li ha assunti, non solo per innata e umana paura del cambiamento, ma perché è l’ambiente in cui le loro competenze possono ancora servire. Peccato che servano poco ad un Paese moderno che ha bisogno di una PA molto più snella, che stia al timone e non ai remi e che abiliti così le potenzialità della società intera.
Di fronte a questo stato di cose non esiste ovviamente una bacchetta magica in grado di cambiare le cose in un attimo: esistono però delle politiche che, se attuate coraggiosamente e integrate tra loro, potrebbero cominciare a indurre cambiamenti positivi. Le leve principali possono essere solo due: accelerare e non frenare il turnover e quindi assumere i più bravi giovani laureati che abbiano i profili adeguati alle esigenze attuali, ma anche e soprattutto agire per un empowerment delle persone che ora lavorano nella PA. Empowerment vuol dire certo formazione, ma non solo. Vuol dire anche fare squadra, condividere obiettivi, strumenti e indicatori di risultato, rendere le persone partecipi e coinvolte in quello che fanno. Fidarsi di loro e studiare con loro le modalità di lavoro (anche agile) che ottimizzino i reciproci interessi. Vuol dire tutto questo, ma certo senza un’adeguata, aggiornata, tempestiva formazione non si costruisce nulla. Nel 2016 ogni dipendente ha partecipato a poco più di una giornata di formazione, ed è difficile pensare che queste medie siano sufficienti ad adeguare il livello delle competenze di impiegati e dirigenti della PA all’accelerazione che dovrebbe portare le amministrazioni ad essere efficaci e capaci di innovare i servizi e le politiche del Paese. Il tema della formazione è quindi centrale e noi pensiamo che sia importante arricchire il dibattito attraverso il punto di vista proprio dei dipendenti pubblici.
Proprio per questo che, come dicevamo in partenza, abbiamo lanciato un PanelPA per chiedere a voi, alla nostra community che ne pensate, qual è secondo la vostra esperienza lo stato dell’arte nel campo delle competenze e del loro aggiornamento, cosa bisognerebbe fare per colmare questo grande divario tra bisogni e offerta formativa.
Trovate il questionario a questo indirizzo: ci aspettiamo che, come sempre, rispondiate numerosi perché è la vostra voce che porteremo sui tavoli delle decisioni, a cominciare dal prossimo FORUM PA 2018 (Roma – La Nuvola – 22-24 maggio).