La mobilità sociale è donna: cosa ci raccontano i dati su competenze, formazione e lavoro

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Azioni importanti sono state fatte negli ultimi anni per colmare il divario di genere, in particolare nelle professioni scientifiche, ma non sono ancora sufficienti. Le donne hanno un livello di istruzione maggiore e partecipano di più alla vita culturale del paese, ma, una volta raggiunti risultati importanti, il “sistema” le obbliga a fermarsi. Partendo da alcune recenti analisi sul tema, proviamo a capire su quali livelli agire per ottenere un reale cambiamento. A partire da azioni di sistema, in grado di garantire alle donne di scegliere con libertà e senza condizionamenti in ogni fase della loro vita, in formazione e sul lavoro

7 Dicembre 2022

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Mirta Michilli

Direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale

Photo by Simon Maage on Unsplash - https://unsplash.com/photos/tXiMrX3Gc-g

In un tweet di qualche settimana fa la tecnologa del Cnr Luisa Neri segnalava un risultato importante: per la prima volta le studentesse iscritte alla triennale di Fisica dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia hanno superato il numero degli iscritti. Ha evidenziato divari più contenuti tra laureate e laureati in materie Stem (science, technology, engineering, mathematics) anche il primo Rapporto tematico di genere “Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali”, pubblicato all’inizio dell’anno dal Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea. Qualcosa sta cambiando, grazie al lavoro fatto in questi anni, ma è evidente che non è abbastanza, perché la parità di genere continua ad allontanarsi. Secondo il Global Gender Gap Report 2022, con le tendenze attuali, il divario globale di genere potrà essere chiuso in 132 anni. L’Italia è al 63° posto su 146 paesi e al 18° posto tra i paesi europei. Perché siamo ancora così lontani?

Il quadro che ricostruisce AlmaLaura è molto interessante. Sono le ragazze che stanno rimettendo in moto l’ascensore sociale. Anche se provengono da contesti familiari meno favoriti (il 28,3% delle laureate ha almeno un genitore laureato rispetto al 34,3% degli uomini), le ragazze sono più motivate e intraprendenti, con percentuale minore dei ragazzi finiscono fuori corso e rappresentano il 60% dei laureati in Italia, con risultati migliori (il voto medio di laurea è 103,9/110 per le donne e 102,1 per gli uomini). Durante il percorso universitario, le donne prendono parte più degli uomini alle esperienze di tirocinio curriculare, di studio all’estero e di lavoro. Ma allora cosa succede? In realtà le donne stanno facendo di più e meglio, hanno un livello di istruzione maggiore e partecipano di più alla vita culturale del paese, ma, una volta raggiunti risultati importanti, il “sistema” le obbliga a fermarsi.

Sul quotidiano La Repubblica la giornalista Marina de Ghantuz Cubbe ha raccontato come Eures Ricerche ha rielaborato i dati di AlmaLaurea per il Lazio [vedi l’articolo Gender gap nel Lazio. Le donne studiano di più e guadagnano ogni anno 6500 euro in meno, La Repubblica, 5 settembre 2022]. In sintesi, le ragazze partono in svantaggio, recuperano e arrivano prima. Poi vengono fermate sul lavoro, con proposte occupazionali più fragili, stipendi inferiori, poche tutele familiari e limitazioni alla carriera. “La maggior parte riesce a laurearsi anche se ha entrambi i genitori senza pergamena: il 64% delle neodottoresse contro il 57,5% dei neolaureati. Ancora: il 18% delle ragazze iscritte negli atenei del Lazio ha dichiarato che i genitori non hanno neanche il diploma del liceo, quota che si attesta al 13,5% tra i colleghi maschi. I dati mostrano dunque una generale condizione di svantaggio alla partenza per le donne che però poi, secondo Eures, sviluppano ‘una maggiore capacità di ascesa intergenerazionale rispetto agli uomini'”.

Sicuramente da leggere anche l’analisi Stem in action, realizzata dall’Osservatorio di Talents Venture in collaborazione con Unindustria Roma e con il contributo della Camera di Commercio di Roma. Scopriamo così che ci sono atenei dove la parità di genere nelle discipline scientifiche già esiste, come Campus Bio Medico di Roma e l’Università degli Studi della Tuscia, che vantano rispettivamente il 61% e il 59% di donne iscritte nei corsi Stem. Da questa analisi capiamo che azioni importanti sono state fatte per colmare il divario di genere nelle professioni scientifiche, ma sono insufficienti se non sono accompagnate da azioni di sistema, in grado di garantire alle donne di scegliere con libertà e senza condizionamenti in ogni fase della loro vita, in formazione e sul lavoro. Se continuiamo a intervenire in maniera settoriale, con azioni destinate solo o alle bambine o alle studentesse adolescenti o alle universitarie, rischiamo di non valorizzare i risultati raggiunti finora.

Se vogliamo ottenere un reale cambiamento, anche a livello culturale, a mio parere occorre lavorare in contemporanea su più livelli, in modo da:

  • raggiungere il punto di massa critica con azioni “a pioggia” che coinvolgano destinatari di tutte le età, dalle bambine della scuola dell’infanzia alle nonne, grazie anche a laboratori intergenerazionali, con un processo continuo di ri-orientamento;
  • intervenire a livello di sistema con politiche attive per il lavoro delle donne, che rimuovano i diversi ostacoli e sperimentino nuove forme di supporto per conciliare, ad esempio, i tempi di cura familiare con la carriera. Aiutare le ragazze a comprendere le trasformazioni del lavoro;
  • rileggere gli obiettivi di sviluppo sostenibile in una prospettiva di genere, come suggerisce il recente “Progress on the Sustainable Development Goals – The Gender Snapshot 2022”, perché investire nelle donne e nelle ragazze aiuta a recuperare e accelerare i progressi.

A livello di frame mentali che guidano le nostre azioni, credo sia importante superare lo schema rigido delle Stem come “scienze dure”, e preferire l’espressione Steam (con l’aggiunta delle arti), anche perché la sfida della consilience, la convergenza di discipline diverse, può essere molto più attrattiva per le donne, sicuramente più versatili nelle capacità di ibridare le professioni. Dobbiamo poi considerare l’apprendimento come un processo multidimensionale dove è centrale il processo di empowerment per accrescere in ciascuna la possibilità di controllare attivamente la propria vita e di superare gli ostacoli posti dal sistema. Come fare? Con quali strumenti?

Con il contributo del professore Alfonso Molina, direttore scientifico della Fondazione Mondo Digitale e personal chair in Technology Strategy all’Università di Edimburgo, stiamo sviluppando un programma formativo, corredato da strumenti di sviluppo personale e collettivo, per aiutare soprattutto ragazze e giovani donne a sviluppare in modo adeguato la competenza dell’autoimprenditorialità, cioè la capacità di fare il punto su se stesse in modo organizzato. Alla base c’è una visione originale basata sul concetto di sostenibilità olistica e sulla teoria degli ecosistemi personali. Studiosi ed esperti tendono a concentrarsi soprattutto sulla sostenibilità esterna, cioè le complesse relazioni tra società, economia e ambiente, e tendono a trascurare la sostenibilità interiore, cioè valori, convinzioni e atteggiamenti che guidano i comportamenti delle persone. Nella sostenibilità olistica le due dimensioni, interna ed esterna, sono integrate e, in prospettiva, in grado di allinearsi. Il Personal Ecosystem Canvas è lo strumento di sviluppo personale e collettivo che aiuta l’indagine dell’ecosistema personale per allinearlo con la sfera sociale e lavorativa. In questo modo aiutiamo le ragazze ad acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità e a diventare inarrestabili nel processo di crescita, in grado di comprendere e superare i fattori di disallineamento, per costruire uno sviluppo sostenibile per tutti. Non solo l’ascensore sociale è donna, ma anche il motore dello sviluppo sostenibile è a trazione femminile.

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