Condivisione di beni e servizi nella PA: solo altre Linee Guida? No, grazie

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All’indomani della proposta di legge sulla sharing
economy, trovare qualcuno che non sia d’accordo sul fatto che le piattaforme
dell’economia collaborativa possano semplificare il lavoro della PA e renderlo
più efficiente non è cosa facile. Il punto è piuttosto capire in che modo e a quali condizioni questo si possa realizzare. Secondo Francesco R. Frieri, direttore Risorse Organizzazione
Innovazione Europa Istituzioni, Regione Emilia-Romagna, già Direttore generale Unione dei Comuni della Bassa Romagna “l’approccio
proposto è interessante ma la vera opportunità sta nella possibilità per la PA di
contaminarsi il più possibile con quello che c’è fuori, per sviluppare un
network di servizi che valorizzi le tante realtà esterne”. Spunti di riflessione verso FORUM PA 2016.

27 Aprile 2016

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Chiara Buongiovanni

Riconosciute come strumento di semplificazione e ottimizzazione delle risorse, le piattaforme e le dinamiche dell’economia collaborativa registrano una certa indifferenza da parte della PA, nonostante la loro natura sia in linea con le riforme in atto, in primis quella sul riordino istituzionale degli enti locali. La proposta di legge c. d. sulla sharing economy, attualmente in consultazione pubblica, cerca di intervenire su questo punto, dedicando un articolo proprio all’emanazione di “Linee Guida destinate agli enti locali, per valorizzare e diffondere le buone pratiche nell’ambito dell’economia della condivisione al fine di abilitare processi sperimentali di condivisione di beni e servizi nella PA“. Come fare per evitare che siano solo altre Linee guida?

Secondo Francesco R. Frieri, che dal 2009 a inizio anno è stato direttore di una delle Unioni di Comuni meglio riuscite in Italia, quella della Bassa Romagna, l’approccio proposto è quello giusto ma la vera opportunità sta nella possibilità per la PA di contaminarsi il più possibile con quello che c’è fuori, per sviluppare un network di servizi che valorizzi le tante realtà esterne. E spiega: “se non possiamo assumere nuovi profili non ha senso pensare a una piattaforma per il reperimento di competenze di comunicazione e grafica avanzata. Queste competenze sono più diffuse sul mercato, quindi la domanda semmai è capire come startup di giovani possano essere utili a più amministrazioni, grazie a queste piattaforme”.

Formazione e giovani energie
Le Linee guida sono uno strumento adeguato o abbiamo bisogno addirittura di nuove norme?
Per Frieri la via maestra non è questa. C’è bisogno di formazione. Si tratta di un approccio del tutto diverso, fondato sul cambiamento della cultura organizzativa per cui, inutile girarci intorno, ci vorranno anni”. A quanto pare la questione è collegata al turnover nella PA: servono energie fresche e giovani generazioni. “E’ un problema di risocializzazione tecnologica che passa dalla diffusione del mobile nella PA e arriva al blocco generazionale: da troppo tempo la nostra PA non ha trasfusioni e questo è un grande limite. Se lo Stato vuole che la PA cresca ci vogliono dei giovani, non c’è niente da fare”. “Nel lavoro dell’Intergruppo parlamentare – continua Frieri – vedo un’importante opportunità, ma affinché questo approccio prenda piede deve necessariamente integrarsi con le altre Riforme: Riforma della PA e Riordino istituzionale. In altri termini deve riferirsi a una pubblica amministrazione disarticolata e dislocata sul territorio, aiutando i territori stessi a mettere a fuoco la dimensione minima ottimale”.

A chi compete cosa (e con quale spirito)
In questo senso, lo Stato ha sicuramente un ruolo in materia di riordino istituzionale, così come un ruolo importante è della Regione e dei singoli enti locali. Secondo Frieri un rischio da sventare è quello di trasformare il ruolo delle Regioni da propulsori e fornitori di servizi, quale dovrebbe essere, in “centrali di acquisto massive”. “Secondo me – insiste – il ragionamento andrebbe impostato non tanto sull’acquisto di beni quanto su uso intelligente e non spreco di servizi e attività che vengono svolte, tra cui la formazione. Per intenderci: non abbiamo bisogno una app che attraverso una CUC (Centrale Unica di Committenza) nazionale ci faccia comprare un bancale di penne, che dobbiamo poi preoccuparci di stoccare da qualche parte fino a che non si seccheranno”.
Infine ma non da ultimo, per l’esperienza maturata l’ex direttore dell’Unione dei Comuni Bassa Romagna raccomanda: “se qualcuno vuole fare una gigantesca operazione di change management deve partire dal capitale umano, cercando di trasmettere a questo capitale umano la grande opportunità o almeno l’assenza di alternative per abbracciare il cambiamento”.

La chiave politica a questo stadio è fondamentale perché come riconosciuto da Frieri stesso la leadership è della politica, chiamata a guidare e a esprimere strategie di sviluppo territoriale.

Le piattaforme a servizio della formazione
Da dove partire? Su questo nessun dubbio: “Partirei dalla formazione del personale che è stata dimezzata dal decreto legge 78/2010 e non si è più ripresa. Il vantaggio della sharing economy secondo me è riuscire in alcuni settori ad abbassare drasticamente i costi. Le piattaforme formative sono particolarmente interessanti e vivaci oltreoceano, decisamente ancora poco sfruttate da noi. Potrebbero permetterci di sfruttare le competenze in termini collaborativi tra amministrazioni, ad esempio, presenti in una stessa area geografica a prescindere dalla natura dell’ente: statale, regionale, locale così come potrebbero offrici la possibilità di minimizzare i costi di formazione per enti particolarmente isolati, accedendo a dei prodotti formativi resi disponibili in lingua italiana”.

Piattaforme e patrimoni della PA: abolire i regolamenti
Oltre alle applicazioni più diffuse, riferibili soprattutto alla mobilità condivisa, un’applicazione possibile e particolarmente promettente è quella dei patrimoni mobiliari della PA.
“Generalmente – spiega Frieri – non si ha idea di quanti inventari ci siano nelle amministrazioni: suppellettili, arredi, auto… ognuno ha le proprie”. Per agire su questo livello – continua – c’è bisogno di una piattaforma collaborativa ma soprattutto di abolire i regolamenti. I regolamenti interni spesso sono fatti per dare un ruolo a un ufficio che, per poter controllare il comportamento individuale delle persone, ha costruito un sistema di sanzioni e condizioni: quello di cui non ci si rende conto è che si finisce per sprecare il patrimonio perché se ne impedisce l’uso”.

Una PA agile e deregolamentata?
“Io sarei per un regolamento abbastanza semplice valido per tutti, con poche norme di natura etica in cui sostanzialmente si stabilisce che quanto non è compreso nel dettaglio nel regolamento sarà comunque oggetto di una valutazione di natura etica, nel rispetto del principio di non appropriazione. Con una clausola: se hai una cosa in più nel tuo ufficio mettila a disposizione degli altri”.
Insomma, l’orizzonte entro cui si agisce non è un irrilevante, anzi. “Quando nella pubblica amministrazione spostiamo il focus dalla motivazione intrinseca dei valori del dipendente pubblico a quella estrinseca – leggi controllo e denaro – abbiamo già perso qualcosa”.

Per tornare alla domanda di lavoro che approfondiremo nel tavolo di discussione del 25 maggio (mattina) a FORUM PA 2016 “Legge Sharing Economy: riscriviamo l’articolo sulla PA collaborativa”, Frieri propone di partire da questo interrogativo: perché solo il 15% dei comuni sotto i 15.000 abitanti in un anno ha trasferito la totalità delle funzioni, non rispettando gli obblighi previsti da legge? E come è possibile che questa situazione persista? “Forse perché il processo si è concentrato sulla riforma del contenitore prima che del contenuto con il risultato che il contenuto non si muove”.

Sul tema a #forumpa2016 non perdere Sharing City, dalla visione alle realtà. Esperienze e soggetti dell’economia collaborativa a confronto sulla proposta di legge il 25 maggio (pomeriggio).

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