Contributo “Innovazione frettolosa e innovazione strategica” di G. Menduni

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L’Italia sta affrontando una pesante crisi economica a fronte di una altrettanto forte emorragia di capitale sociale. Colpisce il fatto che Robert Putnam si innamorò del nostro paese probabilmente proprio per la sua forte capacità di coesione e identità. Dunque di “capitale” ne avevamo e da vendere.

2 Novembre 2010

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Giovanni Menduni

Articolo FPA

L’Italia sta affrontando una pesante crisi economica a fronte di una altrettanto forte emorragia di capitale sociale. Colpisce il fatto che Robert Putnam si innamorò del nostro paese probabilmente proprio per la sua forte capacità di coesione e identità. Dunque di “capitale” ne avevamo e da vendere.

Perdere capitale sociale significa, tra le altre cose, il venire meno dell’asset indispensabile a produrre la resilienza, cioè la capacità di resistere ai traumi e, soprattutto, quella di ripartire dopo i traumi. La benzina, insomma, per sconfiggere la crisi e tornare allo sviluppo.
Più sottile, ma altrettanto cogente, l’aspetto “non lineare” della questione. I beni che formano il capitale sociale, al contrario di altre risorse tendono, come le virtù, a crescere con l’uso. Una sorta di allenamento che rende la comunità forte sempre più forte. Al contrario la sistematica evaporazione delle regole, la sfiducia, il qualunquismo, l’isolamento, il disordine e la stagnazione tendono altresì ad intensificarsi a loro volta in un soffocante circolo vizioso.
Vengo adesso all’innovazione. Viviamo una fase storica caratterizzata da una decisa offerta di tecnologia naturalmente orientata dalle regole del mercato. Si tratta spesso di una continua raffica di “novità” che, a fronte di ogni tentativo di organizzare una qualsiasi strategia di fruizione strutturata, tende al contrario a spezzettare, parcellizzare, frazionare in una giustapposizione di gadgets, sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro.

Questo fatto, peraltro, origina paradossalmente una sostanziale sfiducia proprio nei prodotti della stessa innovazione. Il telefonino di ultima generazione che stiamo acquistando, prima ancora che sia scartato dalla confezione, è in buona sostanza già morto. Condannato a soccombere dalla successiva release del suo software, dal nuovo microprocessore, dallo schermo a maggiore risoluzione che già la casa produttrice ha sviluppato e che, seguendo le strategie del marketing, è magari già oggi commercializzato in qualche parte del mondo.
Un approccio, questo, che permea spesso il mondo della Pubblica amministrazione, laddove la “città intelligente” è vista appunto come utilizzo “tattico” di dispositivi innovativi, applicazioni o prodotti web promossi senz’altro virtuosamente, ma in maniera sostanzialmente episodica e al di fuori da una logica complessiva. Vediamo spesso i siti istituzionali di molti comuni italiani che si popolano di oggetti che curano questo o quell’aspetto della mobilità piuttosto che dell’istruzione e che, proprio per il loro isolamento da una visione strategica, nascono anch’essi “morti” per poi morire davvero nel giro di pochi mesi o pochi anni per mancanza di una visione globale nella loro messa a punto, manutenzione e sviluppo.
I due aspetti, futile innovazione e capitale sociale, sono peraltro connessi tra loro. L’idea che “ciò che verrà subito dopo” dovrà essere assiomaticamente migliore di ciò che è adesso, che il rapporto personale virtuale superi in efficacia quello fisico, che l’identità sia riconducibile ad un qualsiasi “profilo” impostato su un social network, non aiuta a rendere forte una comunità. Comunque non l’aiuta in assenza dell’altra metà del problema. E cioè del gruppo forte e organizzato che trova nella tecnologia un peculiare momento di sviluppo, tra tanti altri, per la propria identità.
Occorre porre adesso alcune questioni di fondo. La prima è che l’innovazione è un processo faticoso e profondo. Chi è deputato ad affrontare questo argomento deve comprendere che si tratta innanzitutto di definire una vision complessiva orizzontale, nel senso dello spettro delle aree tematiche, e verticale, proiettando nel tempo l’articolazione delle scelte. Non ha senso pensare a processi settoriali legati a questo o quel servizio, al di fuori da una strategia complessiva. Il superamento del digital divide costituisce peraltro una premessa cui non tutti, ancora, danno l’impressione di aver preso davvero coscienza. Tuttora sussistono aree, anche nell’ambito delle grandi città metropolitane, ove la disponibilità di banda larga è modesta o, addirittura, assente.

Innovare significa dunque “saper vedere”, al di là di questa o quella tecnologia, un percorso prospettico e saper subito individuare la completa estensione della filiera di attività e procedure in grado di garantire il funzionamento dei processi. La nostra società ha più che mai bisogno di canali multipli, di opzioni di accesso, di fruizione e di pagamento differenziate che sappiano intercettare le esigenze delle diverse fasce sociali e culturali. La scelta di affidare un servizio al web, se priva di una complessiva strategia di strutturazione dei front offices e dei back offices, se semplice tessera di un mosaico povero e disperso, è inutile e probabilmente dannosa, andando ad aggiungere entropia ad un processo comunicativo di per sé, spesso, caotico.

Si è dunque detto che la innovazione “frettolosa” ha una buona attitudine a produrre ulteriore perdita di capitale sociale. È fortunatamente vero il contrario per l’innovazione “strategica” che pone i processi partecipati, le strategie di ascolto e di condivisione al primo posto nella formazione delle decisioni. Si tratta di una visione sussidiaria nella quale le scelte, sulla scorta di pochi grandi progetti “quadro” nazionali, possono essere declinati localmente, trovando nelle esigenze espresse dalle comunità, le scale spaziali più corrette per la loro implementazione.
E qui veniamo alla innovazione “dal basso”, intendendo quella che parte dallo sviluppo dei “beni relazionali”, dall’incremento di qualità della vita delle comunità locali. Dobbiamo avere il coraggio di dare nuova legittimità al concetto di identità, ben al di fuori di ogni sterile chiusura nei confronti dell’“altro”. D’altro canto basti pensare agli Stati uniti, comunità a tutto tondo, eppure crogiolo attivo di mille razze e culture.

A Firenze, nell’ambito di una ampia declinazione della partecipazione, il Sindaco ha proposto cento assemblee popolari da svolgersi contemporaneamente in altrettante sedi sprase sul tessuto urbano. Assemblee orientate a problemi locali, nel senso di “legati a un luogo”, un giardino, una via, una piazza, e finalizzati alla percezione interattiva del percorso che l’Amministrazione va svolgendo. L’evento è avvenuto lo scorso 28 settembre.
È stato anche un dispiegamento di tecnologia. I forum sul web hanno lavorato a lungo nella fase di preparazione e i cento reports, assieme alle foto di gruppo di ciascuna assemblea, sono stati contemporaneamente messi in rete la sera stessa, a poche minuti dalla conclusione degli incontri. Colpisce altresì il risultato della partecipazione “fisica” di oltre diecimila persone e la compilazione di tremila messaggi scritti di pugno dagli stessi cittadini. Ne deriviamo un forte bisogno di coinvolgimento, di ritrovarsi, di mettere a fattor comune le esigenze. Non è certo la panacea dell’innovazione ma, comunque, una occasione di riflessione sulla quale stiamo lavorando.
 

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