Contributo “Ueee ueee, i pianti dei neonati e una proposta da padre per il futuro dell’Europa” di L. Bolognini

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Nel 2020 avrò 40 anni, e lei 10. Essere genitori di un neonato, nel mio caso di una bella bimba, mette in circolo pensieri e desideri che mi sento di definire “comuni”, in quanto diffusi e condivisi, solitamente, tra tutti quanti stiano vivendo la stessa esperienza di padri e madri nei primi mesi.

2 Novembre 2010

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Luca Bolognini

Articolo FPA

Nel 2020 avrò 40 anni, e lei 10. Essere genitori di un neonato, nel mio caso di una bella bimba, mette in circolo pensieri e desideri che mi sento di definire “comuni”, in quanto diffusi e condivisi, solitamente, tra tutti quanti stiano vivendo la stessa esperienza di padri e madri nei primi mesi. Tra essi (pensieri, desideri di sottofondo ai pianti dell’infante, e omettendo – questione di privacy – gli aspetti affettivi più intimi) due ricorrono con frequenza significativa: il primo, che potrei denominare “Che ne sarà di noi?”, riguarda il futuro che aspetterà il proprio figlio e noi giovani genitori in termini sociali, ambientali ed economici; il secondo, che chiamerei “Si salvi chi può”, è una necessità più immediata e urgente di invenzioni, progressi e soluzioni per accudire e curare un figlio nel migliore dei modi.

Parto da quest’ultimo “sottofondo”. L’essere umano nasce incapace (quasi) di tutto. A differenza di molte specie animali, il piccolo d’uomo non è in grado di fare alcunché per parecchio tempo, salvo attaccarsi al seno per mangiare, ma lo sappiamo e non è una novità: per queste ragioni, i neo-genitori di ogni epoca hanno scoperto l’utilità di “invenzioni”, strumenti e stratagemmi utili alla gestione della creatura, oggi le acquistano, alcune le scartano perché non funzionano, altre vengono adorate e benedette perché indispensabili (come facevano, una volta, senza pannolini usa e getta?), altre ancora vengono immaginate e desiderate perché non esistono e invece farebbero comodo o risolverebbero problemi seri e fastidi meno seri. La ricerca e lo sviluppo di questi oggetti, che, dopotutto, sono idee applicate grazie allo studio scientifico dei bisogni, è in continua evoluzione e ogni anno escono ritrovati nuovi, necessari, quindi preziosi e di successo anche sul piano commerciale. In numerosi casi, la tecnologia e la medicina possono salvarci o comunque salvaguardare la qualità della vita famigliare.

Il pensiero ricorrente numero uno è, poi, quello sul futuro dei nostri figli e, prima ancora, di noi stessi genitori venti-trentenni: più che un pensiero, un timore concreto che ci inquieta costantemente. Che ne sarà di noi, europei nel mondo, italiani in Europa, regionali/federalisti in Italia? Da anni leggiamo (l’ho commentato più volte anch’io, in editoriali su giornali nazionali e stranieri, e ormai è noioso ripeterlo) che le nuove generazioni hanno (abbiamo) aspettative negative per il domani, nel senso che staranno (staremo) peggio dei genitori ora cinquanta-sessantenni. Ambiente (inquinamento, riscaldamento globale), economia (globalizzazione, crisi finanziaria, debito pubblico), società (dis-integrazioni culturali e affettive da “relazione liquida”) stanno avvelenando le prospettive di chi è nato dopo gli anni settanta del secolo scorso. Guardare la propria figlia sorridente e fiduciosa, e immaginare la sua giovinezza e la sua età adulta, sapendo che forse non si potrà aiutarla, che forse mancherà l’ossigeno nell’aria, che forse non conoscerà o dimenticherà valori e culture fondanti della nostra civiltà, che forse verrà sradicata dalla sua terra di origine e dovrà vivere e lavorare altrove in qualche non-luogo produttivo e “sterile”, è un’angoscia difficile da sostenere. Come lo è immaginarsi vecchi, noi figli dei baby boomers, senza pensione (malgrado i decenni di inutili versamenti contributivi – che sono vere tasse e andrebbero calcolati nella pressione fiscale, diciamolo: se letta così, in Italia un contribuente minimo paga almeno il 55% di gabelle dirette sul reddito) e declinanti nel medesimo contesto decadente, destrutturato, frantumato in cui si muoveranno i nostri figli.

Queste tinte fosche fanno parte di un incubo, però è nostro dovere ribaltarne la lettura: “che ne sarà di noi” è anche una speranza, ma non in senso poetico, bensì in chiave duramente realista, severamente scientifica, responsabilmente politica. Di più: è una consapevolezza che indica la strada, che fa da bussola per provare ad invertire i nostri destini. Non ci sono scuse: il treno passa adesso e si chiama Europa 2020. E’ la strategia di sviluppo europeo per i prossimi dieci anni, che tuttavia, se ben attuata, avrà ricadute (positive) sull’intero secolo: è la scialuppa che può portare in salvo chi oggi si trova ancora in fasce e chi lo allatta, chi è nato trent’anni fa e chi arriva al mondo in questi mesi. Il tema è troppo vasto e complesso per esaurirlo nel poco spazio di questa riflessione, ma ha senso fare proposte concrete, tornando con la mente alle tanto desiderate “invenzioni” di cui parlavo, non per caso, all’inizio di questo articolo. Un neonato asseta e affama, con i suoi vagiti, di ricerca e sviluppo, di nuove soluzioni, che consentano di farlo crescere bene, prima, e di farlo vivere serenamente, di sostenere la sua esistenza e quella degli anziani genitori, dopo. Se la risposta alla crisi di futuro sta nell’avanzamento della conoscenza applicata, se questo può comportare, insieme, più benessere e competitività globale, più sostenibilità energetica e ambientale, più integrazione e più comunicazione e comprensione tra popoli differenti, allora si realizzino misure e aiuti che vanno in questa direzione. Il mercato e lo Stato dovrebbero unirsi in un circolo virtuoso, “neo-keynesiano” e solidale tra generazioni, in armonia con Europe 2020, senza partecipazioni pubbliche né lacci burocratici ma con interventi settoriali mirati ad obiettivi nobili, controllabili, futuribili. Gli aiuti di Stato sono consentiti, anche in UE, se portano acqua al mulino della ricerca e dello sviluppo nel segno dell’innovazione intelligente, dell’inclusione e della sostenibilità.

Proposte concrete, dicevo. Dunque, ne formulo una (tra tante possibili) in conclusione. Perché non scrivere e presentare un ddl quadro di esenzioni fiscali, da recepire con apposite leggi su scala regionale, per iniziative di spin-off e brevettazione, ad opera di ricercatori under-35 (sì, mettiamoci la quota anagrafica), di qualsiasi nazionalità e che però si stabiliscano all’interno di nostri distretti produttivi regionali e lavorino con l’azione coordinata di soggetti pubblici (università e incubatori in primis) e privati (imprese) appartenenti al medesimo distretto? Sarebbe perfettamente in linea con la strategia Europa 2020 e compatibile con il regolamento (CE) n. 800/2008 della Commissione del 6 agosto 2008 sugli aiuti di stato. Otterremmo diversi frutti con un solo provvedimento: sosterremmo i più giovani (che non sognano di fare i baroni, ma di costruire un domani accettabile per sé e per i propri figli), innescheremmo innovazione, arricchiremmo e renderemmo più forte e avanzata l’offerta di mercato su scala globale, favoriremmo l’esaltazione delle diversità regionali e l’attrazione/integrazione di scholars stranieri nel nostro tessuto. Sarebbe un passo tangibile verso l’Europa dei popoli, delle regioni, dei giovani, dell’innovazione. I fondi potrebbero arrivare dalla riforma delle pensioni, cioè da quei nostri soldi che versiamo a perdere e non rivedremo, altrimenti, mai più. Chissà che un siffatto genere di incentivi non si approvi e realizzi davvero, in questi dieci anni, e che qualche papà o mamma, giovani ricercatori meditabondi, non inventino grazie a queste misure uno scaldabiberon portatile a energia solare, o una macchina che trasforma pannolini usati biodegradabili in energia verde, o vaccinazioni senza punture, o mille altre cose per grandi e piccini, desiderabili, sostenibili, intelligenti, pulite, inclusive e competitive. Buttiamo giù una proposta di legge in materia: i neonati non sanno ancora scrivere, ma noi sì, noi avremmo il dovere di farlo (anche) per loro.
 

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