EDITORIALE

Dall’innovazione per decreto all’innovazione per emergenza. Quando diventeremo un paese normale?

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In una nazione in cui una manciata di mesi fa si discuteva ancora di tornelli e di impronte digitali per meglio controllare la presenza fisica nei posti di lavoro ora, si inneggia improvvisamente alla flessibilità, alla formazione a distanza, allo smart working. Ci mancherebbe altro, per fortuna, era ora, dovremmo dire. Ma c’è il rischio che, dopo che per decenni ci si è illusi che si potesse informatizzare il paese per legge, ora ci si illuda, spinti dalla psicosi collettiva, che lo si possa fare per decreto d’emergenza

27 Febbraio 2020

Gianni Dominici

Amministratore Delegato FPA

Photo by Jukan Tateisi on Unsplash - https://unsplash.com/photos/bJhT_8nbUA0

E così, il nostro paese ha finalmente scoperto la modernità insieme alle fantastiche proprietà taumaturgiche della tecnologia. Serviva un’emergenza (in questo caso sanitaria) perché questo avvenisse? Per rispondere a questa domanda, comincerei dando un’occhiata al rapporto che abbiamo avuto finora con i temi dell’innovazione (non solo tecnologica). 

Siamo ultimi in tutte le classifiche internazionali sulla diffusione della tecnologia e condannati a recitare i numeri del DESI come in uno stanco e poco convinto eterno mea culpa. Releghiamo alla precarietà i nostri migliori ricercatori, quelli che nel frattempo non sono scappati all’estero. Abbiamo la più bassa percentuale europea di cittadini che utilizzano i servizi on line. Abbiamo la popolazione di dipendenti pubblici più anziana d’Europa a cui, oltretutto, e di fatto, non diamo alcuna possibilità di formazione e di aggiornamento.

Un paese dove ci si divide sulla nutella, dove si aprono e si chiudono i porti neanche fossero le porte di un ascensore. Un paese che però, quasi mai, parla di giovani e di futuro.

Un paese dove per decenni si è pensato che l’innovazione potesse essere promossa dagli amministrativisti concentrati a rinovellare norme e codici. Un paese convinto, e che ha tentato di convincere, che si potesse innovare per decreto, per legge, per riforma, trasformando e banalizzando i processi più importanti di cambiamento in mero, ulteriore adempimento. In scadenze sistematicamente prorogate.

In questo contesto, ad inizio anno abbiamo individuato (e descritto presentando il nostro rapporto annuale) tre importanti segnali che potrebbero finalmente dare il via ad un percorso di normalizzazione: 

  • Il primo è di natura politica. Per la prima volta la nostra politica ha condiviso scenari di sviluppo: il tema dello sviluppo sostenibile, il tema della quarta rivoluzione industriale sintetizzato dal presidente del consiglio con lo slogan “Smart Nation”, il piano “2025- strategie per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del paese”, presentato a fine 2019 dalla ministra Pisano. 
  • Il secondo segnale è che finalmente in Italia c’è una chiara governance dell’innovazione con una Ministra dedicata e un dipartimento, a cui risponde l’Agenzia per l’Italia Digitale. 
  • Infine, il terzo segnale riguarda la diffusa consapevolezza, ai diversi livelli, della centralità delle persone, dell’importanza del fattore umano nel portare avanti processi di cambiamento che si sostanzia, ad esempio, nello sblocco del turnover, nell’attenzione per le competenze digitali, nel diffondersi della cultura dello Smart Working, nelle iniziative di facilitazione, formazione e mentoring per accompagnare i nuovi assunti nella PA. 

Nel corso di quello che sembrava un processo di lenta normalizzazione è accaduto però l’imprevisto, la sociologica variabile interveniente, quella che sicuramente è una discontinuità nell’agenda del paese. E così in una nazione in cui una manciata di mesi fa si discuteva ancora di tornelli e di impronte digitali per meglio controllare la presenza fisica nei posti di lavoro ora, si inneggia improvvisamente alla flessibilità, alla formazione a distanza, allo smart working. 

Ci mancherebbe altro, per fortuna, era ora, dovremmo dire. Se penso che esattamente 20 anni fa diventai amministratore delegato di Atenea, una società di formazione a distanza creata dalla Fondazione Censis e da Agorà telematica con “l’obiettivo di affiancare la pubblica amministrazione nel processo di modernizzazione e digitalizzazione in atto, per trasformare contenuti e conoscenze attraverso la rete internet “. Ne è passato di tempo e i temi in primo piano non sono poi così cambiati, nonostante le tecnologie abbiano fatto un salto epocale. 

Come FPA siamo sempre stati convinti della necessità di affiancare soluzioni virtuali ad eventi in presenza, “click and brick” si diceva una volta. Nell’ultimo triennio abbiamo organizzato 64 webinar con 20.700 partecipanti totali; realizzato 560 tra interviste e reportage pubblicati sui nostri canali Youtube e Vimeo; registrato 362 podcast, pari a 51 ore di audio sul nostro canale Spreaker; prodotto 238 tra videolezioni, videopillole formative e video academy; trasmesso 115 ore di diretta streaming. A questo si aggiunge il patrimonio prodotto quotidianamente dal Gruppo Digital 360. 

Siamo quindi convinti che sia davvero importante cogliere questa occasione e siamo pronti a dare il nostro contributo. Ma c’è un però. C’è il rischio che, dopo che per decenni ci si è illusi che si potesse informatizzare il paese per legge, ora ci si illuda, spinti dalla psicosi collettiva, che lo si possa fare per decreto d’emergenza. 

La Direttiva Dadone, che incoraggia le pubbliche amministrazioni a potenziare il ricorso al lavoro agile, è un provvedimento positivo non soltanto per arginare l’emergenza “coronavirus”, ma anche perché potrebbe accelerare la diffusione dello smart working e dello smart learning nel settore pubblico. Per essere davvero una svolta, però, non deve restare una misura di emergenza, ma diventare un modello da sperimentare e applicare anche in tempi ordinari e inserirsi in un progetto più ampio di rinnovamento della PA, in cui l’utilizzo delle tecnologie smart è solo un elemento. L’innovazione del paese, e della PA in particolare, può e deve essere prioritariamente un’innovazione istituzionale, culturale e organizzativa. 

Per potersi diffondere lo smart working è necessario in primo luogo ripartire dalle persone, passare dalla cultura dell’adempimento alla collaborazione, puntare allo scambio di soluzioni e di esperienze all’interno degli enti e tra enti. Nel nostro lavoro di facilitatori e di accompagnatori della PA nei processi di innovazione, abbiamo notato che cresce il bisogno di “imparare come si pratica il cambiamento”. Le persone chiedono strumenti, modelli operativi, cassette degli attrezzi. È importante per questo puntare su due grandi leve: 

  • l’empowerment, l’accrescimento delle competenze e la condivisione di strumenti utili per governare la trasformazione digitale; 
  • lo sblocco del turn over. Nell’arco dei prossimi 3-4 anni 500mila dipendenti pubblici avranno maturato i requisiti per ritirarsi dal lavoro e saranno sostituiti da nuovo personale grazie allo sblocco del turn over di compensazione al 100%. Non basta sostituire le persone che andranno in pensione, è necessario capire di quali competenze ha bisogno la nostra PA e formarle. 

Da non sottovalutare, infine, il ripensamento dell’organizzazione, la creazione di un clima di fiducia, l’attenzione e il focus su obiettivi di sviluppo e non su adempimenti. È questo il contesto indispensabile da creare e da alimentare per far sì che le soluzioni tecnologiche diventino strumenti abilitanti di una pubblica amministrazione in grado non solo di reagire alle crisi del momento ma di essere protagonista nel costruire il futuro del paese.

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