Dall’open government all’open governance. È ora di fare sul serio
È urgente e importante ragionare su una seconda fase dell’open government basata sì sull’openness, ma anche e soprattutto sulla collaborazione. Si tratta soprattutto di capire come ricreare quel tessuto di connessione fra i soggetti locali dell’innovazione che la crisi delle rappresentanze e dell’intermediazione ha contributo a dissolvere
14 Febbraio 2018
Si è appena conclusa la seconda edizione della Settimana dell’Amministrazione Aperta. Un’iniziativa importante per promuovere la cultura dell’innovazione e valorizzare le diverse iniziative sparse sul territorio nazionale. Un’occasione, però, per riflettere anche su quanto il nostro paese sia in ritardo nel passare dalle intenzioni ai cambiamenti reali, dallo storytelling alle politiche, e su come ancora prevalga una concezione dell’open government snaturata e sbilanciata sul concetto di trasparenza come concessione che arriva dall’alto, quando invece dovrebbe essere la sostanza stessa del rapporto di fiducia instaurato tra cittadini e amministrazione e tra cittadini e politica. Un’occasione per capire perché le diverse esperienze, spesso eccellenti, non fanno poi sistema, non diventano un progetto comune in grado di ridare vitalità al nostro paese[1].
Una riflessione che assume particolare importanza soprattutto in questa fase di transizione verso un nuovo governo, verso una nuova governance dell’innovazione nella PA, in cui si rischia per l’ennesima volta un azzeramento delle cose fatte, la proposizione dell’ennesima riforma o rivoluzione calata dell’alto e ispirata dalla cultura ancora dominante, nella PA, degli amministrativisti, convinti (o interessati a far credere) che l’innovazione si faccia per decreto, per legge, per infinito rinovellamento di norme e codici.
L’open government non deve essere celebrato, magari con tanto di selfie ricordo a margine delle riunioni internazionali, ma diventare paradigma dominante dell’agire politico e amministrativo della nostra PA. Non si tratta di promuoverne i principi a quasi dieci anni dalla direttiva di Obama, quando oramai li hanno capiti anche il più impreparato dei politici o il più grigio dei funzionari, si tratta invece di capire come raggiungere quegli obiettivi senza snaturarli e banalizzarli, in una amministrazione, come la nostra, fortemente resistente al cambiamento. E allora le energie dovrebbero essere orientate a cercare di capire perché in Italia sia ancora così difficile scardinare quella dimensione burocratica che impedisce alle nostre amministrazioni di cambiare ed evolvere verso un modello operativo più consono alle esigenze sempre più articolate che vengono dal basso.
È diventato sempre più evidente che il passaggio da un modello di pubblica amministrazione burocratica a quello di PA abilitante, non è lineare. Per sbloccare i processi di innovazione bisogna hackerare la burocrazia,[2] non accontentarsi delle sue piccole concessioni, mutandone il codice per trasformarla in quella che Charles Landry chiama la Burocrazia creativa[3], in grado, grazie al ricorso alle nuove tecnologie e ad approcci innovativi, di coinvolgere soggetti pubblici, privati e comunità locali nella gestione dei beni comuni.
Purtroppo, e questo denota l’approccio verticistico e quindi mistificante al tema, oramai la terza gamba dei tre principi dell’open government, quella della collaborazione, è scomparsa dai documenti ufficiali dove invece si parla di trasparenza, partecipazione e cittadinanza digitale tradendo un approccio vecchio e insostenibile di una PA bipolare, magari per alcuni versi illuminata, ma sempre come cosa “altra” rispetto alla molteplicità degli attori sociali.
Al contrario, una PA abilitante non può che scaturire dalla collaborazione dei diversi attori coinvolti. È la precondizione per quelle che Goldsmith, nel suo ultimo libro[4], chiama governance distribuita e dove funzionari, cittadini e partner esterni lavorano insieme per ottenere migliori risultati per la comunità. Riprendendo i temi sviluppati precedentemente nel suo Governare con la rete[5] Goldsmith evidenzia che per favorire il cambiamento e combattere la burocrazia è indispensabile il lavoro comune di tutti gli attori locali dell’innovazione. La PA deve fare riferimento a un modello organizzativo che abbandoni la logica verticale a favore di una orizzontale, in grado di coinvolgere i diversi attori pubblici, privati e del non profit, nella progettazione e gestione dei servizi avanzati. Tale obiettivo può essere perseguito attraverso il riconoscimento e la promozione delle reti e delle connessioni sociali, il governo di processi decisionali inclusivi e di progettazione partecipata e l’uso sapiente delle tecnologie andando a configurare una piattaforma, un sistema sociotecnico in grado di abilitare e sostenere lo sviluppo. Da questa prospettiva la PA abilitante diventa una casa aperta di processi, di informazioni, di dati prodotti dai diversi attori e frutto della collaborazione fra questi.
Dobbiamo passare dalla metafora della macchinetta automatica a quella del bazar. Nel primo caso, la PA viene descritta come un distributore in cui, inserendo le monete (le nostre tasse) riceviamo un prodotto o un servizio. Per quanto moderna ed evoluta (magari in grado di ricevere un feedback del servizio offerto) rimane un servizio esterno, dove solo pochi fornitori sono ammessi a vendere i propri servizi e, spesso, l’unico modo che ci rimane, a fronte di un problema della macchina nell’erogazione, è di scuoterla violentemente. Nella metafora[6] del bazar, al contrario, la comunità dei venditori si scambia beni e servizi[7] in una logica di collaborazione e competizione nell’ambito di uno spazio comune che è il mercato.
Le dimensioni moderne del mercato sono le piattaforme come Amazon e Airbnb che hanno rivoluzionato l’economia di questo secolo favorendo l’incontro tra i diversi attori in uno scenario mondiale[8]. Piattaforme abilitanti che, come scrisse Francesco Profumo, devono essere pensate per “la costruzione di un nuovo genere di bene comune, una grande infrastruttura tecnologica e immateriale che faccia dialogare persone e oggetti, integrando informazioni e generando intelligenza, producendo inclusione e migliorando il nostro vivere quotidiano”[9].
Spente le luci dei festeggiamenti è quindi urgente e importante ragionare su una seconda fase dell’open government basata sì sull’openness, ma anche e soprattutto sulla collaborazione. Si tratta di capire come ricreare quel tessuto di connessione fra i soggetti locali dell’innovazione che la crisi delle rappresentanze e dell’intermediazione ha contributo a dissolvere. Come fare sistema tra le diverse energie vitali sparse sul territorio. Come, appunto, costruire una piattaforma sociotecnica aperta in grado di abilitare la collaborazione tra i soggetti locali e nazionali dell’innovazione tramite la quale obiettivi e risultati non vengono definiti dall’alto ma sono frutto della stessa interazione tra le parti. Solo in questo modo si realizza la PA abilitante, dove l’innovazione viene considerata funzione di un nuovo modo di intendere lo Stato. I dati e gli strumenti operativi sono rilasciati per e insieme ai cittadini e agli attori locali (imprese, istituzioni locali) al fine di costruire nuovi servizi innovativi e innovare quelli esistenti. Con la PA abilitante, adottando in pieno il paradigma dell’open government, si realizza il principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale volto a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale[10].
Nell’immediato ci auguriamo che questi temi entrino a pieno diritto nell’agenda politica del nostro paese. Come anticipato, il nostro impegno sarà di moltiplicare le occasioni di incontro e di confronto per favorire un dibattito più ampio possibile da restituire a quello che poi sarà il prossimo governo, con un augurio: che l’anno che è appena cominciato non diventi, per il nostro paese, l’anno zero dell’innovazione.
[1] Lo scrissi anche lo scorso anno inoccasione della presentazione, del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, delle interessanti ma tardive “Linee guida sulla consultazione pubblica in Italia”: sicuramente utile ma è anche indispensabile definire al più presto obiettivi più ambiziosi e coraggiosi che traghettino le istituzioni del nostro paese verso un nuova cultura di governo pubblico.
[2] Nel 2014 in collaborazione con PON Ricerca e Competitività 2007-2013organizzammo un incontro a FORUMPA dal titolo Hackeriamo la PA! Convinti della necessità di dover scardinare e ricostruire i modi e i processi dell’amministrare, anche là dove le azioni consolidate che producono ritardi o inefficienze sembrano abituali e immutabili. Crediamo ora sia più opportuno invitare ad Hackerare la burocrazia cosi come invita a fare Eggers nel suo ultimo libro Delivering on Digital: The Innovators and Technologies That Are Transforming Government, Deloitte University press, 2016.
[3] Charles Landry, Creative Bureaucracy Radical Common Sense, Comedia 2017.
[4] A New City O/S. The Power of Open, Collaborative, and Distributed Governance.
[5] Governare con la rete. Per un nuovo modello di Pubblica amministrazione, IBS, 2010.
[6] Questa metafora venne per prima introdotta da Donald F. Kettle nel suo The Next Government of the United States: Why Our Institutions Fail Us and How to Fix Them, WW Norton & Co, 2008.
[7] Eric Raymond, The cathedral & Bazar, O’Really, 1999.
[8] Geoffrey G. Parker, Marshall W. Van Alstyne, Sangeet Paul Choudary, Platform Revolution: How Networked Markets Are Transforming the Economy and How to Make Them Work for You, W: W. Norton Company, 2016.
[9] Francesco Profumo nella prefazione al libro di Andrea Granelli Città intelligenti? Per una via italiana alle Smart Cities, LibreriaUniversitaria , 2012.