Dieci proposte per innovare la pubblica amministrazione (in modo rapido e fattibile)

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Nell’attuale tempesta cerchiamo di non perdere né la calma né la rotta, ma anche di essere sufficientemente realisti da porci obiettivi raggiungibili in breve tempo e con le risorse che abbiamo, altrimenti non sono obiettivi, ma sogni.  Un aiuto a questo esercizio ce lo dà il contributo in dieci punti di Mauro Bonaretti che vi propongo come editoriale, a cui segue una mia breve postfazione. Questo ideale programma si pone nella linea della concretezza dell’innovazione che il contest “La tua idea per una PA migliore” ha inaugurato con le sue 185 idee, per la maggior parte concrete e “cantierabili” già pervenute.

9 Novembre 2011

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

Nell’attuale tempesta cerchiamo di non perdere né la calma né la rotta, ma anche di essere sufficientemente realisti da porci obiettivi raggiungibili in breve tempo e con le risorse che abbiamo, altrimenti non sono obiettivi, ma sogni.  Un aiuto a questo esercizio ce lo dà il contributo in dieci punti di Mauro Bonaretti che vi propongo come editoriale, a cui segue una mia breve postfazione. Questo ideale programma si pone nella linea della concretezza dell’innovazione che il contest “La tua idea per una PA migliore” ha inaugurato con le sue 185 idee, per la maggior parte concrete e “cantierabili” già pervenute [il contest si chiuderà la settimana prossima, vi invito a leggere il percorso che da lì in  poi abbiamo pensato].

Bonaretti parte da una constatazione:

Raramente ci si è davvero concentrati nello stabilire le priorità conseguibili in modo concreto e tangibile per i cittadini. In una fase di così grande difficoltà per il nostro Paese questo sforzo di pragmaticità non è ulteriormente rinviabile. E’ necessario stabilire un’agenda dell’innovazione fatta di pochi, limitati, fondamentali punti per raggiungere quei risultati minimi che non sono più rinviabili.

Leggiamo insieme quali sono i suoi punti.

Dieci idee per innovare la pubblica amministrazione (in modo rapido e fattibile).
di  Mauro Bonaretti

Innovare la pubblica amministrazione è da molti anni una delle priorità del Paese. Tuttavia, a fronte di molti tentativi, pochi passi avanti sono stati fatti concretamente. In parte innovare è molto più complesso di quanto si pensi, perché mette in gioco culture, strumenti, processi sociali e non si può trattare solamente come un problema giuridico, come invece è accaduto finora. Innovare cioè significa affrontare una maggiore complessità progettuale rispetto a quella agita e accompagnare in modo molto più profondo i percorsi di cambiamento ad oggi troppo rapsodici. In parte però è anche stato un eccesso di retorica e di ambizioni olistiche a non permettere di conseguire risultati reali. Raramente cioè ci si è davvero concentrati nello stabilire le priorità conseguibili in modo concreto e tangibile per i cittadini. In una fase di così grande difficoltà per il nostro Paese questo sforzo di pragmaticità non è ulteriormente rinviabile. È necessario stabilire un’agenda dell’innovazione fatta di pochi, limitati, fondamentali punti per raggiungere quei risultati minimi che non sono più rinviabili

Indice

  1. Strategie e politiche prima di tutto: l’innovazione non è un fine ma uno strumento

  2. Non sprecare le risorse: finanziare le azioni rilevanti

  3. Governare, governare, governare: per mettere a sistema le opportunità

  4. Sbloccare i vincoli di un Paese ingessato  

  5. Sottrarre gli investimenti in tecnologia al patto di stabilità

  6. Restituire la dignità alle persone che lavorano

  7. Sostituire parte della dirigenza

  8. Lasciateci lavorare: chiarezza e autonomia nelle regole

  9. Sbloccare i Ministeri e le amministrazioni periferiche dello Stato

  10. Garantire le opportunità minime di cittadinanza in tutto il Paese


1. Strategie e politiche prima di tutto: l’innovazione non è un fine ma uno strumento 

Per molti anni la strada scelta per migliorare l’amministrazione pubblica è stata quella delle grandi riforme. Questi tentativi hanno dato costantemente esiti inferiori agli annunci e alle attese. Le grandi riforme richiedono tempi e processi di attuazione troppo lunghi e una enorme dispersione di risorse rispetto alla drammaticità delle esigenze che abbiamo davanti e ai vincoli di investimento della nostra finanza pubblica. Le grandi riforme si ispirano a principi che seppur condivisibili in astratto (chi è contrario al merito, all’efficienza o alla trasparenza?) non rappresentano concreti obiettivi strategici capaci di guidare e trainare l’innovazione.
Occorre scegliere alcune precise priorità strategiche, qualificarle in termini di obiettivi operativi, condividerle con gli attori sociali e rispetto a queste concentrare gli sforzi di innovazione. Chiari obiettivi settoriali quantificati, sulla giustizia civile, sull’evasione fiscale, sui livelli essenziali di assistenza, sulle infrastrutture in fibra ottica sono ad esempio scelte capaci di coagulare le energie e finalizzare gli sforzi di tutti per migliorare i processi di lavoro in vista di obiettivi condivisi. Senza mete chiare e precise da raggiungere in termini di politiche pubbliche ogni tentativo di cambiamento trasversale risulterà privo di coordinate, astratto, generico e distante dai bisogni del Paese. Non è più tempo di innovare casualmente: occorre farlo in modo mirato e selettivo, indicando chiaramente le mete in termini di impatto che vogliamo raggiungere. Il cambiamento dei processi ne sarà, di volta in volta, la necessaria conseguenza: l’innovazione non è un fine, ma uno strumento. È un fatto tecnico che richiede una grande chiarezza politica.

 

2. Non sprecare le risorse: finanziare le azioni rilevanti. 

Le condizioni di bilancio delle nostre amministrazioni richiedono un ripensamento nei processi decisionali di allocazione delle risorse. I tagli lineari non sono che l’altra faccia della medaglia della nostra pessima tradizione di programmazione incrementale della spesa. Se infatti in era di politiche distributive, fondate sul debito, i processi decisionali di bilancio erano di tipo storico incrementale, oggi in fase di contenimento delle risorse è prevalsa la stessa logica distributiva, ma inversa, dei tagli lineari. È necessario avere il coraggio di mettere in campo politiche redistributive, recuperando le risorse attraverso azioni mirate di finanziamento: occorre finanziare le priorità e solamente le azioni strettamente rilevanti al loro conseguimento. Si tratta di rinunciare a quella miriade di azioni simboliche, importanti sul piano del segnale politico, della costruzione del consenso o per tenere in vita la ragione d’essere di alcune strutture. Non possiamo più permetterci di finanziare azioni che non sono fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi strategici delle amministrazioni. Non possiamo più permetterci di costruire il bilancio a partire dalle strutture amministrative o dai servizi esistenti, né frammentare la spesa in mille rivoli in funzione dei gruppi sociali di riferimento o dei componenti delle strutture di governo: occorre partire dalle priorità dei cittadini e finanziare principalmente le azioni necessarie per affrontarle.

 

3. Governare, governare, governare: per mettere a sistema le opportunità..

Il contenimento della spesa pubblica non significa rinunciare ad investire nelle priorità per il Paese. Non è solo con la spesa pubblica che si possono fare politiche pubbliche di sviluppo e coesione. Si tratta di coordinare rispetto a strategie condivise le risorse presenti nel Paese in vista di obiettivi prioritari. L’Italia ha tre grandi risorse che vanno mobilizzate: l’alto potenziale di attrattività del territorio per chi intende investire nell’economia della creatività, la presenza di un sistema imprenditoriale e creditizio sani, la presenza di una grande dotazione di capitale sociale. La capacità di mobilizzare queste risorse diviene fondamentale per attrarre investimenti ad alto contenuto di innovazione, per riportare in una strategia più generale il welfare contrattuale, per valorizzare il ruolo sussidiario della cittadinanza attiva e generare un maggiore protagonismo partecipativo dei cittadini. Occorre saper governare questo reticolo di opportunità, costruendo visioni condivise e creando le condizioni perché ognuno possa investire con fiducia le proprie risorse in progetti per il Paese. La pubblica amministrazione con i tagli che deve affrontare è di fronte a un bivio: chiudere i servizi, contraendo lo spazio dei diritti dei cittadini e riducendo l’occupazione, oppure reinventare il proprio ruolo di imprenditore istituzionale. Lo spazio è enorme: dalle opere pubbliche, alle politiche industriali, al welfare, alle politiche culturali, alla gestione degli spazi pubblici. Governare significa sempre di più far partecipare istituzioni e cittadini alla cosa pubblica, coinvolgendo, convincendo, mediando, costruendo visioni.  [Per saperne di più sulla sussidiarietà leggi le interviste a Gregorio Arena, Teresa Petrangolini e Graziano Delrio]

 

4. Sbloccare i vincoli di un Paese ingessato  

L’Italia è uno dei Paesi a maggiore rigidità amministrativa. A fronte di molti tentativi e dichiarazioni di principio non sono molti i risultati raggiunti. Spesso si è sbagliata strada: interventi legislativi nazionali, calati dall’alto, di modeste ambizioni e spesso naufragati nell’attuazione concreta, o perché mal concepiti in sede legislativa, o perché distanti dalle reali esigenze e priorità o perché disattesi. Le amministrazioni pubbliche anziché l’ostacolo, possono rappresentare una grande risorsa per invertire questa tendenza. Occorre un grande programma nazionale per le liberalizzazioni e semplificazioni che parta dal basso, sperimentato a livello locale anche in deroga alla normativa, attraverso una legge da approvare in parlamento. Occorre invitare le amministrazioni pubbliche a segnalare tutte le attività (a carico proprio e/o dei cittadini) obbligatorie e da eliminare in quanto non aggiungono valore alla catena dei processi decisionali e operativi. 
Si tratta cioè di far partire dalle diverse amministrazioni pubbliche (centrali, periferiche e territoriali) istanze e proposte di liberalizzazione e semplificazione, selezionare le proposte interessanti e, prima di affrontare l’iter legislativo di semplificazione, realizzare, nelle realtà proponenti, sperimentazioni mirate, anche in deroga alle norme, sotto il controllo e il monitoraggio di un comitato garante nazionale. Una volta testate le sperimentazioni e valutati gli impatti si procederà all’intervento legislativo trasformando in norme generali le esperienze di successo. Si possono rapidamente avviare nelle città e nelle amministrazioni italiane un consistente numero di laboratori sperimentali e giungere in tempi ragionevoli a un grande disegno di legge di liberalizzazioni e semplificazioni, partecipato e già testato da chi dovrà poi attuarle concretamente. Occorre sbloccare l’Italia e per farlo è necessario un grande disegno capace di avere un impatto significativo per estensione e capillarità, facendo convivere un governo complessivo del programma con una focalizzazione mirata dei singoli interventi.

 

5. Sottrarre gli investimenti in tecnologia al patto di stabilità

I vincoli di cassa imposti dal Patto di stabilità stanno assottigliando gli investimenti. Tra questi sono a grande rischio gli investimenti tecnologici e anche quelli con un altissimo tasso di ritorno sugli investimenti. Un “buco” tecnologico di dieci anni nel nostro Paese sarebbe insostenibile. Non ci possiamo permettere di perdere questo terreno. Occorre automatizzare i moltissimi processi produttivi automatizzabili e attualmente svolti da personale.
L’amministrazione italiana non ha mai investito in un serio programma di riduzione delle spese correnti del personale, attraverso l’automazione. È necessario impostare una vera e propria ristrutturazione dei processi di lavoro attraverso la realizzazione di standard operativi nazionali su piattaforma web. Stiamo sprecando le possibilità offerte dal 2.0 sia dal punto di vista di nuove relazioni di cittadinanza, sia rispetto al contributo che i cittadini stessi possono offrire alla realizzazione dei processi produttivi. L’Italia non può rimanere al palo neppure rispetto alle potenzialità offerte dalla connessione degli oggetti capaci di fornire informazioni (internet 3.0 o delle cose). Le città e i flussi che le attraversano sono i luoghi privilegiati per concretizzare questa opportunità.
Non possiamo rinunciare alla tecnologia per un problema di risorse. Occorre agire in triplice direzione: programmi nazionali mirati per l’automazione totale dei processi amministrativi a fortissima standardizzabilità; la costituzione di un fondo di amministrazione non rilevante ai fini del patto di stabilità e alimentato con una percentuale dei risparmi derivanti dalla riduzione di personale da destinare agli investimenti in tecnologia; un accordo nazionale con le case tecnologiche per individuare meccanismi di pay for results, capaci di non bloccare il sistema degli investimenti tecnologici.
Ma non è solo un problema di risorse. Spesso ci si scontra con la difficoltà operativa delle amministrazioni ad acquisire importanti basi informative a disposizione di altri Enti e amministrazioni. Ad esempio nel campo dell’evasione fiscale si tratta di definire protocolli di intesa più cogenti di open data tra amministrazioni locali, enti pubblici e amministrazioni statali in modo da mettere in grado i Comuni di migliorare la propria capacità di segnalazione all’Agenzia delle Entrate perché essa possa intervenire con accertamenti mirati.

 

6. Restituire la dignità alle persone che lavorano.

Le amministrazioni pubbliche sono organizzazioni ad alta intensità di lavoro intellettuale. Negli ultimi anni questa risorsa straordinaria è stata umiliata in molti modi. Occorre recuperare la fiducia e la dignità delle persone che lavorano nelle amministrazioni.
In primo luogo è necessario interrompere la pratica devastante dei blocchi del turn over a singhiozzo. La pianificazione del personale richiede certezze dei vincoli. Occorre un patto chiaro: si tratta di stabilire una riduzione della spesa di personale nel settore pubblico a fronte però di una stabilità almeno triennale delle regole sul lavoro. A fronte di questa stabilità le amministrazioni saranno nelle condizioni di realizzare piani di mobilità degli organici coerenti con le proprie priorità strategiche, con le scelte di gestione, con i piani di automazione tecnologica.
In secondo luogo è necessario valorizzare la partecipazione organizzativa. I lavoratori delle amministrazioni pubbliche sanno perfettamente dove si annidano gli sprechi, come si possono migliorare i processi e risolvere i problemi. Quasi sempre conoscono i problemi ma quasi mai hanno la possibilità di risolverli. Occorre promuovere programmi di micro cambiamento organizzativo in forme organizzate capaci di scardinare la cultura gerarchica fortemente presente nelle amministrazioni. È in primo luogo una scelta che deve partire dai vertici amministrativi e che richiede la messa in campo di nuove forme più orizzontali di relazioni interne. Ma è anche una scelta che chiama in causa il confronto sindacale. Definire piani di mobilità e attivare programmi di partecipazione organizzativa richiede infatti l’immediata riattivazione della contrattazione sindacale. Il blocco delle risorse contrattuali non significa affatto che non esista la necessità di valorizzare la risorsa del confronto. Anzi, proprio una situazione di congelamento retributivo può lasciare lo spazio per ripensare le relazioni sindacali nel pubblico impiego, concentrando il confronto su due questioni organizzative prioritarie, troppo spesso trascurate nel passato: la partecipazione organizzativa e la mobilità delle risorse umane a seguito di ristrutturazioni. In questo quadro, soprattutto se inserito in una nuova stagione di confronto confederale, il sindacato di categoria sarà chiamato a dare il proprio contributo anche in termini di progettualità e stimolo all’innovazione, come già accaduto nei primi anni ‘90.

 

7. Sostituire parte della dirigenza

Il sistema amministrativo italiano è in un guado: da un lato si è ispirato ai modelli di riforma anglosassoni, dall’altro ha conservato le caratteristiche amministrative del sistema italiano. Il caso della dirigenza è emblematico. Se si ritiene necessario sbloccare il sistema pubblico occorre innestare nuove professionalità dirigenziali. La ricentralizzazione della funzione, i vincoli alle assunzioni dall’esterno sono fortemente coerenti con l’esigenza di assicurare terzietà e imparzialità alla funzione della dirigenza. Tuttavia non è coerente con i proclami e le esigenze di innovazione. Occorre scegliere. Ci sono posizioni dirigenziali ad alta necessità di imparzialità (es. le funzioni pubbliche autorizzatorie, certificatorie, di controllo). Queste funzioni richiedono nomine sottratte alle scelte della politica e meccanismi di accesso tradizionali. Esistono invece posizioni dirigenziali con maggior contenuto manageriale o di elaborazione e governo di politiche pubbliche. Governare le reti, introdurre tecnologie, attivare la partecipazione organizzativa, avviare programmi di semplificazione sono attività ad altissima complessità professionale. Sarebbe illusorio pensare di risolverlo con la stessa classe dirigente. Se fosse stata capace, l’avrebbe già fatto. E non sarà certo un incentivo economico a trasformare ottimi funzionari di procedura in dignitosi imprenditori istituzionali. Queste posizioni richiedono professionalità oggi difficilmente reperibili all’interno e differenziate in funzione delle specifiche strategie prescelte. È necessario accogliere la sfida delle professionalità esterne a tempo determinato se vogliamo innovare. Non è un problema di numeri e percentuali, quanto di posizioni organizzative ricoperte nell’organigramma dell’amministrazione. Non sarebbe difficile stabilire nei regolamenti questo criterio (posizioni a vincolo di imparzialità e posizioni prive di questo vincolo) una volta per tutte e affidarne il rispetto agli organi di revisione delle amministrazioni.

 

8. Lasciateci lavorare: chiarezza e autonomia nelle regole.

Esistono attualmente tre condizioni di sistema capaci di inibire qualsiasi processo di innovazione.
In primo luogo la confusione normativa. Si tratta di restituire un quadro semplice e chiaro di regole. Il caos attualmente presente sui vincoli al personale è una delle rappresentazioni più imbarazzanti: ministeri che si contraddicono, Corte dei conti costrette a interpretazioni impossibili, costi infiniti per le amministrazioni impegnate a districarsi in una selva di aspetti confusi, anziché nel proprio lavoro istituzionale. È necessaria una commissione nazionale congiunta composta da rappresentanti dei ministeri, delle associazioni degli enti locali e dalla magistratura contabile per risistemare la confusione costruita in questi anni. Meglio poter lavorare in condizioni difficili ma chiare piuttosto che essere paralizzati dall’incertezza della norma.
Così il patto di stabilità. È assurdo in un paese in totale crisi di crescita tenere congelati per questioni contabili investimenti già finanziati per miliardi di euro. Occorre avvicinare le regole del patto di stabilità interno alle reali esigenze poste dalla ragione d’essere del patto di stabilità europeo.
In terzo luogo si tratta di attribuire maggiore autonomia decisionale e gestionale alle amministrazioni periferiche e agli enti territoriali. Se qualche cambiamento è stato oggettivamente osservato nelle amministrazioni italiane questo è avvenuto negli enti territoriali, nelle aziende sanitarie, nelle agenzie nazionali a valle dei processi di autonomia. Curiosamente, anziché apprendere questa lezione, il nostro Paese ha fatto il percorso inverso, imboccando una incomprensibile strada di ricentralizzazione e vincoli puntuali imposti dal centro (es. scelte direzionali, formazione, vincoli assuntivi, spese di comunicazione…). Occorre riprendere il cammino dell’autonomia e responsabilità.

 

9. Sbloccare i Ministeri e le amministrazioni periferiche dello Stato.

I principali problemi di funzionamento del sistema amministrativo italiano riguardano i Ministeri e in particolare le loro articolazioni periferiche. Piuttosto che avventurarsi in improbabili disegni di decentramento o revisione degli assetti istituzionali dello Stato, di cui tanto si è parlato e poco realizzato, un modo rapido e concreto per rendere minimamente più vicine alle esigenze dei cittadini i tribunali, il catasto, le soprintendenze è quello di permettere a loro una minima agibilità delle leve di gestione.
Si tratta di operare in due direzioni. In primo luogo è necessario scegliere le priorità di intervento e rispetto a queste investire il Dipartimento della Funzione pubblica di realizzare missioni finalizzate di supporto ai Ministeri.
In secondo luogo si tratta di rompere la centralizzazione dei livelli decisionali affidando alle strutture periferiche dello Stato livelli minimi di autonomia, valorizzando le direzioni provinciali e regionali o quanto meno gli uffici territoriali di Governo (incapaci di coordinare alcunché nelle attuali condizioni). È assolutamente incompatibile con le esigenze di tempestività di chi vive in un mondo globale l’arretratezza dei processi decisionali attualmente in atto. È inaccettabile per un Paese civile osservare l’impossibilità, per chi gestisce le strutture periferiche dello Stato, di approntare le minime condizioni organizzative e le più elementari esigenze di funzionamento. Solo attraverso questa scelta sarà possibile parlare compiutamente di una reale possibilità di governance territoriale del sistema pubblico.

 

10. Garantire le opportunità minime di cittadinanza in tutto il Paese

Nel nostro Paese esistono ancora troppe differenze di opportunità di accesso ai beni pubblici per i cittadini e le imprese. È necessario definire livelli minimi essenziali di opportunità. Si tratta cioè di raffigurarsi quali sono le opportunità sulle quali i cittadini italiani possono contare. Questo punto di vista (le opportunità per i cittadini) è utile a salvaguardare qualsiasi modello di gestione (pubblico, privato, misto, ecc) e pone l’attenzione sugli impatti delle politiche amministrative anziché perdersi nei meandri delle performances gestionali. Si tratta cioè di scegliere alcuni (pochi) ambiti essenziali nei quali la possibilità di accesso alle opportunità diviene un diritto universale riconosciuto ai cittadini italiani (es. tassi di occupazione, criminalità, inquinamento, scolarizzazione, ecc.). In tali ambiti, laddove i livelli minimi non fossero rispettati, priorità di intervento dello Stato sarà quella di intervenire con progetti mirati per garantire l’esercizio concreto di quei diritti, destinando a tal fine le cospicue risorse comunitarie dedicate all’obiettivo convergenza.

 

Un programma di questa natura è in realtà molto e, forse, troppo ambizioso. Eppure al contempo tralascia consapevolmente numerosi aspetti di fondamentale rilevanza: il federalismo, le privatizzazioni, la finanza, gli assetti e le funzioni istituzionali, il rapporto tra politica e amministrazione, i costi della politica, la qualità dei servizi, la trasparenza, le centrali di acquisto, le retribuzioni legate al merito, i percorsi di carriera, la democrazia deliberativa, gli strumenti di gestione e i costi dei servizi, le forme organizzative, il mercato del lavoro pubblico, le pari opportunità, la valutazione. Sono tutte questioni importanti, ma non tutte sono aggredibili contemporaneamente. Possiamo ancora continuare ad illuderci di farlo?
Le dieci idee indicate sono di una complessità straordinaria, ma sono ad alta fattibilità nel medio periodo, in un quadro serio di concertazione nazionale. Si tratta di partire da queste per diradare le nebbie. Si tratta di darsi una strategia percorribile per non disperdere altre parole a rincorrere illusioni, dimenticando di non avere i fondamentali di un Paese civile. Ripartiamo da ciò che concretamente è possibile fare subito e davvero.

 

Postfazione
di Carlo Mochi Sismondi

Due gli elementi che vorrei mettere in evidenza di questo programma di lavoro: dapprima la sua alta fattibilità. Pochi provvedimenti legislativi, una polarizzazione intelligente e coraggiosa delle risorse disponibili, una grande chiarezza di idee e una comunicazione pubblica efficace e sincera: non serve molto di più. Io la chiamerei “buona politica”, ma questa definizione ci porterebbe ad un discorso troppo lungo.
Poi il cambio di prospettiva che questo programma contiene: per anni e anni (almeno dalle Bassanini, ma poi anche con il progetto “Cantieri” e le riforme Brunetta) ci siamo applicati a perseguire un’innovazione trasversale e olistica, che ha però trovato enormi difficoltà a partorire azioni concrete e reale cambio di comportamenti. Ora, dice Bonaretti trovandomi in piena sintonia, poniamoci obiettivi chiari, sfidanti e relativi a specifiche politiche: un welfare sostenibile che definisca con chiarezza i livelli minimi di assistenza, un’Italia cablata e senza digital divide, l’emersione dell’economia in nero e la vittoria nella lotta all’evasione fiscale, una giustizia con tempi accettabili e certi, uno sviluppo delle economie territoriali verde e sostenibile… Ciascuno di questi obiettivi richiede una dose massiccia di innovazione sia istituzionale, sia organizzativa, sia tecnologica. Ma sarà come quando l’obiettivo di mandare un uomo sulla luna scatenò una rincorsa di ricerca scientifica e una messe di innovazioni in tutti i campi: dalla fisica alla biologia, dai nuovi materiali alla medicina. Ma lì l’obiettivo era chiaro e condiviso: le innovazioni, che da allora furono poi applicate nella nostra vita quotidiana, erano lo strumento.
Insomma ritorniamo al primato dell’efficacia e degli outcome rispetto all’attenzione ossessiva all’efficacia e agli output.

Troviamo pochi obiettivi che siano grandi progetti-paese (già i cinque elencati basterebbero), comunichiamoli con chiarezza, troviamo le menti migliori e le migliori professionalità per costruire i progetti, focalizziamo per qualche anno le risorse su queste priorità e costruiamo su questi obiettivi le organizzazioni e le tecnologie innovative che ci servono per raggiungerli e vedrete che la riforma della PA diventerà qualcosa di meno fumoso e un po’ più appassionante.

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