Dirigenza pubblica: un cantiere ancora aperto
La dirigenza pubblica è orfana di una riforma mancata e vive oggi in un limbo legislativo e in una frammentazione che è divenuta una giungla retributiva ed organizzativa in cui ciascuno, pur a disagio per condizioni di lavoro spesso inadeguate, tiene stretto i propri piccoli o grandi privilegi. È necessaria una riforma della dirigenza che riporti l’equità, che ne rispetti l’indipendenza “al solo servizio della Nazione”, che ne esalti il ruolo, la responsabilità, la professionalità e l’autonomia, ma che ne sottolinei anche la necessaria dimensione di rischio, propria di ogni manager, e di dipendenza dai risultati di outcome. L’apertura, la permeabilità, la capacità di “governo con la rete”, la capacità empatica di relazione con le persone, la voglia di crescere e di far crescere, la spinta ad imparare continuamente, la vocazione a sperimentare e a mettersi in gioco, anche rischiando di sbagliare, la costruzione flessibile di una carriera che sia un personale e continuo progetto di crescita, la dedizione al compito di creare “valore pubblico”: queste le caratteristiche del manager pubblico che vogliamo e che una nuova riforma dovrebbe promuovere
3 Febbraio 2020
Carlo Mochi Sismondi
Presidente FPA
Introduzione
Molto spesso mi è capitato di parlare di “bulimia legislativa” per stigmatizzare il vizio dei nostri vertici politici, ben supportati dagli uffici legislativi, di credere che le riforme dell’amministrazione pubblica possano essere attuate (solo) attraverso provvedimenti di legge. Questa illusione del legislatore ha prodotto ondate successive di riforme tutte epocali. Mentre ancora erano da applicare molte parti delle riforme precedenti, persino nei loro principi da tutti condivisi, si sono alluvionati prima il Parlamento e poi le amministrazioni con centinaia di nuovi provvedimenti con la speranza che la quantità facesse premio sulla costanza dello sforzo per la loro effettiva attuazione.
Se questo è in generale vero ed è sotto gli occhi di tutti anche nei suoi effetti peggiori di confusione e di “burocrazia difensiva”, esiste un’area fondamentale per il funzionamento delle amministrazioni che invece è “orfana” di una riforma. Sto parlando della dirigenza pubblica che, seppure oggetto da oltre un trentennio di successivi provvedimenti, è ora in un incerto limbo legislativo.
Con questo mio contributo, che ha l’obiettivo di chiarire meglio, anche a me stesso, un pensiero necessariamente articolato che non può essere riassunto con slogan semplicistici, provo quindi a fare il punto su questo tema di capitale importanza per una PA che voglia essere adeguata ai bisogni di una società complessa come la nostra, ma nello stesso tempo rispettosa dei principi della nostra Costituzione e dei diritti di tutti i cittadini.
Per farlo partiremo da un po’ di storia delle diverse riforme della dirigenza che si sono susseguite negli ultimi anni, successivamente daremo un po’ di numeri prendendo in esame lo stato attuale della dirigenza pubblica e convincendoci così che una riforma è assolutamente urgente e necessaria, perché così come sono le cose non vanno affatto bene. Ci interrogheremo poi sui valori fondamentali che devono essere alla base di qualsiasi riforma della dirigenza, ma anche sui “miti” che con coraggio dobbiamo sfatare. L’ultima parte di questo lavoro, che sarà comunque necessariamente sintetico, a rischio di qualche asserzione non sufficientemente argomentata, sarà dedicata a delineare un percorso per ripristinare le condizioni della fiducia tra i dirigenti pubblici, il comparto che dirigono, la politica che li indirizza e spesso li sceglie e i cittadini che li pagano con le loro tasse. Il parere che il Consiglio di Stato [1] dette a fine 2016 sulla bozza del decreto di riforma della dirigenza della Ministra Madia ci farà da guida per non perderci tra le tante norme e le tante proposte.
Riassunto delle puntate precedenti
Partiamo dall’oggi, poi necessariamente ci volteremo indietro a ricordare i passi precedenti.
La dirigenza è stato il pilastro mancante della Riforma Madia: la bocciatura del decreto legislativo da parte della Corte Costituzionale, per un vizio di consenso da parte delle Regioni, aveva in sostanza “coperto” una situazione di grave conflittualità tra Governo, Consiglio di Stato e, soprattutto, tutto il corpus dei dirigenti pubblici, che ne avevano rilevato gravi pericoli. In sintesi infatti la riforma del Governo Renzi aveva preso di petto alcuni temi chiave e li aveva risolti attraverso un’innovazione “disruptive”: niente più fasce della dirigenza, niente più ruoli separati per amministrazioni, ma solo tre ruoli (PA centrale, locale e regionale) e per di più largamente permeabili, più libertà da parte della politica di scegliere, sempre all’interno dei ruoli, a chi attribuire incarichi di vertice, incarichi dirigenziali a tempo intervallati da rinnovi con concorsi ad evidenza pubblica. L’idea di fondo era di creare un “mercato” della dirigenza pubblica dove si potessero scegliere di volta in volta i migliori o i più adatti a specifici ruoli. Tre commissioni per la dirigenza statale, regionale e locale avrebbero garantito la correttezza e la “neutralità” delle scelte. Chiaro che buona parte dei dirigenti non fosse contenta di questo approccio. Temevano infatti, con una qualche ragione, una subordinazione eccessiva alla politica e una diminuzione del loro ruolo, del loro status e, anche, dei loro diritti acquisiti.
Il “Governo Conte 1” con il Ministro Giulia Bongiorno è allora intervenuto sul tema all’interno di un disegno di legge delega (l’Atto Senato 1122 “Deleghe al Governo per il miglioramento della pubblica amministrazione”) che all’articolo 4 propone un provvedimento “finalizzato ad incentivare la qualità della prestazione lavorativa dei dirigenti, anche al fine di incrementarne la produttività e di migliorare l’immagine e l’efficienza della pubblica amministrazione.”
Questo articolo, ora appunto confinato assieme a tutto il disegno di legge, in un limbo incerto dal repentino cambio di maggioranza realizzato con il “Governo Conte 2”, parte con giuste e condivisibili asserzioni: che abbiamo bisogno di competenze specializzate, che vanno valorizzate meglio le capacità professionali anche di carattere organizzativo, che vanno meglio specificati i compiti e le responsabilità della dirigenza amministrativa e dei vertici politici, che vada definito un codice di condotta che da una parte indichi chiaramente le ipotesi di responsabilità disciplinare, dall’altra garantisca il dirigente rispetto alle possibili inadeguatezze delle sanzioni.
Al di là però di queste corrette norme, che potremmo chiamare di aggiustamento, il ddl conferma sostanzialmente il corpo legislativo precedente, ribadendo proprio quei punti che la mancata riforma Madia aveva pesantemente rivisto. I ruoli dei dirigenti rimangono così di pertinenza di ciascuna amministrazione. Vengono confermate le due fasce di dirigenza che non dipendono dall’incarico ma che sono, per i dirigenti di prima fascia, uno stato acquisito (semel abbas semper abbas). Si crea così una pesante contraddizione tra i privilegi anche salariali dei vertici apicali e la loro protezione da un rischio[2] che, invece, non può che essere prerogativa di queste posizioni, così come lo è nel privato. Infine, il disegno di legge è molto attento a garantire una strada di favore per chi è già nell’amministrazione attraverso concorsi riservati e limita ulteriormente l’accesso alla dirigenza degli esterni all’amministrazione, ossia proprio di quei manager che, venendo da altre esperienze, potrebbero portare aria nuova nelle stanze spesso asfittiche delle nostre PA.
Ma, come abbiamo visto, il disegno di legge delega “Bongiorno” è fermo a luglio scorso (ultima trattazione in Commissione il 30 luglio 2019), il decreto legislativo “Madia” dal canto suo è stato bocciato, si torna quindi al dettato del Testo Unico del Pubblico impiego, il d.lgs 165/2001, così come successivamente riformato ed integrato da varie spinte riformatrici e, soprattutto, dalla riforma Brunetta.
Per i non addetti ai lavori riassumo brevemente lo stato dell’arte. Non è possibile trattare qui in poche righe tutta la complessa e stratificata normativa sulla dirigenza[3], provo a farne una sintesi brevissima e per farlo mi rifaccio all’introduzione al parere che il Consiglio di Stato dette al d.lgs Madia poi abortito. Dice il massimo organo della giustizia amministrativa:
…la peculiarità del lavoro dirigenziale, rispetto a quello degli altri dipendenti pubblici, risiede nel fatto che è necessario distinguere il rapporto di servizio e il rapporto di ufficio.
Il primo sorge in virtù di un contratto di lavoro che è stato oggetto dei processi di privatizzazione degli anni Novanta ed è governato, salvo deroghe, dalle norme di legge e dagli atti di autonomia negoziale individuale e collettiva.
Il secondo sorge in virtù di un procedimento di nomina, di rilevanza organizzativa, che consente il funzionamento del sistema di imputazione giuridica dell’attività del dirigente all’amministrazione pubblica di riferimento.
Tutta la legislazione sulla dirigenza si dipana tra questi due poli: da una parte l’appartenenza a un ruolo (oggi diverso per ogni amministrazione) e ad una fascia (dirigenza di prima e di seconda fascia) che si acquisisce con un contratto (in generale, ma non sempre, attraverso un concorso), dall’altra un incarico che è a tempo e comporta poteri, responsabilità e obiettivi. I temi in discussione riguardano infatti l’accesso alla dirigenza, il passaggio dalla seconda fascia alla prima, i criteri per il conferimento degli incarichi, per il loro rinnovo alla scadenza, per la loro cessazione, la responsabilità dei dirigenti e la loro valutazione.
Una riforma necessaria
Un breve sguardo allo stato attuale della dirigenza pubblica e ai suoi numeri fondamentali (tutti tratti dal Conto annuale dello Stato 2017 della RGS) ci farà capire meglio di qualsiasi discorso quanto è necessaria una riforma sino ad ora mancata.
Nella PA italiana, non considerando i medici del SSN che pur equiparati contrattualmente ai dirigenti non lo sono dal punto di vista organizzativo, ci sono 44.497 dirigenti con 5 contratti diversi.
- La distribuzione è molto squilibrata e si va da un dirigente ogni 7,8 dipendenti nella Presidenza del Consiglio, a un rapporto di uno a 167 nella scuola, passando da un numero di 51,2 dipendenti per ciascun dirigente nei Ministeri, a 375 nelle Università, a 73 nelle Regioni e negli Enti locali.
- Sono molto squilibrati anche i compensi che per la prima fascia vanno da un massimo nelle agenzie fiscali di 229mila euro di Retribuzione Annuale Lorda (RAL) a un minimo negli enti di ricerca di 151mila euro.
- I differenziali retributivi, figli di responsabilità diverse, ma anche e soprattutto di privilegi storici (guadagna di più chi è più vicino al vertice della politica), sono complessivamente molto elevati: i 498 dirigenti apicali di Enti Pubblici non Economici, Agenzie Fiscali e Presidenza del Consiglio guadagnano in media 190mila euro di RAL annui contro i ben 25.144 dirigenti (il 57% del totale) che non arrivano a guadagnarne 70mila.
- Dal 2007 al 2017 la retribuzione media di un dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri è aumentata di 59.285 euro l’anno (+68%) mentre è rimasto stabile il rapporto con i dipendenti; nello stesso periodo i dirigenti del SSN hanno avuto aumenti medi di 6.503 euro (+10%) e il loro numero rispetto ai dipendenti è fortemente diminuito.
- I dirigenti apicali italiani guadagnano poi 12,6 volte il reddito medio pro capite, mentre in Francia il rapporto è 6,44; in UK 8,48; in Germania 4,97.
Non credo che occorrano molte parole per spiegare che così non è possibile continuare, ma anche che esistono privilegi importanti che sarà molto difficile smantellare in tempi brevi.
Gli “Idola” da combattere
In tanti anni di riforme e controriforme della dirigenza si sono andati consolidando dei luoghi comuni che sono diventati idola[4] che dobbiamo sfatare per un vero cambiamento.
- La credenza che i concorsi siano sempre il miglior modo e il più neutrale ed oggettivo per scegliere i dirigenti è il primo mito su cui dobbiamo interrogarci. Io mi rifiuto di pensare che i concorsi così come sono oggi, anche se sono tranquillizzanti e benedetti dalla Costituzione, costituiscano sempre un buon modo di scegliere i migliori. Così come sono svolti nella maggior parte dei casi non discriminano nulla: nessun imprenditore assumerebbe un suo dirigente senza poterne valutare il curricolo, l’esperienza pregressa, i risultati raggiunti, la sua attitudine alle gestione delle persone e alla soluzione di problemi, il suo equilibrio emotivo, i suoi interessi, ma potendo considerare per la scelta solo i suoi titoli di studio e i risultati di due compiti scritti (magari il primo a quiz) su materie che nulla hanno a che vedere con quello che farà e di un colloquio orale di una mezz’ora (se va bene). Non prendiamoci in giro quindi e se proprio non ci fidiamo della discrezionalità del dirigente o del politico che deve scegliere, se ci scordiamo che discrezionalità fa rima con responsabilità e che le due cose devono necessariamente marciare assieme, almeno riformiamo i concorsi, allarghiamo l’esperienza dei corsi-concorso, diamo maggiore importanza alle attitudini, al profilo psicologico e all’esperienza pregressa di chi dovrà dirigere le unità operative delle amministrazioni. Linee guida intelligenti sullo svolgimento dei concorsi sono state emesse a fine del Governo Gentiloni dall’allora Ministra Madia, ma purtroppo leggendole e confrontandole con la prassi devo dire che sembrano fantascienza.
- Il secondo mito da sfatare è la tanto citata “separazione tra politica ed amministrazione”. Se è più che corretto parlare di una distinzione, che nel nostro ordinamento deriva dalla Costituzione (articoli 95 e poi 97 e 98) e poi dalle riforme degli anni ’90, a cominciare dal D.Lgs 29 del ’93, parlare di una netta separazione vuol dire non prendere in considerazione da una parte la funzione della politica, così come che viene chiaramente indicata nel comma 1 dell’art. 4 del D.lgs. 165/2001[5], dall’altra le responsabilità dell’amministrazione nello stesso raggiungimento degli “obiettivi generali” indicati dalla Direttiva sull’azione amministrativa di competenza della politica. Insomma, tutt’altro che “separati” politica ed amministrazione, a cominciare dai dirigenti a cui lo stesso art. 1 del citato d.lgs 165/2001 attribuisce importanti compiti anche di programmazione di definizione degli obiettivi per gli uffici a loro sottoposti, devono lavorare insieme. Questo non vuol dire che deve venir meno lo spirito dell’art. 98 della Costituzione che definisce che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ma che, seppure con diversi compiti, gli “eletti” e i dirigenti amministrativi non possono che lavorare in stretto e quotidiano contatto per l’attuazione delle politiche che i cittadini hanno scelto con il voto.
- Infine, ultimo mito che cito, ma ce ne sarebbero molti altri, è l’utilità per un Paese moderno e democratico, di avere una classe di “commis de l’État” forte, coesa e specializzata. Questo punto di vista, che nasce dall’esperienza francese, ma che è in via di superamento anche lì[6], non tiene conto né del nuovo ruolo che le cosiddette élite devono assumere in una società multiforme, frammentata, ma ricca di energie endogene, né della necessità sempre più impellente per la PA di uscire dai palazzi e di “governare con la rete”, trovando continue alleanze con il mercato e con la cittadinanza organizzata e il terzo settore.
Le questioni rimaste aperte
Abbiamo parlato all’inizio di questo articolo di una situazione di limbo in cui si trova ora la dirigenza. Vediamo ora quali sono le principali questioni che prima la bocciatura della Corte del decreto Madia e poi il blocco della legge delega Bongiorno hanno lasciato aperte.
- La prima scelta del legislatore non potrà che essere se lasciare la dirigenza in tanti ruoli diversi o, come proponeva la riforma del Governo Renzi, unificarla in un solo ruolo. Dal mio punto di vista la scelta obbligata è ricondurre il dirigente pubblico ad essere un “dirigente della Repubblica” in un unico ruolo. Il perché lo faccio dire dallo stesso Consiglio di Stato che certo non era stato compiacente con la riforma Madia. “Nel previgente sistema, l’esistenza di un ruolo separato per ciascuna amministrazione delimitava, per gli incarichi “interni”, la scelta dei dirigenti a quelli inseriti in quella determinata struttura organizzativa. La finalità perseguita dalla riforma è stata quella, invece, di superare il perimetro della singola amministrazione e creare un più ampio “mercato della dirigenza” coincidente con il territorio nazionale, nell’ambito del quale selezionare il dirigente cui si intende attribuire l’incarico”. Il ruolo unico consente quindi non solo una maggiore possibilità di scelta della persona giusta al posto giusto, ma anche una maggiore mobilità, un più ampio spettro di esperienze per ciascun dirigente, un’apertura che non può che giovare sia all’amministrazione sia al singolo.
- La seconda scelta è più sottile ed è quella che attiene al mantenimento delle due fasce della dirigenza o il passaggio alla fascia unica che era prevista dalla riforma Madia. Il punto qui non è tanto sull’unicità della fascia, quanto sulla necessaria distinzione, che abbiamo già richiamato, tra il ruolo di dirigente e l’incarico dirigenziale. Come sappiamo si tratta di aspetti diversi del rapporto di lavoro: il primo si conquista per concorso (o meglio speriamo sempre più per corso-concorso), il secondo è conferito, sulla base di criteri sia oggettivi sia fiduciari, o da un dirigente sovraordinato o dall’organo di indirizzo politico-amministrativo (il Ministro, il Sindaco, il Presidente dell’Ente , ecc.). Essere dirigente è uno stato che una volta raggiunto non si perde se non per motivi gravissimi, gli incarichi invece sono necessariamente a termine e richiedono di essere rimessi in gara a scadenza. L’introduzione della divisione in due fasce a mio parere rende instabile questo equilibrio perché introduce un “diritto” all’attribuzione del dirigente alla prima fascia sulla base dell’attribuzione di un incarico di dirigenza generale. Insomma, un corto circuito rispetto alla necessaria distinzione tra ruolo ed incarico, che fa sì che una volta svolto l’incarico di dirigenza generale per un certo periodo senza demerito, si raggiunga la qualifica di dirigente di prima fascia che rimane poi stabile, anche se viene meno l’incarico. Con una sola fascia sarebbe l’incarico di volta in volta esercitato a definire la qualifica e sarebbe possibile, come in tutto il mondo ad eccezione del lavoro pubblico, di tornare ad incarichi di dirigenza non generale dopo un incarico di dirigente generale e viceversa, con una flessibilità che dovrebbe essere regolata dalle necessità dell’amministrazione, dal sereno esame dei risultati raggiunti e da un costante ed equo criterio comparativo.
- La terza scelta riguarda come abbiamo detto la valutazione. Anche qui c’è da prendere atto della realtà: la prassi della valutazione è ad oggi estremamente insoddisfacente. Le direttive degli organi di indirizzo sono tardive, generiche e spesso brutte copie di quelle degli anni precedenti; gli obiettivi sono tutt’altro che misurabili e sfidanti, ma costituiscono spesso il risultato di una negoziazione al ribasso in cui è il valutato che ne definisce i termini; l’enfasi è quasi sempre posta sulla valutazione individuale ed in particolare sulla premialità (soprattutto monetaria) che da questa valutazione scaturisce; nonostante sia stato sancito da un decreto legislativo in vigore, il d.lgs 74 del 2017[7], la valutazione non tiene conto in generale degli obiettivi strategici. Si tratta quindi in primis di dare attuazione alle norme traducendole, attraverso un costante e coerente accompagnamento, in comportamenti. Si tratterà poi di focalizzare la valutazione organizzativa sugli obiettivi strategici del Paese, superando la frammentazione in silos amministrativi e potenziando filiere amministrative centrate su questi obiettivi (es. aumento dell’occupazione; lotta alle disuguaglianze; green new deal; recupero delle aree marginalizzate). In questa azione di attribuzione di senso alla valutazione, un’attenzione particolare dovrà essere data alla partecipazione dei cittadini e delle imprese secondo le recenti Linee Guida[8] emesse dal Dipartimento della Funzione Pubblica.
- Sarà poi necessario ripensare ai principi di autonomia, responsabilità e trasparenza per mettere il dirigente in condizione di dirigere. Su questo fronte, è necessario un cambiamento radicale: i dirigenti pubblici, specie nelle amministrazioni centrali, non hanno né gli strumenti conoscitivi, né quelli operativi per gestire in modo autonomo le risorse strumentali, umane e finanziarie che dovrebbero servir loro a raggiungere gli obiettivi. Se ne parla da decenni, ma i dirigenti non hanno effettivamente a disposizione un budget reale in cui siano trasparentemente quantificate tutte le risorse a disposizione, in modo che possano rendere conto del loro “consumo” alla luce dei risultati raggiunti.
- Ultima, ma non banale scelta sul tavolo dei decisori politici che si accingeranno, speriamo, a riaprire il dossier della dirigenza pubblica, sarà quella di investire in questa riforma le sufficienti risorse per renderla “fattibile”. Anche qui mi limito a riportare il già citato parere del Consiglio di Stato che metteva in guardia dal pensare che di potesse attuare una riforma così complessa a spesa invariata. Ha detto in quella occasione (ma vale sempre) il CdS: Il legislatore delegante e conseguentemente il Governo intendono approvare una riforma così radicale con il principio della invarianza di spesa. Si deve segnalare come tale principio sia uno di quelli in cui più si riscontrano le difficoltà connesse alla fattibilità concreta della riforma. Non è sufficiente prevedere nuove regole di disciplina se poi non si prende in adeguata considerazione la fase di attuazione della riforma stessa e l’impiego di risorse finanziarie e umane che essa può richiedere (…). Senza una riconsiderazione di questo principio di invarianza di spesa, appare quindi poco realistico assicurare il funzionamento concreto di molti meccanismi previsti dalla riforma.
Non c’è bisogno di aggiungere altro: quella delle riforme a costo zero è stata una delle più diffuse e pericolose fake news ed ha ipotecato il successo di qualsiasi cambiamento rendendone impossibile la “cura”.
Ristabilire le condizioni della fiducia
Ma la strada per ripristinare le condizioni per dare e ricevere fiducia non è né breve né agevole. Richiede quella paziente cura che lo short termism[9] dilagante rende impossibile.
Siamo arrivati alla conclusione di questo percorso sulla dirigenza pubblica e non posso esimermi dal proporre qualche idea verso quel cambiamento di prospettive e di passo che auspico. Lo faccio riprendendo anche proposte già fatte, ma mai attuate, sulla spinta di una constatazione che mi accompagna da molti anni nella mia osservazione delle amministrazioni. Non abbiamo alcuna speranza di portare a casa risultati in termini di cambiamento dei comportamenti e quindi dell’attuazione reale delle norme se non ripristiniamo le condizioni della fiducia.
La fiducia è l’ingrediente che infatti mi pare più scarso: non possiamo che vedere una scarsa fiducia della politica verso l’amministrazione, come se fosse composta tutta da conservatori, frenatori, burocrati, pietre d’inciampo di ogni riforma e zavorra del paese, oltre che “manine” impertinenti; specularmente la reazione dei dirigenti alla riforma, o per lo meno dei loro sindacati ed associazioni, è improntata in generale ad una scarsissima fiducia nella politica, come se fosse fatta tutta di pirati che vogliono imporre solo loro sodali come yes man, veline o portaborse. In questa reciproca sfiducia nasce e cresce poi la sfiducia dei dipendenti verso i loro dirigenti e la loro organizzazione e quella, assai più grave, dei cittadini verso entrambe, politica ed amministrazione, con il conseguente distacco sempre maggiore dalle istituzioni democratiche.
Senza alcuna presunzione di esaustività propongo quindi sei punti chiave che, al di là di quanto già detto su incarichi, fasce e ruoli, devono, a mio parere, essere da guida per riformare la dirigenza pubblica.
- Partire dalle missioni e dagli obiettivi strategici.
Uno dei rischi maggiori per un’amministrazione o per un ente pubblico è “darsi per scontato”, non mettere mai in discussione il perché della propria esistenza. Il fine di un’amministrazione non è sopravvivere come “ente egoista”, magari rispettando tutte le norme e gli adempimenti, ma creare valore pubblico, promuovere benessere equo e sostenibile, fare rete con i soggetti attivi del territorio, abilitare capabilities e garantire ai cittadini la possibilità di raggiungere i loro peculiari obiettivi (si tratta di offrire functionings, come li chiama Amartya Sen). La dirigenza pubblica che ci serve è quella che parte dagli obiettivi strategici indicati dalla funzione politica e li interpreta, li fa propri avendo sempre presente il benessere equo e sostenibile della comunità. Sarà così necessario collegarsi con i diversi livelli delle amministrazioni, dall’Unione Europea al quartiere, definire obiettivi comuni, condividere tra amministrazioni e con i cittadini indicatori di risultato adeguati. Come ben indicato dal Rapporto “15 proposte per la Giustizia Sociale”[10] del Forum Diseguaglianze Diversità coordinato da Fabrizio Barca:
Il cambiamento organizzativo di un’amministrazione incontra, come è stato osservato, ostacoli molteplici – nella cultura, nel legame con il contesto, nel peso delle “regole di fatto”, nella tendenza alla persistenza, etc. Deve superare l’opposizione congiunta dei conservatori per interesse, dei conservatori per rinunzia e dei conservatori mossi da un malinteso senso di tutela della cosa pubblica dall’incursione degli “apprendisti stregoni”. Solo l’individuazione di chiari e forti obiettivi di policy, relativi alla qualità di vita dei cittadini, può realizzare una mobilitazione attorno a leadership e comunità di cambiamento, capace di superare questi ostacoli.
L’attuale condizione della nostra comunità nazionale, ma anche dell’intero pianeta ci pone di fronte alla necessità di porci obiettivi strategici che presuppongono cambiamenti importanti di paradigma. Sono le scelte necessarie per questo cambiamento che, se condivise, offrono obiettivi chiari e mobilitanti. E individuano platee di beneficiari che possono pesare nel pretendere il cambiamento. Offrono quindi il terreno su cui chiedere che cambiamenti amministrativi necessari all’attuazione di quelle proposte siano realizzati.
- Rendere permeabile e mobile la dirigenza.
Abbiamo sempre più bisogno di una dirigenza “aperta” e di favorire quindi al massimo l’osmosi della dirigenza pubblica con quella privata, non perché questa sia meglio di quella, ma perché possano contaminarsi le culture diverse e le diverse strategie di management. Deve essere possibile passare dal privato al pubblico, ma anche dal pubblico al privato con facilità, seppure con le dovute attenzioni a possibili conflitti di interessi. Il dirigente poi deve accettare anche di essere intrinsecamente mobile, ossia di immaginare la propria carriera come un susseguirsi di esperienze diverse. La carriera diventa, come per tutti i manager moderni, un progetto personale e continuo di crescita, dove le competenze acquisite e i risultati raggiunti sono le uniche garanzie. Nulla di più lontano dalla sostanziale stanzialità del dirigente attuale che entra in un’amministrazione e spesso ci passa tutta la vita.
- Contrastare la “burocrazia difensiva”.
Una corretta valutazione, ma anche una focalizzazione sugli obiettivi strategici di outcome, sono i maggiori deterrenti rispetto alla c.d. “burocrazia difensiva”, ossia quella sospensione dell’azione che fa sì che per dirigenti pubblici alla fine è meglio star fermi che rischiare. Meglio avere un ordine che avere un’iniziativa. Meglio porre un quesito o chiedere un parere che firmare e assumersi una responsabilità. Ma la lotta contro questo comportamento è possibile solo incentivando la discrezionalità, accompagnando chi deve necessariamente prendere decisioni in condizioni di incertezza con linee guida e strumenti di soft law che lo proteggano e lo guidino. Fondamentale in questo senso è il “diritto di sbagliare”. Non è possibile innovare se non avendo la possibilità di percorrere strade che poi possono rivelarsi errate. Ogni innovazione è figlia di tentativi falliti. Se il manager pubblico rischia solo se sbaglia e non se non sperimenta nuove soluzioni non c’è alcuna possibilità di migliorare. Due le misure necessarie per rassicurare i dirigenti onesti: dapprima è importante che gli errori siano conosciuti. Quando sento parlare tanto della diffusione delle best practice vorrei che si diffondessero anche le bad practice in modo che gli errori diventino segnali di attenzione ed evitassero ad altre amministrazioni e ad altri dirigenti di infilarsi in strade che non portano a nulla. Poi è importante avere la possibilità di sperimentare in deroga. E’ tempo di cominciare a mettere in pratica una metodologia di attuazione delle innovazioni che sia largamente sperimentale. E’ del tutto velleitario sperare che “tutta” la macchina amministrativa, fatta di tre milioni di addetti, si muova insieme nello stesso verso e che questo verso sia da subito quello giusto. Le sperimentazioni in deroga, possibili per il nostro ordinamento, ma pochissimo usate, possono aiutarci a tarare i provvedimenti e le metodologie per la loro attuazione. L’applicazione in questo campo del metodo c.d. “proof of concept”, usato efficacemente nella costruzione di programmi complessi, potrebbe essere una guida per individuare, sulla base di numeri, di risultati, di esperienze, una via che troppo spesso è dettata solo da intuizioni o giudizi preliminari non verificati.
- Favorire l’investimento sulle persone: flessibilità, coaching, scouting e valorizzazione dei meriti e dei talenti.
Per me e per tutti noi di FPA è un “mantra”: non è possibile nessuna innovazione nella PA se non partendo da quello che è il suo principale asset: le sue persone. Spesso mi è capitato di parlare di “innovazione empatica” per indicare proprio questo atteggiamento che prende le mosse dalla capacità di entrare in relazione con gli altri e soprattutto con i componenti della propria squadra.
Spesso mi sono chiesto perché la PA è stata oggetto di innumerevoli sforzi riformatori, ma non è in fondo cambiata tanto come speravamo ed è comunque così “distratta” e, scusate il termine, “sciatta” nella gestione delle sue persone. Fa fatica a valorizzare i talenti e a riconoscere i meriti: spesso un dirigente non sa neanche quali sono le competenze e i saperi impliciti presenti nella sua organizzazione, non sa quali sono i potenziali innovatori e quali i “frenatori”. Ma perché questo iato, perché questa sciatteria nella gestione delle cosiddette Risorse Umane, ossia delle persone come preferisco chiamarle, quando ogni prova empirica ci riporta all’importanza della relazione e della motivazione? Io credo che sia perché le leggi si fanno a tavolino, le persone invece si aiutano a crescere nella relazione, guardandole negli occhi. Una norma da scrivere non ci fa paura perché non ha il potere di cambiarci, una relazione con le persone che lavorano con noi sì. Ma senza questo sguardo, senza empatia ogni tentativo di cambiamento duraturo e profondo è destinato al fallimento.
La dirigenza che auspico è quella che è stata scelta perché ha una forte capacità di essere coach di una squadra e che si sente continuamente stimolata a far crescere le persone investendo tutti i suoi sforzi nella formazione formale ed informale.
- Rispettare, con coraggio, la diversità nei ruoli tra dirigenti e tra dirigenza e politica.
I dirigenti non sono tutti uguali. Posto che tutti devono muoversi all’interno delle regole, c’è chi ha il compito di garantire la legittimità formale dei procedimenti e degli atti, chi ha compiti autorizzativi, chi di controllo e poi chi deve invece avere compiti manageriali di attuazione delle politiche. Non c’è chi è più importante: sono tutti necessari, ma non possono avere tutti lo stesso rapporto con la politica. Se dobbiamo con forza rivendicare l’indipendenza degli uni, che non possono a mio parere neanche essere soggetti alla “fiducia” di quella politica di cui devono controllare e giudicare la legittimità degli atti (la confusione fatta sui segretari generali degli enti locali è sotto gli occhi di tutti), altrettanto ha poco senso impedire alla politica di avere come manager esecutivi di vertice dirigenti che ne condividono le politiche e che sono disposti ad accollarsene i rischi. Un’organizzazione in cui tutti i gatti sono bigi non è una buona organizzazione. Io vorrei essere garantito della legittimità dell’azione amministrativa da chi è indipendente dalla politica e vorrei che questi si sentisse sicuro del suo ruolo e del suo posto anche se è costretto a dire dei no, ma altrettanto vorrei che il motore dell’azione fosse chi quell’azione la condivide. Anche perché secondo la legge ha il compito di “curare l’attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite dal Ministro e attribuire ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici progetti e gestioni; definire gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire e attribuire le conseguenti risorse umane, finanziarie e materiali.”
- Istituire efficaci strumenti di Check&Balance.
Fatta salva, come ho cercato di argomentare sopra, la necessaria discrezionalità fiduciaria della politica nell’assegnare incarichi di particolare rilevanza strategica, è altrettanto fondamentale individuare organi di garanzia autonomi e “neutrali” che possano controbilanciare tale potere, in un processo continuo di “check & balance”. La riforma Madia ci aveva provato con le Commissioni di garanzia, ma, così come erano pensate non avevano nessuna possibilità di essere efficaci sia perché composte da poche e occupatissime personalità, sia perché non era previsto, come sottolineato anche dal CdS, nessun effettivo investimento per farle funzionare. Ma questo non vuol dire che organismi per questa funzione non servano, anzi sono più che mai indispensabili all’interno di una dirigenza che rispetti la diversità di funzioni.
- Formazione, formazione, formazione.
Un’ultima condizione abilitante per una vera riforma della dirigenza non può che essere una continua, efficace e competente formazione sul campo. I dirigenti che conosco, in generale e con qualche lodevole eccezione, non si formano né sono formati. Al massimo studiano le novità di una legislazione così sovrabbondante da riempire tutto il tempo che possono dedicarle. Ma intanto il mondo corre: le tecnologie escono dal ghetto del sapere tecnico e diventano sapere strategico; la società diventa più complicata e presenta nuove emergenze e nuovi bisogni; i cittadini stessi non sono più gli stessi e diversificano al massimo le loro esigenze; il modo di gestire le persone cambia altrettanto velocemente e i nostri dirigenti si trovano, ad esempio, all’interno di sperimentazioni di smart working senza essersi mai chiesti se era o meno necessaria la consueta e scontata presenza fisica dei collaboratori.
A questo si può rispondere solo con una formazione adeguata incentrata soprattutto sulle capacità di leadership. Se pensiamo poi che siamo in prossimità di un ricambio generazionale che immetterà nella PA 450/500mila nuove persone ci rendiamo conto che dirigenti non adeguatamente formati rischiano di sterilizzare qualsiasi spinta innovativa che da questo massiccio rinnovo possa derivare.
[1] Il testo del parere può essere trovato nel sito della Giustizia amministrativa all’indirizzo: https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/ucm?id=nx76xekkpx3tefzfmq2ehbc62e
[2] Su questo cfr l’articolo che scrissi nel 2015 al momento della pubblicazione del decreto Madia sulla dirigenza
[3] Un sintetico e semplice riassunto dello stato dell’arte della dirigenza pubblica è nel modulo “Dirigenza pubblica” che ho svolto nell’ambito della collaborazione di FPA con la CGIL Funzione Pubblica all’interno dell’iniziativa sui concorsi pubblici. Le lezioni, gratuite ed accessibili a tutti sono a questo indirizzo: https://concorsipubblici.fpcgil.it/formazione/3-2-la-dirigenza-pubblica-e-le-sue-responsabilita/
[4]Idola: Termine con cui Francesco Bacone indica le illusioni o fantasmi (propriamente i pregiudizi) della nostra mente, che falsano l’esperienza
[5] L’art. 4 comma 1 del d.lgs 165/01 recita “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attivita’ amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo; b) la definizione di obiettivi, priorita’, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione; c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalita’ e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale; (…) “
[6] La recente annunciata chiusura della famosa ENA, da sempre immaginata da noi come “la” soluzione al problema della qualificazione della dirigenza, è un indizio chiaro di un superamento di quel modello di élite.
[7] Il dl.lgs 74/2017 indica come prima categoria di obiettivi su cui impostare la valutazione gli “obiettivi generali, che identificano, in coerenza con le priorita’ delle politiche pubbliche nazionali nel quadro del programma di Governo e con gli eventuali indirizzi adottati dal Presidente del Consiglio (…) le priorita’ strategiche delle pubbliche amministrazioni in relazione alle attivita’ e ai servizi erogati (…).
[8] https://performance.gov.it/system/files/LineeGuidaeRifNorm/LG_Valutazione_partecipativa_28-11.pdf
[9] Per capire cosa si intende per short termism (una traduzione approssimativa potrebbe essere “la pratica di considerare solo gli immediati vantaggi di un’azione”) cfr. l’interessante volume “Ripensare il Capitalismo” curato da M.Mazzucato e M.Jacobs – Laterza 2017, specie il capitolo IV scritto da Andrew G. Haldane
[10] https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/le-15-proposte/