Il decreto Brunetta e il Fattore PO

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Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, una riflessione di Valeria Sborlino sulla questione delle Pari Opportunità, il così detto "Fattore PO" che, per la prima volta, entra a pieno titolo in una normativa di carattere generale – il decreto 150/2009 – tra i fattori che condizionano il funzionamento organizzativo.

16 Febbraio 2010

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Valeria Sborlino*

Articolo FPA

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, una riflessione di Valeria Sborlino sulla questione delle Pari Opportunità, il così detto "Fattore PO" che, per la prima volta, entra a pieno titolo in una normativa di carattere generale – il decreto 150/2009 – tra i fattori che condizionano il funzionamento organizzativo.

"Nelle accese discussioni che hanno accompagnato la genesi e le successive stesure del decreto 150/2009, pochi – per quanto io abbia potuto vedere – hanno sottolineato la novità rappresentata dall’inclusione del Fattore PO (Pari Opportunità) tra i fattori di misurazione e valutazione della performance organizzativa di un’amministrazione.

Certo, il Fattore PO è all’ultimo posto nell’elenco riportato nell’articolo 8 (Ambiti di misurazione e valutazione della performance organizzativa) e questa sua posizione lascia trapelare una qualche marginalità assegnata alla questione dagli estensori del decreto, probabilmente spinti a farsene carico dalle sollecitazioni provenienti dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Qualunque ne sia l’origine, è comunque significativo che per la prima volta la questione della parità e delle pari opportunità entri a pieno titolo in una normativa di carattere generale tra i fattori che condizionano il funzionamento organizzativo. Come da tempo sostiene chi si occupa di presenza femminile e performance delle organizzazioni, una gestione attenta al tema delle pari opportunità non risponde soltanto a fondamentali obiettivi di uguaglianza, ma costituisce una leva importante per il miglioramento dell’efficienza organizzativa e della qualità dei servizi resi.

Nell’ultimo decennio, e con un ritmo crescente, nelle amministrazioni pubbliche sono entrate molte giovani donne, dotate di titoli di studio adeguati e fortemente motivate all’impegno e allo sviluppo professionale. Questa importante presenza quantitativa rende oggi ancora più dissonante il dato della limitata partecipazione femminile ai livelli alti della piramide organizzativa. Con l’esclusione di qualche importante eccezione, i luoghi delle decisioni pubbliche sono ancora prevalentemente occupati da uomini.

Una conferma viene dall’ultimo rapporto del World Economic Forum che nella graduatoria del Gender Gap colloca l’Italia al 45simo posto nell’indicatore che qui più interessa, quello della partecipazione femminile alle decisioni pubbliche. Il basso valore dell’indicatore risente in maniera determinante del deficit tutto italiano di presenza femminile nelle istituzioni politiche – nazionali, regionali e locali -, ma anche la prevalenza maschile nelle strutture manageriali vi contribuisce in maniera significativa. Con ciò non voglio affatto sostenere che ci siano nella generalità delle amministrazioni pubbliche problemi di discriminazione diretta nei confronti della componente femminile. Esiste piuttosto un insieme di fattori più complesso, in cui si intrecciano variabili culturali, organizzative e soggettive, che senza adeguate politiche di gestione non possono che scalfire solo di poco l’originale squilibrio tra presenza femminile e presenza maschile nei ruoli di responsabilità.

Basta accennare al tema della valutazione delle prestazioni, per avere un’idea di quanto ancora la gran parte degli strumenti gestionali siano declinati “al maschile” e ispirati da logiche stereotipate (ricordo in proposito l’intervento di Isabella Rauti all’ultimo Forum PA). I criteri di valutazione fanno generalmente riferimento a un modello di carriera tradizionale, privo di interruzioni, più lontano dall’esperienza del lavoro femminile; le qualità attese e premiate sono generalmente quelle tipiche del management al maschile; gli assessment center sono per lo più basati su profili costruiti sulle caratteristiche di manager uomini e solo molto di recente si è cominciato ad introdurre nei sistemi valutativi fattori nuovi che fanno intravedere qualche incrinatura nello stile di leadership di riferimento.

Il decreto Brunetta viene solo parzialmente in aiuto in questa materia: all’articolo 9 (Ambiti di misurazione e valutazione della performance individuale) precisa sì che nella valutazione della performance individuale del personale non vanno considerati i periodi di congedo di maternità, paternità e parentali, ma manca di includere specificamente tra i fattori a cui va collegata la valutazione dei dirigenti e del personale con responsabilità organizzativa la capacità di gestire, promuovere e valorizzare le differenze di genere.

Il punto è che la contraddizione tra la crescente presenza di donne competenti in moltissime strutture pubbliche e il permanere di un insufficiente riconoscimento nei percorsi di carriera costituisce un punto di debolezza nella sfida dell’innovazione e della creazione di valore: organizzazioni che non capitalizzano pienamente il potenziale di più di metà delle loro popolazioni, stanno allocando male le risorse e stanno sprecando le loro opportunità soprattutto in una visione orientata al futuro. Nella fase di trasformazione attraversata dalla nostra pubblica amministrazione, una gestione attenta e lungimirante delle pari opportunità può contribuire al successo del progetto di riforma. L’innovazione necessaria a sviluppare un’amministrazione amica dei cittadini (nell’orientamento al servizio, nelle modalità di funzionamento, nell’attenzione ai risultati, ecc.) passa infatti anche attraverso la messa in valore di competenze nuove e diverse rispetto a quelle tradizionalmente prevalenti nel settore pubblico e l’ingresso nelle posizioni di responsabilità di nuovi soggetti.

La questione non è naturalmente che le donne siano migliori manager degli uomini, ma più semplicemente che le donne portano una consapevolezza diversa dei bisogni, delle attenzioni e degli interessi di chi utilizza i servizi pubblici e una possibilità di aggiornamento di pratiche manageriali che si stanno rivelando obsolete. La diversità, se riconosciuta e valorizzata, rompe routines consolidate e facilita l’innovazione.

Perseguire la parità tra i generi nella Pubblica Amministrazione significa dunque agire contemporaneamente sui diversi fronti dell’innovazione dei modelli organizzativi, del rinnovamento della classe dirigente, dell’uguaglianza delle opportunità e del riconoscimento del merito e, non ultimo, della capacità delle amministrazioni di promuovere la parità anche nel contesto esterno.

Io non so se dietro il decreto Brunetta ci sia questa visione, quello che rilevo è l’opportunità che il decreto apre di riconoscere e far riconoscere la valenza organizzativa del Fattore PO e di strumentarne l’applicazione. Oltre all’articolo 8, il decreto Brunetta richiama il tema delle pari opportunità in altri due altri articoli:

  • l’art 13 (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), comma 5, che indica tra i compiti di indirizzo e coordinamento della Commissione nei confronti degli Organismi indipendenti quello di “favorire la cultura delle pari opportunità con relativi criteri e prassi applicative”
  • l’art. 14 (Organismo indipendente di valutazione della performance), comma 4, che annovera tra le responsabilità dell’Organismo la “verifica dei risultati e delle buone pratiche di promozione delle pari opportunità”.

Come si può vedere, si tratta di riferimenti importanti ma necessariamente ancora generici, che richiedono, forse più degli altri fattori determinanti della performance presi in considerazione dal decreto, approfondimenti e sperimentazioni. Si tratta in altre parole di costruire un sistema di misura delle pari opportunità all’interno di un’organizzazione, che permetta di

  • valutare lo stato di partenza
  • individuare gli obiettivi di miglioramento percorribili nell’ambito della normativa esistente, dei quali verificare il grado di raggiungimento a fine periodo
  • comparare le diverse amministrazioni con riferimento a questo specifico fattore e costruire una graduatoria che serva ad ogni amministrazione come benchmark per identificare i propri punti di forza e di debolezza e come guida per politiche basate sull’apprendimento dalle esperienze delle amministrazioni che hanno avuto più successo nel promuovere la parità.

Sul piano metodologico, ciò significa individuare un modello di riferimento che individui le dimensioni (categorie) da valutare, identifichi le variabili che qualificano le diverse dimensioni e definisca gli indicatori che le misurano. Secondo il decreto, questo compito spetta alla Commissione nazionale (per inciso: un’applicazione solo parziale del principio delle pari opportunità, vista la presenza di una sola donna su cinque componenti). L’utilizzo e il confronto dei percorsi già fatti in questa direzione da amministrazioni e studiose del tema (spesso poco conosciuti o conosciuti solo agli addetti ai lavori, proprio per il tema trattato) e anche da alcune grandi organizzazioni private attente alla valorizzazione delle proprie risorse femminili, è l’occasione per evitare uno dei tanti sprechi di competenze che proprio il decreto vuole eliminare.

La sfida a me sembra sia come mettere insieme e valorizzare queste esperienze in tempi rapidi: l’applicazione del decreto Brunetta va avanti a scadenze ravvicinate e la finestra temporale è stretta. Ma l’occasione di contrastare la tradizionale debolezza della presenza femminile nella nostra PA non può essere sprecata".


 

* Valeria Sborlino è esperta di organizzazione con responsabilità per l’area Pubblica Amministrazione presso Butera & Partners.

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