Il grasso che cola

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Il presidente Renzi ha recentemente dichiarato che “anche nella macchina della pubblica amministrazione alcuni tagli vanno fatti, c’è troppo grasso che cola…” La frase ha acceso ovviamente una polemica significativa, in cui però nessuno ha negato il fatto in sé, ossia che nella PA ci siano sprechi importanti da eliminare, ma ha precisato con forza dove questi sprechi non sono: non sono negli stipendi pubblici ridotti al lumicino dal blocco contrattuale; non sono nei bilanci dei comuni, strozzati dal taglio dei trasferimenti, dal patto di stabilità e dalla crescita dei bisogni sociali; non sono certo nei bilanci delle forze dell’ordine, presidio di democrazia; non sono negli investimenti pubblici, falcidiati drasticamente da una crisi drammaticamente lunga. E così via. Ma allora questi sprechi dove sono?

26 Settembre 2014

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Carlo Mochi Sismondi

Il presidente Renzi ha recentemente dichiarato che “anche nella macchina della pubblica amministrazione alcuni tagli vanno fatti, c’è troppo grasso che cola…” La frase ha acceso ovviamente una polemica significativa, in cui però nessuno ha negato il fatto in sé, ossia che nella PA ci siano sprechi importanti da eliminare, ma ha precisato con forza dove questi sprechi non sono: non sono negli stipendi pubblici ridotti al lumicino dal blocco contrattuale; non sono nei bilanci dei comuni, strozzati dal taglio dei trasferimenti, dal patto di stabilità e dalla crescita dei bisogni sociali; non sono certo nei bilanci delle forze dell’ordine, presidio di democrazia; non sono negli investimenti pubblici, falcidiati drasticamente da una crisi drammaticamente lunga. E così via. Ma allora questi sprechi dove sono?

Credo che per rispondere dobbiamo tornare alla definizione di spreco, altrimenti rischiamo di fare una grande confusione, di ragionare con la pancia e di azzardare giudizi moraleggianti, dove invece è necessaria una grande razionalità.

Una definizione chiara e utile dice che “spreco è qualsiasi impiego di risorse che non produce valore per il cliente”. Come vedete in questa definizione non è affatto centrale fare bene il proprio lavoro, essere diligenti ed efficienti, saper risparmiare nell’acquisto dei beni strumentali o ridurre gli stipendi. In altre parole un’amministrazione può essere efficiente, ossia usare le risorse in modo ottimale in proporzione al prodotto o servizio erogato, e nello stesso tempo essere un monumentale spreco se questo prodotto o servizio non costituisce un valore per i cittadini o, come più sovente succede, il valore prodotto non supererebbe quella che Mauro Bonaretti, in un magistrale articolo di qualche anno fa, indicava come “la prova del prezzo”.

Questo mi porta ad una constatazione che io trovo inconfutabile: lo spreco principale nella PA non è nel funzionamento, certamente migliorabile, di ogni singolo ente o unità operativa, ma nel caotico affastellarsi di una geografia degli enti che è nata dalla tenace volontà di sopravvivere e di crescere propria di ciascuno di essi, al di là dell’effettivo valore della sua missione.

Da questa affermazione derivano tre conseguenze non banali: da una parte dobbiamo rivedere questa geografia in un processo anche impietoso di auditing che preveda, dove servano, tagli, semplificazioni, accorpamenti; che abbia come stella polare il “valore pubblico” prodotto; che proceda in forma scientifica, ossia attraverso un onesto e continuo processo di verifica, evitando luoghi comuni troppo facili.

Dall’altra parte è indispensabile poter contare su una grande flessibilità nell’impiego delle persone. Gli impiegati pubblici sono la ricchezza e il valore della PA, ma congelati come sono in un’immobilità fiabesca dove nessuno si sposta, nessuno guadagna una lira in più per merito né una lira in meno per demerito, ne possono costituire anche la condanna. Non si scappa: se la geografia degli enti è irrazionale e non è strutturata sull’effettiva capacità di produrre valore (ossia sulla quantità e qualità degli outcome per i cittadini e le imprese), se dobbiamo quindi necessariamente operare per una gigantesca e coraggiosa riorganizzazione che non sia basata solo sull’efficienza o sulla produttività fine a se stessa, ma sulla capacità di rispondere ai bisogni sociali ed economici di un Paese in grave difficoltà, allora dobbiamo per forza poter agire sulla mobilità degli impiegati pubblici. Il dato che ho più volte ricordato che indica nell’un per mille il tasso di mobilità nelle amministrazioni è il segno dell’enorme lavoro che ci aspetta.

Certo non sarà un’operazione indolore, ma questo porta sul tavolo un altro enorme fardello che il nostro Paese si porta dietro: un mercato del lavoro asfittico e immobile, favorito da una gestione della spesa sociale che ha penalizzato qualsiasi flessibilità, favorendo il posto fisso e le pensioni. In questo senso riforma della PA e riforma del lavoro, comunque la si pensi, non possono che essere viste insieme.

Chi dice di poter cambiare la PA nel senso qui indicato, ossia moltiplicando la sua capacità di produrre valore pubblico, senza una profonda riorganizzazione del pubblico impiego che preveda una massiccia mobilità tra comparti, un coraggioso ricambio generazionale, una maggiore flessibilità in entrata e in uscita, non può che essere in mala fede. Qui si è bloccata l’azione di Cottarelli e si sono inceppate le sue slides razionali e condivisibili, qui si è fermata la spinta propulsiva di tutte le riforme.

Basta questa ritrovata flessibilità per fare della PA una macchina senza sprechi? Certamente no. Certo, come non ci stanchiamo di ripetere,  bisognerà scegliere e formare meglio i dirigenti e ridurne il numero e in certi casi gli stipendi, certo bisognerà tagliare i tentacoli alla rapacità di quel sottobosco della politica che vede ancora la PA come un terreno di conquista (vedi il numero di società partecipate e di portaborse gabellati come “consulenti”), certo bisognerà essere più bravi e onesti negli acquisti debellando la piaga della corruzione, certo dovremo valorizzare meglio le professionalità interne prima di comprarne altre da fuori, certo dovremo ripensare tutti i processi sulla base delle potenzialità che sono offerte dall’economia della rete e dalle nuove tecnologie. E così via. Ma queste necessarie azioni sono vino nuovo che richiede botti nuove: un quadro organizzativo radicalmente mutato, un perimetro pubblico che sappia valorizzare tutte le forze vitali della società, uno scongelamento globale del sistema, non per ridurre gli impiegati pubblici (ne abbiamo un milione e mezzo in meno della Francia), ma perché più giovani, meglio organizzati, più qualificati e più razionalmente distribuiti siano il cuore e la mente di una PA in grado di aiutare il Paese ad uscire dalla crisi e non di una pesante e statica macchina pubblica che ne costituisca la zavorra.

Infine la terza e più importante conseguenza: come la guerra che è cosa troppo seria per farla fare ai generali, così questa riforma non può essere lasciata né solo ai tecnici, né solo ai burocrati, né tantomeno solo ai politici. E’ un Paese intero che deve partecipare alla riforma verso un’organizzazione pubblica che produca valore. In questo campo il senso profondo della collaborazione, della partecipazione e della trasparenza nel costruire lo “Stato partner” è l’unica via: tutto il resto non può che essere un fuoco di paglia.

 

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