Innovare l’innovazione: la lezione dei referendum

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La parola innovazione solo sul nostro sito ricorre più o meno in tremila documenti, non parliamo neanche del numero delle occorrenze se la ricercate su Google. Mi pare utile quindi una riflessione per provare a precisarne meglio alcuni aspetti alla luce dei risultati dei referendum. Io credo sia nella nuova attenzione a quella che in un articolo di qualche tempo fa ho chiamato “innovazione empatica”. Stiamo parlando di cose come la capacità di fare rete, la consistenza e la qualità dei beni relazionali del Paese, la coesione sociale e con essa la capacità delle comunità di reagire alla crisi in forme non competitive, ma collaborative e solidaristiche.

15 Giugno 2011

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

La parola innovazione solo sul nostro sito ricorre più o meno in tremila documenti, non parliamo neanche del numero delle occorrenze se la ricercate su Google (per i curiosi oltre 17 milioni in italiano e 390 milioni in inglese!). Mi pare utile quindi, oggi che ricorre la Giornata Nazionale dell’Innovazione, una riflessione per provare a precisarne meglio alcuni aspetti alla luce dei risultati dei referendum.

Partiamo proprio da qui, dalla plebiscitaria risposta ai quesiti referendari. A prima vista si potrebbe dire che per certi versi le scelte degli italiani non siano di per sé nel segno dell’innovazione. Non è certo di per sé innovazione amministrativa mantenere la gestione pubblica dell’acqua: abbiamo infatti una lunghissima tradizione di gestioni pubbliche, con diversa qualità (mediamente non brillante) e con diversa fortuna. Probabilmente senza le norme europee che proteggono la concorrenza non avremmo avuto neanche questo tentativo, un po’ rozzo, di introdurre mercato, per altro ora sonoramente bocciato. 

Né sembra di per sé connotarsi come innovazione bloccare definitivamente la strada nel campo dell’energia nucleare, senza avere un piano credibile di scelte alternative: lo facemmo già più di vent’anni fa.

Allora dov’è la portata innovativa che invece io ritengo abbia la scelta referendaria? Dove si nasconde l’innovazione? Io credo sia nella nuova attenzione a quella che in un articolo di qualche tempo fa ho chiamato “innovazione empatica”. Stiamo parlando di cose come la capacità di fare rete, la consistenza e la qualità dei beni relazionali del Paese, la coesione sociale e con essa la capacità delle comunità di reagire alla crisi in forme non competitive, ma collaborative e solidaristiche. Chiacchiere di fronte alla crisi del Paese?

Non credo. Vedo infatti una profonda discontinuità, un’innovazione appunto, con cui dobbiamo fare i conti e che è sia nel metodo sia nel merito.

Alla qualità della politica che abbiamo visto il 12 e 13  eravamo profondamente disabituati: torna in qualche misura la partecipazione attiva, che, seppure in modi diversi, aveva accompagnato la mia gioventù di tardo sessantottino (nel ’68 avevo 16 anni), ma che in dotte disquisizioni era data per sepolta: ma è una partecipazione 2.0 [leggete l’articolo di Tiziano Marelli in questa Newsletter]. Il metodo è infatti quello del web 2.0, quello i cui contenuti sono fatti in forma cooperativa dagli stessi lettori e in cui si sfalda il muro tra chi produce e chi fruisce delle informazioni. È il metodo del passaparola virale, di chi gioca in prima persona, del cittadino che non ha bisogno dell’empowerment dato dalla politica, ma se lo piglia in un protagonismo immediato. Certo è anche un protagonismo che taglia i grigi, che rischia di vedere solo alternative massimalistiche e non le faticose strade di mediazione e il sentiero in salita della compatibilità: ma non è questa la caratteristica dei giovani? Ed è questa l’altra novità fondamentale. I giovani c’erano: non se ne vedevano in giro da un po’. Nei referendum ci sono stati e si sono sentiti, hanno fatto la differenza.

Ma oltre il metodo è anche nel merito che vedo una cambio di paradigma: la vittoria dei referendum sui servizi pubblici locali e sulla gestione del servizio idrico in particolare segna infatti un profondo cambiamento. Vi dico subito, così mi scopro, che non è questa una vittoria che di per sé mi fa felice: una più meditata riflessione sulla gestione dei servizi credo sia indispensabile e sarà comunque materia di un prossimo editoriale più documentato, che cercherà di rimettere alla vostra attenzione il valore di una corretta partnership pubblico privato. Resto infatti fedele al motto del “reinventing government” che vede una PA che si deve spostare dai remi al timone e non gioisco di un’amministrazione che gestisca sempre in proprio i processi industriali di distribuzione dell’acqua o di produzione di altri servizi. 

Ma non è di questo che volevo parlare ora, ma della discontinuità data da una nuova attenzione ai beni comuni, ai commons . Ne abbiamo parlato spesso, abbiamo proposto la stessa pubblica amministrazione come commons, la conoscenza come bene comune (straordinario in questo senso il lavoro che aveva fatto ad esempio la Sardegna di Soru), ma questa riflessione era rimasta all’interno di una cerchia di addetti ai lavori.

Con questi referendum l’attenzione ai beni comuni esce dalle librerie e entra nelle piazze. Il che rende tutto più semplice: c’è infatti l’energia; ma anche più complicato: ora diventa agenda politica che chiede soluzioni e alla lunga non può vivere di slogan.

Credo proprio che qui sia la novità: in un necessario ripensamento delle relazioni. Sta velocemente cambiando la relazione tra governo e governati e tra rappresentanti e rappresentati, la relazione tra sfera del pubblico e sfera del privato, la relazione tra stato e mercato e anche, speriamo, la relazione tra giovani e meno giovani in una riappropriazione del futuro da parte dei giovani che personalmente mi induce ad un profondo sollievo.

Sono ancora innovazioni fragili e in divenire: ma non sono un po’ così tutte le innovazioni? Piante da mettere a dimora con cura, senza scordarci di innaffiarle con il cuore sì, ma anche e soprattutto con una vigile e onesta ragione non scevra da studio, documentazione, numeri e valutazioni.

Chi mi legge sa che ho la mania di proporre libri da leggere, mi scuserete quindi se vi lascio anche questa volta con un consiglio. Mi faccio perdonare con il fatto che è un libricino brevissimo, un saggio da leggere in un’ora e da meditare per una vita. Si chiama “Vite di corsa” ed è di Zygmunt Bauman, l’inventore del concetto di “modernità liquida” ed è edito da Il Mulino. Non ve lo racconto perché fate prima a leggerlo, ma c’è, in nuce, tutta la necessità di un’innovazione che parta proprio da una diversa visione dello sviluppo, delle relazioni e del mondo che vogliamo.

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